stralci dalla prefazione alla nuova edizione
È mossi dalla stessa brama di conoscenza dei custardeddi che abbiamo scelto di salire in superficie – o, in questo caso, di scendere in profondità – attratti dalla cultura di un popolo controverso come quello siciliano? Certo, la fine di questi caratteristici pesci, alla stregua dei marinai al canto delle Sirene, non è delle più felici, salvo conferire al simbolo della sirena la sfumatura di senso che vi attribuì quasi trent’anni fa Maria Corti (Maestra del nostro Autore) nel suo “Il canto delle sirene”, in cui l’attrazione si rivela fatale al mancato perseguimento della conoscenza, in un eterno conflitto tra “spinta verso” e autodistruzione, dove l’oggetto della contesa è la natura dell’uomo. Mario Grasso, in qualità di filologo, studioso di scienze umane e siciliano, non rinuncia a percorrere la strada dell’indagine attraverso la lingua, la storia, la psicologia del proprio popolo, e lo fa servendosi di un bagaglio di sapienza per secoli tramandato oralmente e sopravvissuto persino all’avvento della lingua di comunicazione nazionale e delle nuove tecnologie, rinfoltendosi con il succedersi di episodi a scandire la Storia. E la scelta del titolo sembra quasi rispondere alla stessa spinta autoironica caratterizzante la sua personalità, al momento di chiedersi chi gliel’ha fatto fare, cosa lo ha indotto, cu lo inghitau a scrivere sui proverbi. Chi, dunque, se non le Sirene, «la seduzione intellettuale, la curiosità umana», per usare le sue stesse parole, «il bello, il mistero, il desiderio di sapere e conoscere tout court»? Ma c’è anche l’impronta del nòstos, come fece notare fin dall’inizio Giuseppe Contarino, al pari di un Ulisse che, dopo aver molto viaggiato, torna in patria cambiato ma attento alle piccole cose, desideroso di rivisitare le tradizioni e rileggere i valori: «Aveva visto tutto e il contrario di tutto. (…) Eppure, quel piccolo fazzoletto di terra sperduto in mezzo al mare (…) esercitava in lui un fascino misterioso, irresistibile»[1], come la civiltà contadina di Stazzo (e della Sicilia tutta), per il nostro Autore, a dispetto di una lunga vita in giro per il mondo.
Mario Grasso si occupa di dialetto da sempre. Teniamo di canto in questa sede quanto di altro completa il quadro della sua personalità intellettuale e restiamo sul fronte del Grasso-ricercatore, che indaga con scrupolo e senso critico il pensiero filosofico siciliano, ora attraverso la formula creativa, ora attraverso la saggistica.
Questo libro giunge al seguito di un lungo percorso esitato in precedenti pubblicazioni in un susseguirsi a climax crescente nell’efficacia espressiva e nel successo editoriale, dall’esordio della prima raccolta di proverbi siciliani, “Lingua delle madri” (1994) alla prima edizione di “Cu t’inghitau?” (2005), a “Cu t’alliscia voli u pilu?” (2012) e “Acedd’i Puddu” (2014), sino alla riedizione ampliata di questo volume (che integra molti tra i più significativi proverbi di “Lingua delle madri” e rilegge l’edizione precedente alla luce della fenomenologia sociale del nuovo decennio trascorso). Ci permettiamo di anticipare l’imminente pubblicazione di una nuova e inedita raccolta dal divertente titolo “A nuzza ‘mbriaca”, ancora altro muccuni per meglio comprendere il sapore dell’isola al centro del Mediterraneo.
Tornando alla presente opera, a conferma della natura e della portata dell’attività di Grasso-studioso e dell’unicità del suo lavoro documentario, constatiamo come non risulti che sui proverbi siciliani ci sia stata – oltre alle molteplici e benemerite cure di ordinarli e elencarli, dal Veneziano al Pitrè, al Vigo e ancora fino ai nostri giorni – una ricerca sistematica, corredata da schede critico-esplicative per ciascun detto. Molti di questi forse per la prima volta trovano posto come documento edito dopo la seconda metà del Settecento. A ciò si aggiunge quanto già Claudio Marabini aveva scorto in “Cu t’inghitau?” a proposito dell’animo che il suo Autore vi mette dentro, «il bisogno di misurarsi come uomo e autore con una realtà forte e in apparenza immutabile, ma discutibile sempre»[2].
