Alcuni studiosi affermano una tesi secondo cui l’animo del siciliano sia rimasto invariato nei secoli, oltre a presentare diverse costanti psicosociali tra pensiero e costume. Tuttavia, non ci preme speculare su validità e ragioni del presunto “sangue barocco” (come lo ha chiamato Salvatore Scalia), bensì compiere un viaggio nel tempo a non troppi anni fa, per far visita a qualche personaggio illustre della città di Catania alle prese con l’autoaffermazione (per non ricorrere a quel felice significante coniato da Vitaliano Brancati per designare chi fa come il gallo nel pollaio e che sarà dunque prototipico esemplare del fenomeno del “gallismo”). E di gallo qui si parla.
L’aneddoto che ci accingiamo a raccontare è la storia di un duello tra studiosi svoltosi tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, in piena epoca fascista (ma questo, a dire il vero, e a dispetto di tutto, non è che un superfluo dettaglio). Questo pittoresco e atemporale spaccato di vita provinciale va a solleticare le corde di altre tentazioni umane, quelle del pettegolezzo (per non dire calunnia) e del mobbing in una guerra fredda tra istituzioni e loro rappresentanti. Questa vicenda ci è narrata da Giovanni Pasqualino in “Il Gallus Cantavit. Un enigma belliniano” (ed. Tabula fati).
Il protagonista e la vittima reale di tale guerra è stato il grande compositore catanese Vincenzo Bellini con la sua leggendaria opera prima, composta all’età di soli sei anni, nel 1807, intitolata Gallus Cantavit, sulle parole della vicenda evangelica del triplo rinnegamento da parte di Pietro prima che il gallo avesse, appunto, cantato. Se sin dalla sua prima biografia, a opera di Filippo Cicconetti (1859), e da quelle a seguire, tale opera veniva pedissequamente citata, tuttavia lo spartito non era mai stato rinvenuto e dunque mai ne era stata provata la veridicità.
Le carte in tavola cambiavano, un bel giorno d’inizio 1939, in seguito al fortuito ritrovamento delle partiture dell’opera tra carte varie provenienti dalla Biblioteca Benedettina di San Nicolò l’Arena a opera di Orazio Viola, direttore della Biblioteca Comunale ed Ursino Recupero (oggi Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero). Ci basta considerare l’importanza del ritrovamento e il fatto che Viola, all’epoca, era a Catania uno dei tre più importanti critici del Bellini (insieme a Guglielmo Policastro e Francesco Pastura) per immaginare quali emozioni – e quali ambizioni – devono aver dominato in quel momento nell’animo dello scopritore.
Risulta utile premettere che ognuno dei tre rivendicava il proprio primato al momento di occuparsi del Cigno (come veniva chiamato per l’eleganza dello stile musicale) e mirava a ritagliare per sé una propria fetta di “opinione in merito”, talvolta con qualche arroganza, tal altra volta, nel caso di Viola, a tutti, ma proprio tutti, i costi.
Il 2 febbraio dello stesso anno esce un articolo su Il Resto del Carlino intitolato “E’ stato ritrovato il Gallus Cantavit…?” e firmato da Policastro, il quale era stato puntualmente avvertito da Viola sulla sorprendente scoperta. Fu però quell’articolo occasione di discordia poiché Policastro si attenne alla tesi sostenuta sin da Cicconetti circa la paternità dell’opera da attribuire a Bellini il Cigno (che l’aveva composta ma, da bimbo qual era, aveva dovuto ricorrere all’ausilio del nonno, Vincenzo Tobia Bellini, anch’egli musicista e compositore, per farlo correggere e ricopiare in bella, per destinarla, infine, in dono a un monaco benedettino; opera la quale era stata poi copiata e ricopiata più volte – tesi avvalorata da successivi studi). Nella catalogazione che Viola, da bibliotecario, svolge solamente il 23 ottobre 1940, quasi due anni dopo, è possibile leggere, più che una nota da catalogo, la cronaca del proprio orgoglio ferito, un’invettiva contro tutti coloro che lo avevano contraddetto o ostacolato nel suo progetto di emergere quale maggiore e incontrastato critico belliniano. Annotava che del ritrovamento aveva avvisato subito Policastro «dicendogli però che è opera di Vincenzo Bellini Senior» – dove quel però potrebbe stare per “a differenza di quanto ha poi asserito Policastro” o “a differenza di quanto in effetti non fosse” – e che si trattava dell’originale manoscritta. Scriveva inoltre che l’inattendibilità attribuita alla sua tesi fosse opera di un gruppetto di fascisti, gli stessi che si erano già resi in passato rei di altri soprusi a suo discapito in quanto “concorrente” sul mercato della critica musicale. Fa – e qui sta la reciprocità delle macchinazioni volte ad arrecare squalifiche e pregiudizio – indiretto riferimento a un musicologo che, in giovane età, era improvvisamente subentrato quale voce qualificata e accreditata fino a monopolizzare Bellini junior come se possedesse su di lui ogni diritto di critica (secondo Viola, «allo scopo di appagare le sue vanità»). Il nome di tale musicologo era Pastura, prima dell’avvento del quale Viola godeva di grande prestigio, tanto che negli anni ’20 lo stesso Antonio Aniante, al momento di scrivere “Vita amorosa di Vincenzo Bellini”, lo aveva consultato quale fonte storica più affidabile (certo non sufficientemente tale per controbilanciare le note tendenze mistificatorie dello scrittore di Viagrande che si fece autore di più d’un falso storico oltre al sopracitato testo).
Al vecchio esperto di “cose belliniane” la critica della critica aveva preferito il giovane Pastura, che nella sua arroganza aveva tuttavia restituito Bellini junior, come sappiamo, alla sua realtà di uomo, strappandolo a quella storiografia idilliaco-romantica che lo aveva trasformato in un personaggio mitologico.
Viola, defraudato delle sue competenze, osteggiato dai colleghi, svolgeva dignitosamente, tuttavia, il suo ruolo di controparte bellica in una dinamica circolare in cui la punteggiatura dei rapporti causa-effetto restava arbitraria: violando le norme vigenti, apriva pacchi provenienti dal fondo benedettino senza autorizzazione né testimoni e aveva provato, nei modi che sappiamo, a ritagliarsi uno spazio di critica che potesse essere solo suo.
Nella reciprocità dell’ostruzionismo, continuerà a sostenere la tesi pro-senior. Si dovrà aspettare il 1971 affinché un esperto super partes, Herbert Weinstock, prenda ufficialmente posizione rispetto al ritrovamento.
Dal ’39 sono passati quasi 80 anni, eppure la controversia attorno al Gallus resta un giallo: i pareri sono ancora discordanti, qualcuno continua a non autenticare l’opera perché non scritta di pugno dal suo autore e addirittura vi è qualcuno che mette in discussione l’esistenza stessa del brano, restituendo (forse) un pezzo di Bellini a quell’aura leggendaria che ne aveva alimentato il mito.
Giulia Sottile