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Compie 150 anni la Storia della letteratura italiana

Arezzo aveva Guittone, Lentini il suo Jacopo (il Notaro, come lo chiamava Dante); Todi aveva Jacopone, Pistoia il suo Cino, Bologna il suo Guido e Firenze aveva il suo Brunetto. Ma erano poeti in erba, versificatori svenevoli e superficiali. Il loro contributo artistico non riguardò tanto la storia della poesia. Riguardò di più il volgare italico, che assumeva gradatamente forma e dimensione linguistica.

A parte Jacopone, la cui poesia fu prevalentemente lirica, gli altri erano ragionatori d’amore, idealizzavano la donna alla maniera dei trovatori. La loro poesia non aveva contenuti seri. E nessuna traccia vi si trova di passione civile. Si elevano su un piano superiore Cino da Pistoia, che fu maestro di Francesco Petrarca; e Guido Guinizelli da Bologna, che Dante considerava il padre della lingua italiana. In Guinizelli non c’è ancora il poeta, scrive De Sanctis, ma c’è l’artista. La poesia non è soltanto puro sentimento: comincia ad acquisire una forma. Si evolve: è ora poesia erudita e interessa le classi colte. Ma il primo vero poeta della letteratura italiana fu Guido Cavalcanti, amico di Dante fino alla morte, che tolse il primato all’altro Guido, il bolognese. Con Cavalcanti e con il Dante della Vita Nova la nostra poesia assume altri contorni, altre profondità di pensiero e di sentimento, realmente nasce. Più non è poesia convenzionale, vuoto esercizio linguistico, ma vera lirica, pura ispirazione a cui soltanto ubbidisce: il poeta esprime ciò che sente nell’animo, dà sfogo al proprio sentimento d’amore.

Sono poeti del Duecento. Secolo che, per il De Sanctis, lascia una lingua già formata, una poetica, una filosofia ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico. Beatrice è “il primo individuo poetico”. Ma è l’aureo Trecento che realizza quanto il secolo precedente ha concepito e preparato. Il Trecento si apre con il Giubileo di Bonifacio VIII. Benché laici, i suoi dotti vengono chiamati chierici. Dante dà il suo nome al nuovo secolo. Nel suo capo tenzonavano il filosofo e il poeta: “ci era il Convito e ci era la Commedia”, che i contemporanei chiamavano Divina.

E con il Trecento siamo già arrivati, correndo troppo, al sesto dei venti capitoli della Storia della letteratura italiana, grandiosa – e ancora ineguagliata – opera di Francesco De Sanctis. Opera nella quale l’ideale viene calato nel reale. Che vuol dire: opera nella quale la letteratura si fa storia, cioè svolgimento del reale; e la storia si fa letteratura, cioè ideale artistico. Scritta prevalentemente nel 1870, anno della Breccia di Porta Pia, e pubblicata alla fine del 1871, centocinquanta anni fa, l’ideale calato nel reale si può altresì leggere come l’ideale dell’unità d’Italia realizzato, con la conquista di Roma, nel suo storico svolgimento.

Da Morra Irpina (dov’era nato nel 1817), De Sanctis si trasferì a nove anni a Napoli, dove studiò alla scuola purista di Basilio Puoti. Lesse molto, mostrò subito spiccato interesse per l’Illuminismo. Ma due autori furono preminenti nella sua formazione: Vico ed Hegel. L’uno in lui precorre l’altro. Vissuto a cavallo di due secoli, Vico è l’erudito che con calma agita i più grandi problemi. Quando tornò a Napoli, dopo essersi chiuso per nove anni nella biblioteca di un convento del Cilento, Vico non riconobbe la sua città e vi si sentì come straniero: “l’aveva lasciata tutta fisica – scrive il nostro autore nella sua Storia letteraria – e la ritrova tutta metafisica”. De Sanctis studia l’hegelismo nei due anni, quasi tre, in cui viene rinchiuso nel Castel dell’Ovo, con l’accusa di essere mazziniano. Uscito dal carcere, andò a Torino, ma non venne ben accolto nell’ambiente universitario. Ragion per cui si trasferisce a Zurigo dove insegnerà letteratura italiana. Tornato in Italia nel 1860, De Sanctis abbinò la carriera politica (fu governatore della provincia di Avellino e poi deputato al parlamento) a quella di letterato, di scrittore e di docente. Negli ultimi anni della vita si occupò di Manzoni e di Leopardi, ma anche di Zola e del naturalismo francese. E proprio con Manzoni e con Leopardi si chiude la sua Storia della letteratura italiana: concepita come storia, dal Medioevo al Risorgimento, di una coscienza di patria mai matura, sempre in divenire.

