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Un riflessione con Adriana Laudani e Giovanna Crivelli, responsabili UDI Catania

Il grande successo di pubblico e di critica del film La scelta di Anne che ha vinto alla 78ma Mostra del cinema di Venezia il Leone d’oro, ci ha regalato la traduzione in italiano del libro che l’ha ispirato. Si tratta di L’evenement, L’evento, della scrittrice francese Annie Hernaux, pubblicato in Francia da Gallimard nel 2000 e in Italia da L’Orma nel 2019. Conosciuta da noi già dalla metà degli anni ottanta, l’Hernaux che soltanto nel 2017 ha ottenuto, al Salone del libro di Torino, attenzione e riconoscimenti, è una autrice di particolare sensibilità ed eleganza che utilizza la scrittura autobiografica come strumento di indagine sociale. Le vicende della sua vita diventano, nella sua particolarissima scrittura scabra e tagliente, priva di emozioni, lo specchio nel quale tante vite, le nostre, quelle di tutti possono affacciarsi e riconoscersi. Una storia parziale, individuale, la sua, diventa quindi compendio di tutte le storie, diventa cronaca, analisi sociologica, riflessione storica, denuncia sociale e politica. E per questo richiede una scrittura non enfatica ma piatta come piatta deve essere l’acqua in un recipiente per poterne guardare il fondo. Ed accade, oltre che nel pluripremiato Gli anni, nelle sue opere di esordio e in tutti i suoi scritti che lei desidera però, che non vengano etichettati come autobiografia o romanzo in quanto la sua scrittura, ritiene, si allontana dalle classificazioni dei vari generi letterari per integrarli e praticarli tutti: dalla prosa alla diaristica, alla sociologia, alla antropologia e ciò costituisce la cifra innovativa dello stile della autrice. Tutte le vicende della sua vita dalle prime esperienze amorose, alla morte della madre, al dialogo con la sorella morta, alla monotonia del suo matrimonio, al suo progressivo abbandono della classe sociale di appartenenza fino all’approdo grazie agli studi, alla borghesia colta, all’aborto  praticato in giovanissima età, vengono accuratamente narrati ma soprattutto analizzati e resi trama comune delle vite di tante e di tanti  con la sensibilità della donna che ha militato negli anni settanta nel movimento femminista e che ha acquisito  la consapevolezza della dimensione politica del corpo delle donne. Perché è dal corpo che passa l’autodeterminazione individuale e collettiva della persona, fuori da ogni tipo di ideologismo.  La scrittura quindi per la Hernaux diventa una azione politica di sensibilizzazione del lettore su temi trascurati dalla letteratura tradizionale che avviene non con l’invenzione o lo sfogo emotivo, non come autoaffermazione narcisistica ma col racconto di storie vere, di persone autentiche. L’assenza di emozioni pur nella narrazione di vicende forti non deve fare pensare ad una anaffettività dell’autrice piuttosto ad una sua scelta precisa, quasi ossessiva, nella ricerca delle parole giuste per raccontare senza sedurre, per testimoniare senza coinvolgere e senza giudicare, attenendosi ai fatti  in un lavoro di memoria che diventa “Lotta contro l’oblio, quello della Storia, della nostra vita collettiva, in un’epoca che  appare come quella della fugacità e delle emozioni senza memoria. Trovare la chiave per raccontare il tempo è sicuramente una delle più grandi sfide della letteratura. “Dice l’Hernaux che anche ne’ L’evento mantiene le caratteristiche principali della sua scrittura senza artifici e senza retorica, le stesse che ritroviamo ne Il posto, L’altra figlia, Una donna, Gli anni. La storia cruda che è necessario