il tragicomico del presente nella lingua delle madri
Fresca di stampa è una nuova silloge poetica di Mario Grasso il quale, da filologo e studioso della Sicilia, dalla sua lingua e i suoi proverbi alla psicologia del suo popolo, torna nelle libreria servendosi per i suoi versi del siciliano. Lo scrittore acese è una di quelle formiche che lavorano tenacemente e con costanza tutta la vita, raccogliendo i frutti del proprio lavoro, mentre le cicale fanno rumore e giochi illusionistici. Lui è fuori moda perché umilmente punta alla sostanza e il rumore lo fa solo quando esplode dirompente nel dire quello che pensa senza peli sulla lingua, con “l’intrattabile temperamento” che ha dato anche il titolo a un libro di Massimiliano Magnano.
È siciliano originario di luoghi che, da Acireale a Stazzo, gli hanno permesso di apprendere sin dall’infanzia una lingua popolare che tutt’oggi resta la lingua del nostro inconscio collettivo. Quella lingua, tuttavia, lui non l’ha mai rinnegata ma ne ha fatto materia di serio studio sin dall’inizio, con orgoglio e curiosità. Scrivere in siciliano è stato un esito naturale. La prima silloge poetica in dialetto etneo è uscita nel 1981, Friscalittati, per giungere alla prima edizione di Vocablario siciliano nel 1989 e a Crucchèri nel 2002, alternando i versi alle ricerche di paremiologia, come dimostrano pubblicazioni preziosissime per la conservazione e la divulgazione del nostro patrimonio sapienziale come Lingua delle madri, Cu t’inghitau?, Cu t’alliscia vol’u pilu, Acedd’i Puddu, Nuzza ‘mbriaca. Un lavoro che tutt’oggi in Sicilia resta unica fonte a cui attingere.
Ma tornando alla poesia, questo periodo pandemico è stato di grande produttività per Mario Grasso che solo quest’anno, dopo il libro-intervista a cura di Giuseppina Sciortino Campanili siciliani, ha pubblicato il libro di memorie sull’operatività culturale acese, Aquilia delle poiane, le due raccolte poetiche Algebre e sigilli e Vocabolario siciliano due, un saggio su Ippolito Nievo precursore del verismo (Ippolito Nievo: verismo di un precursore) e un contributo al volume, firmato insieme a me e a Laura Rizzo, sulla città di Trieste corridoio d’Europa (Trieste giardino delle Esperidi).
Vocabolario siciliano due, in particolare, nasce sulla scia di quel primo Vocabolario che fu prefato dalla grande critica letteraria Maria Corti, che dalla cattedra di lettere dell’Università di Pavia ha formato una generazione di critici italiani. È stata lei allora a scegliere il titolo di Vocabolario siciliano per quei componimenti che dischiudevano un mondo a partire dai lemmi che in forma lirica si prefiggevano di spiegare. Ogni vocabolo è un seme, espressione di una lingua e quindi della cultura di un popolo. Ancor più significativo allora risulta il progetto letterario di questo secondo Vocabolario a distanza di decenni, in un’epoca in cui il dialetto è in via di estinzione. Una scrittura che si serve di vocaboli e dunque vocabolario, dove diventa pregnante il recupero dei significati delle parole, componenti di un immaginario collettivo che è anche cornice di senso e filtro per la lettura del mondo. Un vocabolario in poesia che recupera parole antiche prive spesso dell’equivalente italiano. Ed eco uno dei punti fondamentali per chi studia il siciliano: spesso non c’è una traduzione corrispondente e i più superficiali si trovano a operare ingenuamente un cambio di desinenza credendo di parlare/scrivere in siciliano.
A tutti noi è concessa ogni tanto una battuta o uno scimmiottare (quando crediamo di parlare con chi non può capire l’italiano), ma per scrivere in siciliano bisogna conoscerlo davvero. Ha una sua grammatica, una sua sintassi, una sua ortografia, una sua filosofia.
Il siciliano è la lingua della testimonianza di un mondo che si sta estinguendo e al contempo è la lingua che può meglio far parlare le corde più intime e autentiche dell’animo del madrelingua.
Quanto alla testimonianza, è movente programmatico. Lo stesso Autore dichiara di usare il dialetto in modo che un giorno – per parafrasare – qualcuno possa ritrovare quella sapienza, come sotto una chioccia di carta i pulcini, che crescendo diventano galline e a loro volta fanno le uova per la lingua di domani. È il sogno di chi al contempo però si accorge che il siciliano sta anche diventando lingua morta, e più si cerca di farla rivivere più la si ammazza. Siamo i figli di un’epoca che l’ha rinnegata troppo a lungo da poterla meritare adesso, di un epoca – quella dell’educazione fascista – di appiattimento dei regionalismi presunti rivelatori di arretratezze e volgarità. In Crucchèri Grasso scriveva:
Dialettu ca iu parru e iu mi sentu
frusteri ‘n casa to ‘sta terra mia,
no, non ti scanciu,
ti scrivu ca mi sentu carusiddu…
M’arreri non si torna cc’u curdaru,
‘i cosi vecchi mòrunu
‘n casa d’u pazzu;
quindi paga ‘u dazziu
ca tu si’ contrabbannu
cu ti parra non voli ca si sapi.