Sono I saggi critici e il Saggio critico sul Petrarca che preparano la sua opera più grande. I primi dieci capitoli della Storia della letteratura italiana abbracciano due secoli: il Duecento e il Trecento. Il Medioevo teologico e misterico di cui la Commedia è la sintesi; e la prima transizione da un’epoca all’altra di cui Petrarca con la sua poesia è l’inquieto, sofferente, malinconico protagonista. Con Dante l’Italia aveva il suo poeta; con Petrarca aveva il suo artista. Dante alza Beatrice nell’universo, ne fa una figura metafisica; Petrarca umanizza l’universo in Laura. Boccaccio infine rende corporea la donna. Ѐ l’ideale contemplativo che per la prima volta, nella concezione del Sanctis, si cala nel vivente. Il Decamerone del Boccaccio è la negazione e la canzonatura del Medioevo. Poi vi sono gli otto capitoli che hanno come parte centrale il Rinascimento, Ariosto e Machiavelli, e vanno dalle Stanze del Poliziano all’Adone del cavalier Marino. A quel Seicento che non piaceva al De Sanctis: “Il secolo era quello, e non potea esser altro; era una conseguenza necessaria di non meno necessarie premesse”. Gli ultimi due capitoli – intitolati La nuova scienza e La nuova letteratura – sono dedicati ai cosiddetti “novatori”. Agli uomini nuovi della cultura italiana: Bruno, Campanella, Vico e Galilei nella filosofia e nella scienza; Alfieri, Foscolo, Manzoni e Leopardi nella tragedia e nella poesia. Una lunga mappa di uomini e di epoche. E di poeti, sensibilissimi, che, della transizione da un’epoca all’altra, vivono – moralmente e artisticamente – il contrasto, il dissidio. Essere nello stesso tempo parte di un mondo in agonia e di un mondo nuovo in netta contrapposizione al vecchio. Al Petrarca, che è stato il primo poeta della transizione, segue (nel Cinquecento) Torquato Tasso. La cui malinconia è ancora più profonda, perché sente nel cuore più che nell’immaginazione lo strazio di un’epoca ipocrita. Un’epoca più critica che poetica. E di sublime bellezza sono le pagine dal De Sanctis dedicate al parallelo tra questi due poeti. Della transizione Foscolo è infine la terza figura illustre e malata. Anche lui vive la crisi di due mondi inconciliabili: l’età napoleonica e la Restaurazione; il classicismo e il romanticismo. Il naufragio, sul più bello, delle sue speranze politiche gli rendono dolorosa e drammatica questa crisi.

Machiavelli e Ariosto occupano la parte centrale dell’opera. L’autore del Principe demolisce il Medioevo perché quell’epoca aveva come concetto “fedeltà e sudditanza”. Al papa e all’imperatore. Machiavelli è, per il De Sanctis, l’uomo più pratico e positivo attorno al quale si delinea una libertà di patria e una coscienza nazionale. Ed è stata una vera fortuna per Bruno, Campanella e Telesio, per il libero pensiero da questi filosofi messo in moto, aver avuto lui come dirimpettaio. Sulle rovine del Medioevo nasce il poema cavalleresco. Canto e pittura di donne e cavalieri, cortesie e audaci imprese. Il mondo del “meraviglioso” che Ludovico Ariosto rappresenta “con semplicità e naturalezza”. All’Orlando Furioso lavorò dieci anni; e “spese tutto il rimanente della vita a emendarlo”.