raccontare è quella della giovane Annie, studentessa universitaria a Rouen, la prima di una famiglia di modeste condizioni sociali a poter accedere agli studi e a sognare di cambiare la propria vita. Un’esistenza normale tra le ricerche in biblioteca, i rapporti con le colleghe e i colleghi, i caffè presso il bar dello studentato e il cineforum. In questa esistenza regolare svanisce la spensieratezza e irrompe il dramma: un ritardo del ciclo mestruale e poi via via che la narrazione avanza, la preoccupazione, la solitudine nell’affrontare il problema, con la madre non può confidarsi, il suo ragazzo rimane assente, preso dai propri studi. Siamo nel 1963 e in Francia l’aborto è un reato e non è possibile neppure parlarne. L’incontro con i medici che confermano lo stato di gravidanza e che non riescono neppure a guardarla negli occhi, feroci nei commenti: “I figli dell’amore sono sempre belli” e che nulla fanno intuendo che Annie ha già preso la decisione di interrompere, di porre fine a ciò che le stava crescendo nella pancia e che avrebbe, inevitabilmente, cambiato i progetti della sua vita. In quegli stessi giorni il presidente Kennedy veniva ucciso a Dallas ma questa tragedia era priva di interesse per la ragazza, il fuori non le può più interessare perché il dentro incombe, prende la scena, modifica sostanzialmente il presente e il futuro. Cominciano le nausee, cambia la percezione del tempo che diventa qualcosa che le avanza dentro e che la vuole distruggere, già i seni e i fianchi spingono sotto il vestito, deve trovare una soluzione, la solitudine l’avvolge. Cerca sui libri i modi per intervenire, ci prova anche ma poi è costretta a rivolgersi ad una fabbricante di angeli consapevole che in gioco c’è la vita. Ma la ragazza è determinata ad andare fino in fondo e così accade che si ritrova nella cucina di una anziana signora che l’aiuterà, dietro il congruo compenso di quattrocento franchi, a interrompere la gravidanza. La narrazione procede fredda e affilata, dettagli forti e drammatici, doglie, sangue e pensieri, espulsione contemporanea di una vita e di una morte, fino al ricovero in ospedale per una grave emorragia dove ancora una volta regna il rimprovero e lo stigma per chi ha infranto la legge. Gli sguardi di riprovazione, il senso profondo di vergogna, l’ipocrisia imperante, gli interrogativi che la giovane Annie si pone “L’aborto è proibito perché è un male o è un male perché è proibito.” Poi ci sono, nel testo, inseriti fra parentesi, interi paragrafi dove l’autrice, mentre scrive di quei fatti antichi selezionando le parole giuste per riportarli alla memoria, si lascia sfuggire  alcune riflessioni e pensieri nella contemporaneità della scrittura. Ad esempio il suo sentirsi parte di quelle donne mai incontrate, morte o vive, reali o immaginarie, con le quali malgrado tutte le differenze, sente di avere qualcosa in comune perché formano in lei una catena invisibile in cui stanno fianco a fianco artiste, scrittrici, eroine dei romanzi, donne della sua infanzia. E la scrittrice ha l’impressione che la sua storia sia la loro. Il non lasciarsi andare alla collera e al lirismo, non vuole fare ciò che allora non fece: piangere o urlare, solo restare più vicina ad un corso stagnante di infelicità. O ancora alla possibile reazione di repulsione e irritazione del lettore per un racconto così crudo e dettagliato risponde che “Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori.” E se non andasse fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirebbe a oscurare la realtà delle donne, schierandosi dalla parte della dominazione maschile del mondo.