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Non si tratta di considerare come il siciliano sia lingua a tutti gli effetti piuttosto che dialetto (a partire dalle sue origini chimeriche da contaminatio multietniche), e nemmeno di decantare l’importanza di conoscerla per i Siciliani che, dopo l’indottrinamento d’epoca fascista abolizionista dei dialetti d’Italia, ha finito per far uscire dalla porta la “lingua delle madri” per farla rientrare dalla finestra (come emerge dalle inconsapevoli italianizzazioni di detti e espressioni o dall’altrettanto inconsapevole adattamento dell’italiano alla grammatica siciliana al momento di stabilire la transitività dei verbi). Eppure sulla lingua in sé non si può che soffermarsi, anche per poco – quantomeno per omaggiare il poeta e il filologo – col constatare come nella resa di queste eredità popolari ci sia musicalità di suoni; e non ci viene difficile immaginare come, in un’epoca e in un contesto geografico di trasmissioni intergenerazionali per via orale, allitterazioni, rime, assonanze, ritmi, rappresentassero via privilegiata verso la memoria, tecniche mnemoniche a tutti gli effetti un po’ come nei canti epici. […] Per usare un’efficace definizione di Maria Corti – che quella volta parlava della poesia dialettale di Grasso – «uno straripare di suoni affini», a cui aggiungeva: «una parte del merito va a questo straordinario dialetto, in fondo poco mutato dai tempi di Stefano Protonotaro, con i colori delle sue vocali e l’energia fonica esplosiva; per non parlare della stragrande abbondanza di sdruccioli o proparossitoni. (…) turgida musicalità». Turgida musicalità e «lava incendiata» della fonetica siciliana che «non può trovare il pari nella lingua di comunicazione nazionale»[3].
L’obiettivo di questo lavoro e l’utilità, nonché il diletto, di leggerlo vanno ben oltre, nella misura in cui la lingua, arcana, schietta, «odorosa di basilico e di stilemi caserecci (…) è quella che non tradisce, che segue un percorso di verità (…) una lingua semplice perché la semplicità è compagna della verità (…) più l’uomo si evolve più la verità si nasconde», aveva scritto Contarino[4]. E proprio questa lingua “povera” diviene strumento di penetrazione nelle profondità di un pensiero, di uno stile di vita unico. Per citare ancora Marabini: «Lo dico da romagnolo (…) è difficile stare alla pari col patrimonio di saggezza siciliano»[5].
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I proverbi raccolti in “Cu t’inghitau?” ripercorrono avanti e indietro la cultura e la storia della Sicilia, in un intrecciarsi affascinante tra mondo antico e nuovo. È meraviglioso come questo patrimonio popolare, accompagnato dalle rievocazioni appartenenti alla memoria personale anche autobiografica di Mario Grasso, ci permetta di rivivere un’altra epoca come fosse rimasta intatta, racchiusa e preservata all’interno di questo libro che non rinuncia a sortite nell’attualità politica e sociale del nostro Paese, ricontestualizzando detti e proverbi; ma al tempo stesso conserva, mettendo su un presepio vivente.
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«Grasso usa il proverbio come l’astronauta la rampa di lancio. Se ne serve come il la per una sinfonia di pensieri e di riflessioni, per distribuire elogi e riconoscimenti o stilettate che lasciano il segno, per “scoprire altarini” e rendere giustizia»[6], il che fa di lui non solo il paremiologo e il demologo, ma principalmente lo scrittore.
Abbiamo già detto infatti di come coniughi il retroterra storico con l’attualità, ricontestualizzando lì dove possibile i motti, a fronte, altre volte, di una loro caduta in disuso al crollo della realtà storicosociale (loro ragion d’essere) e non prestandosi a metaforizzazione. Ma il più delle volte Mario Grasso si diverte ad affacciarsi sul contemporaneo sociale e politico che mostra la circolarità della Storia o semplicemente le carenze umane quanto ad abilità di apprendimento dall’esperienza. Così scopriamo che i proverbi siciliani sono attualissimi!
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Giusto per non tradire l’indole di chi ha reale interesse al bene comune e fonda la propria attività culturale, oltre che la propria quotidianità di uomo, sul progetto di vita di rendere il mondo un posto migliore di come lo si aveva trovato! Lo diciamo ad alta voce: “Cu t’inghitau?” – e dunque la particolare lettura che Mario Grasso fa della tradizione popolare siciliana – rappresenta una prova letteraria di come la Sicilia non sia eterna e perduta vittima di cristallizzazione (anche psicologica), alla stregua di chi “pesta l’acqua nel mortaio” – per usare un’espressione coniata in altra sede dallo stesso Grasso – ma anche patria di chi guarda più al dopo Cristo che all’avanti Cristo, di chi innesca il moto a destare le coscienze, per tenerle sveglie, perché – ricordiamo – il sonno della ragione genera mostri.
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[1]Contarino G. (1998), “Lingua delle madri”, in: AA.VV.,Arrivederci a Sortino, n.3.
[2] Marabini C., “Saggezza e malizia dei siciliani”, La Sicilia, 20/07/2005.
[3] Corti M. (1989), “Introduzione” a Vocabolario siciliano di Mario Grasso, Prova d’Autore, Catania.
[4]Contarino G. (1998), “Lingua delle madri”, in: AA.VV.,Arrivederci a Sortino, n.3.
[5] Marabini C., “Saggezza e malizia dei siciliani”, La Sicilia, 20/07/2005.
[6]Contarino G. (1998), “Lingua delle madri”, in: AA.VV.,Arrivederci a Sortino, n.3.