Insieme alla lingua, l’Autore recupera la saggezza popolare di cui si fa veicolo, quel patrimonio di pensiero e di conoscenze che oggi sono state soppiantate a volte dalla globalizzazione e altre volte dal nulla, in un vuoto di “sapere” nella cura delle cose, che ci ha resi spesso impreparati. Le poesie di Vocabolario siciliano due ci spiegano cosa sono l’acquazzina e l’acquatina, cosa vuol dire e da dove deriva il termine allunatu, mbuddaciu, perché l’assiolo viene anche chiamato Jacobbu, il falchetto regnicolo Mastru Gnaziu, la poiana zza Monaca, cos’è il pistammùtta, per fare qualche esempio.
Non poteva mancare il frequente riferimento, a volte parafrasato, ai proverbi siciliani da parte di un uomo di cui in passato si è detto parlare per proverbi, da siciliano antico. Esempio: la spiegazione della differenza tra il “Non dire quattro se non l’hai nel sacco” e il “Non comprare mai il gatto nel sacco”, spesso fusi insieme in un OGM che fa smarrire il senso e l’origine del detto.
A farci apprezzare da cultori le malizie della lingua siciliana, compaiono spesso le polisemie, quei vocaboli che possono avere significati diversi a seconda del contesto in cui vengono utilizzati.
Quanto al potere che il siciliano ha di far affiorare quanto di più profondo e autentico possa esservi in chi lo possiede come parte della propria identità, già in Crucchèri Mario Grasso scriveva:
(…) Ogni parola è comu ‘n cuticchiùni
allùcia, fa purtùsa,
havi ҫiat’i funnàli,
vola senz’ali (…).
E in siciliano infatti in questo Vocabolario siciliano due si lascia andare ai ricordi degli amici che non ci sono più, soprattutto quei compagni di strada di materie letterarie come Bàrberi Squarotti, Pontiggia, Spagnoletti, Leonardo Sciascia e Ignazio Buttitta (per fare qualche nome),
mi squagghia ‘u cori ȏ diri “m’arriȏrdu”
Mastri e Amici cari non vi scordu.
Ma l’omaggio è reso anche agli amici vivi e vegeti, come Nicola Mineo, a cui l’intero volume è dedicato, o i talenti che spiccano nel campo delle arti, dalla musica al teatro, alla letteratura, come Francesco Foti, Laura Giordani, Marisa Liseo.
Le poesie di questa silloge non si propongono solo di recuperare lemmi in forma lirica. Si tratta di un ulteriore tassello dell’universo della poetica e della produzione letteraria di Mario Grasso, in perfetto incastro col restante mosaico. Conferma del suo stile che fa del tragicomico una formula di stare al mondo, di un uomo che, nella vita come nella scrittura, soffre profondamente per le ingiustizie del nostro presente e al contempo vuole esorcizzare il dolore attraverso l’ironia, la satira. Quel ridicolizzare che è il segreto per neutralizzare il male. Si accendono dunque i riflettori e si aprono i sipari su un teatro di personaggi che, trasfigurati in tipi antropologici, vere e proprie maschere da commedia dell’arte, mettono in scena le dinamiche di questa società, raccontano un luogo circoscritto, la Sicilia, che è metafora di ogni comunità umana. Ci si imbatte spesso in poesie che sono lettere aperte o racconti di aneddoti, più o meno veri, più o meno caricaturati, che, ridicolizzando, neutralizzano la mediocrità di chi agisce per esibizionismo o attuare mobbing. Un teatro di pupi, dove appaiono comparse accanto a protagonisti, alias di amici ed ex-amici che, quando non possono parlar male degli altri, parlano male di se stessi. Si tratta di personaggi afferenti al mondo letterario, che sarà anche di presunta alta levatura culturale ma non è esente da miserie umane. Ad essi sono dedicate filastrocche e aneddoti, miniminagghi, per un divertimento assicurato, per l’Autore e per il lettore. A ciascuno di essi, riserva un consiglio o una provocazione. Ricorda un po’ le scenette parodistiche di Nino Martoglio, che sparava a vista con l’acume della penna senza risparmiare alcuno.
Nella carrellata vi sono personalità del calibro di Nunziu Chitarruni, Antoniu Culufriscu, Janu Spaccapirita, e diversi altri sino al personaggio più esilarante che è Mara Sbirra, che compare in giro per tutta la raccolta ma alla quale sono dedicate ad hoc 12 poesie a mo’ di poemetto sulle sue “gesta”, da sedicente mecenate di poeti nonché lei stessa poeta. Si tratta di pseudonimi che nascondono persone vere, di personaggi che non sono nuovi ai lettori di Grasso, che da molti anni ama ricorrere ad essi per giocare e sublimare l’indignazione. Si tratta di meta-testo, come qualche anno fa ha sottolineato Massimiliano Magnano a proposito di riferimenti ricorrenti e trasversali a più opere, come il personaggio del maresciallo Polimeni. Mara Sbirra può essere considerato un filo conduttore, un pretesto come pretesto sono i volti che ci appaiono nei sogni, presi in prestito dalla vita per significare ogni volta un nucleo di significato.