L’evento è un libro che segna una  frattura nella vita di Annie tra l’infanzia e il mondo degli adulti; la scrittrice avverte in un preciso momento che non solo ha messo fine ad una gravidanza non voluta ma ha ucciso la propria madre in se stessa, è diventata un’altra donna, libera dalla cultura e dai condizionamenti materni e in altre pagine aggiunge: “Ho lasciato lì mio corpo di ragazza.”E anche quando tutto si è concluso e si ritorna alla vita normale nulla è più come prima, l’evento ha lasciato una ferita profonda; solo dopo molti molti anni l’autrice è in grado di ripescarne i  ricordi e di raccontare perché la “Salvezza, l’unica possibile, non è nell’oblio ma nella memoria e nella memoria c’è anche l’espiazione della colpa.” La colpa di chi ha costretto migliaia di donne a non poter decidere del proprio corpo, la colpa di chi non le ha ascoltate, di chi le ha prevaricate. Annie Hernaux ha cancellato col suo racconto “L’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento, che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri.”

Il libro di Annie Hernaux  L’evento costituisce tuttora una denuncia sociale e politica su un tema, l’aborto,  che ha animato e ancora anima le battaglie delle donne; ne parliamo con Adriana Laudani e Giovanna Crivelli, responsabili catanesi dell’UDI  Unione donne d’Italia,  che molto ha contribuito alla elaborazione del pensiero della differenza e alla lotta per l’approvazione della legge 194 che depenalizza l’aborto.

“La battaglia lunga e difficile – dice Adriana Laudani – per la conquista di una legge che cancellasse il reato di aborto e sancisse il diritto delle donne all’assistenza pubblica e gratuita in caso di aborto ha segnato in modo profondo e irreversibile la storia del movimento femminista e femminile italiano. Una conquista, quella della legge 194 del 1978, guadagnata dall’impegno di milioni di donne, di ogni strato sociale e di diversi orientamenti politici e religiosi. Donne convinte che fosse venuto il tempo di affermare due diritti fondamentali: quello all’autodeterminazione sulle scelte che riguardano il proprio corpo e quello a potere vivere liberamente la sfera della sessualità a prescindere dalla funzione procreativa. Diritti e libertà che, se affermati nella vita di ogni giorno e riconosciuti dall’ordinamento giuridico, scardinano le fondamenta della vecchia cultura patriarcale e disegnano un nuovo rapporto tra i sessi fondato sul valore e il rispetto delle differenze, alimentato dall’etica e dalla pratica della responsabilità individuale e sociale. Non a caso la legge 194 reca come titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza.” Un titolo che contestualmente afferma e riconosce il valore sociale della maternità e il diritto delle donne all’assistenza pubblica e gratuita nel caso scelgano liberamente e volontariamente di interrompere una gravidanza che sanno di non potere e volere proseguire. L’attacco che questa legge e altre simili approvate in altri paesi subiscono ogni giorno, in modo esplicito o sabotandone l’applicazione, ha ad oggetto non una prestazione sanitaria o una norma, ma il bene prezioso e irrinunciabile della libertà delle donne, il loro ruolo da protagoniste nella storia. E quindi il diritto di tutte e di ognuna a costruire una Storia più giusta, più ricca e più bella. Penso naturalmente a ciò che le donne subiscono oggi in Afganistan e in tante parti del mondo. Per questo ci sembrano di grande valore  per tutte noi il libro di Annie Hernaux  L’evento e il film da esso tratto che val bene un Leone d’Oro in questo nostro tempo.”

La scrittura è ancora azione politica di sensibilizzazione, in un mondo che si racconta necessariamente con un linguaggio trasmediale?

“Usiamo volentieri tutti gli alfabeti – risponde Giovanna Crivelli – ma una parte della comunicazione politica dipende dal fatto che nulla può sostituire la parola che racconta l’esperienza e la rende condivisibile. Siamo le nostre storie, comprese le parole che usiamo e oggi condividiamo la responsabilità di un linguaggio sessuato come strumento fondamentale contro il sessismo. La parola è potere. Non rinunciamo a pensare alla possibilità di un’alleanza culturale orientata al pensiero femminista, come esperienza politica capace di teorizzare la gestione politica delle differenze teoricamente non componibili.

L’aborto è proibito perché è un male o è un male perché è proibito si chiede la scrittrice in un passaggio del libro?

“Le femministe felici delle pratiche abortive –risponde Giovanna Crivelli – sono un’invenzione di una propaganda meschina. Abortire è sempre una sconfitta, vuol dire che non siamo padrone del nostro potere riproduttivo. E questa è la responsabilità di una cultura patriarcale che non vede pentimenti, ma solo nostalgie per tempi bui.
La 194 è un’ottima legge, ma la facoltà di scegliere l’aborto si scontra con la maternità da sempre declinata come un dovere: un obbligo cui, per natura, le donne non devono e non possono sottrarsi. In questo contesto l’affermazione del diritto a non volere un figlio si scontra con la convinzione che è lecito negare sino allo sfinimento un diritto anche se conquistato. Peraltro, il pentimento e l’autocritica sono dimensioni etiche e comportano la decisione di non ripetere gli errori del passato. L’etica è una costruzione di rispetto che tante e tanti non hanno coltivato in nome di una superiore moralità che non riconosciamo, tristemente la riconoscono da soli.”

Renata Governali