Metastasio – “Passato è il tempo, Enea,/che Dido a te pensò” – è l’ultimo esponente della vecchia letteratura. Perché il gusto del pubblico preferisce ora la musica, il melodramma, alla parola poetica. Nel passaggio dal diciottesimo al diciannovesimo secolo la parola è patrimonio delle opere dotte. I puristi, che non sopportavano la prolissità del Cinquecento, riportano di moda il motto: “Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava”. Per il De Sanctis l’entusiasmo del secolo diciottesimo, il secolo della filosofia e della “coltura”, il secolo illuminato, è pari all’entusiasmo del Rinascimento che considerava barbarie il Medioevo. E in un secolo in cui tutto era riforma anche la letteratura andava riformata. Compare sulla scena, come nuova letteratura, la commedia di Goldoni. Ed è una letteratura che non insegue più lo “straordinario” o il “meraviglioso”: si cala invece nel reale, “in tutte le particolarità della vita reale”. Le idee sono nuove, ma gli uomini restano vecchi. I poeti combattono l’Arcadia, ma non se ne liberano del tutto. Questo è il tempo in cui (23 maggio del 1729) nasce Giuseppe Parini. Che con la sua ironia – “profonda e trista” – saprà dissimulare “l’indignazione dell’uomo offeso”. All’Italia, davanti a tutte le nazioni “in ogni genere di scrivere”, mancava la tragedia, genere eroico su cui fondare la nuova patria. Dargliela fu l’ambizione di Vittorio Alfieri. Senti in quest’uomo davvero nuovo un sentimento patriottico, un fermento d’idee che anticipa il Risorgimento. Senti – scrive De Sanctis – il ruggito di non lontane rivoluzioni. Alla sua scuola, e prim’ancora a quelle di Plutarco e di Dante, si forma Ugo Foscolo. Il suo Jacopo Ortis è il “primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta come funebre preludio di più vasta tragedia” (magistrale espressione del nostro storico e critico). Foscolo cantava Napoleone, il liberatore. E Napoleone vendeva Venezia all’Austria. Diventava il traditore agli occhi del poeta. Con Dei Sepolcri del Foscolo, al sonetto e alla canzone succede il carme, la storia dei vivi costruita dai morti. Il carme foscoliano segna la fine del secolo diciottesimo. Gli Inni sacri del Manzoni segnano l’inizio del diciannovesimo. Con l’autore dei Promessi Sposi eccolo l’ideale che si realizza nella storia e che armonizza e acquieta le “dissonanze del reale e i dolori della terra”. Il paradiso cristiano ricostruito dal Manzoni e riconciliato con lo spirito moderno, anzi con la “sostanza dell’arte moderna”. L’ideale calato nel reale è la linea estetica conduttrice della Storia della storia della letteratura italiana. E dal suo grande autore già enunciata nel Saggio critico sul Petrarca del 1868: “Così venni nel concetto che la base dell’arte non è il bello o il giusto o altro tipo, ma il vivente, la vita nella sua integrità”. Il reale come arido vero inaugurato dallo scetticismo di Giacomo Leopardi, il poeta che esplora il “proprio petto”. Dentro il quale gli ideali della religione, della scienza e della poesia, benché fortemente sentiti, diventano “ombre e illusioni innanzi alla sua ragione”. L’idea non è più un sostituto della provvidenza. Nei suoi Canti la vita interiore è molto sviluppata.

   “Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui/redivivi ormai gl’Itali staranno/in campo audaci” … Era stato il vaticinio di Vittorio Alfieri. Non più popolo per secoli decaduto; ma popolo consapevole di un destino di patria nel progressivo divenire della storia. E della propria storia letteraria. Esplorare il petto, guardare in noi, e ai nostri costumi e pregiudizi, è il motto testamentario di Leopardi. Per Francesco De Sanctis, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, che gli italiani dovevano seguire.

Gaetano Cellura