Impossibile comunicare con chicchessia, bisognava aspettare che qualche passante si aggirasse nei paraggi, e chiedergli aiuto. Quella zona, però, si sarebbe animata soltanto alle prime luci dell’alba. Di notte sembrava morta.
«Come diavolo ho fatto a cacciarmi in questo guaio?» si chiedeva sempre più a disagio, sempre più preoccupato, sempre più insofferente di quella situazione senza uscita.
«Per pisciare, potevo pisciare nel cesso della pizzeria» si rimproverava adesso, mettendo mentalmente da parte il linguaggio forbito che usava d’abitudine. «Non avrei avuto bisogno di pisciare all’aperto come i cani.»
La notte intanto avanzava e sembrava interminabile.
«Non passa nessuno a quest’ora…» osservava dalle sbarre, alquanto scoraggiato. «Nemmeno un cane…»
Ma ecco una massa scura sbucare improvvisa tra gli edifici. Il lume della luna ne ingigantisce paurosamente l’ombra. È proprio un cane. Un grosso cane. Quasi evocato dai pensieri del prigioniero. Un cane enorme, muscoloso. Una sorta di mastino.
Trottava dritto per la sua strada, ma, annusata l’aria, cambiò direzione. Si avvicinò al cancello, tentò di infilare la grossa testa fra le sbarre, continuò ad annusare e poi prese a ringhiare e ad abbaiare a strappi, con voce rabbiosa e potente, mostrando certi denti da far paura.
«Buono, buono!» diceva il prigioniero, allontanandosi d’impulso dal cancello.
Quello, però, non smetteva, anzi rinnovava ancor più gli assalti e i latrati.
«Buono, altrimenti svegli il vicinato!» aggiunse il maestro Carmelo C. in un soprassalto d’ironia mista a stizza.
E il vicinato, che fino a quel momento non aveva dato segni di vita, a quei latrati fu come riscosso dal torpore della notte. Nel vano di una finestra distante e buia apparve la sagoma di qualcuno che si mise a urlare: «Basta! Fatelo smettere! Non se ne può più!». Dall’alto di un balcone una donna imprecava e strillava: «Ammazzatelo! Ammazzatelo!».
Il cane era inferocito, non cessava di abbaiare e lanciarsi verso il cancello, e altre voci, da più vicino o da più lontano, si univano agli improperi, senza che nessuno, però, scendesse in strada.
Passò così, fra urla e strepiti, un buon quarto d’ora, finché non si udì vicino uno scalpiccio, e il rumore dei passi servì a distogliere l’interesse del mastino dal cancello. Chi stava appressandosi doveva essere qualcuno che il cane conosceva bene. Con scodinzolii e uggiolii corse incontro al nuovo arrivato che, una volta giunto al cancello, si rivelò essere una donna. Teneva in mano un guinzaglio e, rivolgendosi allo sconosciuto dietro il cancello, volle spiegare a mo’ di scuse:
«Mi è sfuggito di mano. L’ho slegato un attimo ed è scappato via come un fulmine… Deve aver fiutato una cagna in calore».
E nel dir così, accarezzò la bestia e la legò a sé. Il cane si era zittito e il vicinato era di nuovo piombato nella quiete della notte. La donna stava per riprendere la sua strada, ma fu incuriosita dalla strana situazione che aveva davanti.
«Non mi dica che è rimasto chiuso là dietro» disse.
«Così sembra» mormorò il malcapitato. «Non c’è verso di uscire. Lei potrebbe aiutarmi?»
«Non saprei come. Il cancello è temporizzato e i proprietari non dormono qui. Prima di domani mattina mi pare impossibile.»
«Lei non ha un telefonino? Potremmo chiamare qualcuno…»
«Sì, i vigili!…» disse ironica. «Pensa che verrebbero?… Comunque, non ho un telefonino con me.»
«Ci vorrebbe una scala.»
«Certo, una scala…» rifletté la donna. «Ma come mai è finito là dietro? Lo sanno tutti che il cancello è a tempo.»
«Non conoscevo questa zona e non immaginavo… Ci sono entrato per sbaglio.»
«Una scala, io l’avrei, ma a casa..»
«È distante?»
«Vicina non è.»
Il maestro Carmelo C. si rincantucciava nelle spalle e con le mani si aggrappava nervosamente alle sbarre. Ma il coraggio della disperazione gli faceva superare il disagio e la timidezza.
«Forse chiedo troppo… Questa è un’emergenza… La scala, potrebbe farla portare qui da qualcuno di casa… Il marito… un parente… un figlio grande…»
«Vivo da sola con Zanna, questo qui» disse la donna indicando il cane, e gli carezzò la testa.
«Mi spiace» disse il maestro Carmelo C.
«E perché?» rispose la donna. «A me va bene così.»