Tutti costoro sono per lo più sedicenti poeti, ma scangianu carri armati ppi scarbagghi / è chistu fussi nenti ‘na sta terra / ca scrivi ‘n sicilianu cu n’u parra. Poeti che farebbero meglio a svolgere le loro professioni di avvocato, medico o professore. Poeti che credono che per comporre una poesia basti scomporre il periodo in versi, che ora pretendono di insegnare, ora copiano gli scritti d’altri. Mara Sbirra è puitissa di nespul’i giappuni / vinni vòria di culu d’unni passa /s’a vinni a chilu senza IVA o tassa. Quella Mara Sbirra che più avanti quannu si menti tutt’a culu a ponti / e spara ‘n siccu bellu arcubbalenu, e altrove si aprìu ‘n cummentu / e piscia acqua santa, contraventu. Sono giochi di sopravvivenza di un animo gioioso nonostante il male che l’Autore ha ricevuto, tra calunnie e bullismo, tentativi di seminare discordia e far fallire i progetti culturali, in una Sicilia in cui chi solleva il capo è guardato con sospetto e dispetto.
Il volto ludico di queste poesie è infatti il contraltare di un volto che sa guardare in faccia la realtà anche senza doverla sdrammatizzare. Se i personaggi di quartiere meritano di essere neutralizzati dall’ironia, i drammi della società vanno affrontati per come si presentano. Così in Vocabolario siciliano due emergono anche toni di denuncia, dall’inquinamento alla corruzione politica, dalle disuguaglianze sociali:
è sempri cu è cchiù riccu di dinari
ca non mori ȏ spitali! (…)
C’è na cursa a chianta cutra
pp’a minnazza d’a Reggiuni
sucalori e kamasutra
pp’i uttanta vurpigghiuni.
Tra le poesie più significative ed efficaci su questo fronte: “Migranti” e “Rivolto al politico”.
In una prosa d’arte conclusiva, in ultima istanza, la rabbia è rivolta al vento, che è guerra mascherata e scafista, che diffonde col suo soffiare il virus della pandemia, ad aggiungere morte a quella che avviene già per mano umana attraverso le guerre, la caccia e la pesca. Pratiche, queste ultime, per cui esprime sentimenti di vergogna, da ex-cacciatore che ha scelto di non toccare mai più un fucile. Proprio gli uccelli, un tempo prede, vittime, sono – in questa silloge come nella vita – oggetto di studio e di ammirazione da parte dell’Autore. In parte per la grande intelligenza che emerge da alcuni loro comportamenti, tra abitudini e rituali, un po’ per quel senso di libertà che il volo ha sempre suscitato nell’essere umano, libertà che è uno dei valori più importanti, ora combattuta ora strumentalizzata. Per le cicogne, nessun vigile né finanza, niente carabinieri né tribunale.
In Crucchèri Mario Grasso scriveva una poesia intitolata Tarpazzi (Poiane).
In Vocabolario siciliano due, tra un componimento e l’altro, si materializza un habitat mediterraneo di volatili che oggi conosciamo solo con i loro nomi in lingua italiana, volatili spesso tipici delle nostre zone, da proteggere e non da cacciare o soffocare con i fertilizzanti per l’agricoltura.
Una carrellata: l’airone cinerino, l’assiolo, l’allodola col ciuffo (currulundina o cutuluvì o cappiddina), una specie di trampoliere detto cavaleri d’Italia, le cicogne, la procellaria, la tordella (marbizzu), il nibbio, l’otarda, il pettirosso (pittirru), la colomba, la quaglia, il rondone dal petto bianco, il gruccione (pizz’i ferru), l’upupa (pipituni), il grifone delle Madonie (vuturi), la poiana (zza Monaca), …
Quasi tutti uccelli in via di estinzione come il dialetto, e il dialetto infatti è la loro lingua.
A costo di farlo arrabbiare, ci sentiamo di paragonare l’attento studio che Mario Grasso porta avanti da una vita sulla fauna avicola della Sicilia a quello stesso impegno di ricerca e memoria storica della fauna marina dello Stretto di Messina che decenni fa attuò Stefano D’Arrigo per il suo romanzo Horcynus Orca, che gli valse la proposta da parte di un contingente scientifico accademico di conferirgli una laurea honoris causa in biologia marina, proposta che allora fu respinta perché un componente della commissione lo aveva in antipatia per il differente orientamento politico.
Perché i Siciliani sappiamo che sono anche questo, vrazza aperti ca suno / isca e trapula / varca traversa e vucaturi scàpula.
Giulia Letizia Sottile