«Posso capirla benissimo» aggiunse lui. «Anch’io vivo da solo… Beh! Proprio da solo no… Vivo con una mia zia… Volevo dire che non ho né moglie né figli…»
Rimasero un attimo senza dirsi niente. Poi la donna annunciò con fare protettivo:
«Vado e torno. Mi aspetti, ma non si agiti se ritardo».
Accorciò il guinzaglio, lo tirò a sé e si avviò in compagnia dell’animale ammansito.
Allontanatasi dal cancello, mostrò intera la sua sagoma. Era alta e slanciata. Poteva avere una quarantina d’anni, non di più, e se di più ne aveva, li portava proprio bene. Il maestro Carmelo C. si sorprese ad ammirarne le fattezze mentre lei scivolava via con leggerezza di passo e sinuosità di fianchi nell’oscurità mitigata dai raggi della luna. Quando l’aveva avuta davanti, il suo pensiero era del tutto rivolto a come venir fuori dall’impiccio. Non aveva badato a nient’altro. Aveva visto ma non scrutato il volto della sua interlocutrice. D’altronde, il buio sfumava ogni profilo. Ora che lui si sentiva in qualche modo rinfrancato, i suoi intimi desideri riprendevano corpo. E cercava di ricordare con minor vaghezza le sembianze della donna. La sua salvatrice, come vivamente sperava che tale si confermasse.
La notte era ormai alta. Se anche si fosse liberato di lì a poco, non sarebbe potuto tornare a casa prima dell’alba. L’ultimo treno era partito da parecchio tempo. Perso. E non gli restava che cercarsi un alloggio in qualche albergo del centro.
A tratti lo angustiava il pensiero della zia, che certamente era in ansia per quel ritardo. Ricordava, però, di averle raccomandato di non preoccuparsi più di tanto se lui non avesse fatto ritorno in serata.
La nuova situazione, ridicola in sé, gli gravava il petto e finiva con l’occupargli per intero la mente. I minuti sembravano passare con lentezza esasperante. Quando una cosa si aspetta con troppa ansia, sembra che non arrivi mai, pensava, e ora misurava nervosamente, avanti e indietro, il tratto davanti all’entrata, ora sostava immobile, attaccato alle sbarre, e spingeva lo sguardo il più lontano possibile, sperando che la salvezza arrivasse in fretta.
La salvezza arrivò dopo una buona mezz’ora. I passi leggermente strisciati della donna sul selciato si fecero finalmente sentire, preceduti dai riflessi ondeggianti di una scala domestica di alluminio.
«Eccomi» disse la donna, arrivata al cancello. «Sono stata di parola?»
«Oh, grazie, grazie infinite!» non fece che ripetere il maestro Carmelo C. appena la riconobbe, rincuorato e pronto a scavalcare l’inferriata. «È venuta da sola?»
«Zanna l’ho lasciato a casa. Non avrei potuto portare la scala e badare anche a lui» disse la donna, che ancora ansava per lo sforzo del trasporto e la rapida camminata dell’andata e del ritorno.
«Certo, certo, ha fatto bene. Ma ora proviamo a scavalcare questo maledetto cancello» disse il prigioniero, impaziente.
Non fu facile far passare la scala dall’altro lato, sia perché l’inferriata era alta, sia perché la donna non riusciva a sormontarne la barra superiore orizzontale. Sollevandosi il più possibile sulla punta dei piedi e tenendo gli staggi in bilico sulle mani, riuscì alfine a spingere la cima appena oltre il bordo della barra. Tanto bastò al prigioniero, alto com’era e con le braccia lunghe, per afferrarla, farla scorrere giù dal lato interno e poggiarla al cancello. Dopo di che cominciò a salire lentamente, saggiando al buio ciascun piolo e, una volta raggiunta la sommità dell’inferriata, si pose a cavalcioni sulla barra orizzontale, tirò su la scala, che era solida ma leggera, la girò verso l’esterno, poi, aiutato dalla donna, la fece scivolare giù e la sistemò per la discesa.
Scese pian piano, trattenendo il respiro. Quando giunse all’esterno, gli sembrò di toccare terra dopo una lunga e pericolosa traversata in mare. Lui che mostrava sempre un volto serio e severo, quando non addirittura triste, di colpo cambiò pelle. Sembrò rinato. Un altro uomo. Fu preso dall’euforia e, di slancio, abbracciò la sua liberatrice, la sollevò da terra e la fece volteggiare quasi a passo di danza davanti al cancello vittoriosamente scavalcato. Stringeva il corpo di lei, ne sentiva il calore e provava dei fremiti come mai prima gli era accaduto di provare. Rideva, rideva e il riso contagiava anche la donna, che finalmente libera da quella stretta, poté dire:
«Sono contenta. Ce l’abbiamo fatta!». E ripeteva, anche lei in preda all’euforia del momento: «Sono contenta, sono proprio contenta!».
Angelo Maugeri
(Continua nel prossimo Lunarionuovo)
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