L’artista Manuel Mandarà, nato il 03/04/1980 a Catania, consegue il diploma di maturità d’arte applicata (sezione “Metalli e oreficeria”) nel 1999 presso l’Istituto Statale d’Arte di Comiso (RG); successivamente si laurea in Pittura (indirizzo “Beni culturali”) con una tesi intitolata Piazza Mazzini: teatralità di uno spazio (relatore Arch. Enrico La Rosa), presso l’Accademia di Belle Arti di Catania.
Ha partecipato, a partire dal 2001, alle seguenti mostre: IV edizione del Salone dei Beni Culturali di Venezia (2001); mostra sul recupero e la valorizzazione dell’area monumentale del Cimitero di Catania presentata presso l’Accademia di Belle Arti della stessa città (2001); 1° Salone del Mediterraneo del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali, organizzato presso il centro fieristico “Le Ciminiere” di Catania (2002); mostra Città senza tempo presentata presso il Castello Ursino di Catania (novembre 2002); VI edizione della manifestazione catanese Prima parete in concerto, tenutasi presso il museo civico del Castello Ursino (2003). Le sue opere sono state esposte dal 20 gennaio al 20 aprile 2005 presso la Gallerie Caplain-Matignon di Parigi e durante l’evento espositivo In-oltre, presso le cucine del monastero dei Benedettini Di Catania nell’anno 2009 e anche presso la mostra STOP ALLO 048 DEGLI OGGETTI presso il padiglione espositivo “Le Ciminiere” di Catania dal 22 ottobre al 20 dicembre 2011.
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La produzione artistica, pur mantenendo un rapporto concettuale tra la parete e l’opera tridimensionale, offre un’elaborazione personale della scultura iperrealista. Lo scultore e il pittore si fondono creando un viscerale impianto compositivo spazio-visuale che intesse le opere di un impatto altro, la pittura fa da correlatore e struttura cromatica e prospettica del mondo che emerge dal piano di fondo. Sembra di assistere ad un imprigionamento di un alto-rilievo e un aggetto deificato della forma.
Le tematiche che affronta sono forti, ironiche e poetiche al tempo stesso. Dal lirismo delle figure femminili si passa alla satira e alla critica del chiaro riferimento al dolore dell’umanità, dell’orrore e delle paure umane.
Tutto nasce da un involucro di superficie da cui emergono creature non del tutto scoperte, quasi un non finito plastico, un non del tutto tridimensionale.
Sembra quasi che la figura esca dalla superficie, contrariamente al taglio di Fontana, la superficie non è l’elemento da incidere per andare oltre, ma quello dal quale viene fuori il tutto, l’altro, il non noto.
In molti casi è il subconscio che trova una sua materializzazione, toccando temi religiosi, politici, sentimentali e umani.
La tecnica si avvale del riciclo di materiali comuni, di giochi di ombre, di carte, forme desunte da calchi umani non più presenti.
È la scultura dell’assenza, in quanto portavoce di un vissuto, l’orma di un essere che appare attraverso la superficie, evocato e nascosto.
La scultura è un atto in cui l’artista plasma da demiurgo la materia per imprimerle la forma o forse imprimerle l’anima.
Palpitanti superfici,
traspiranti aliti tra i chiaroscuri,
mondi di altri mondi,
voce plastica della mediocrità dell’uomo.
Marionetta del tempo
del male quotidiano,
reduce di sacrifici sacri
l’uomo
accoglie il dolore del passato e del presente.
L’evoluzione delle sculture procede da dimensioni massime alle minime, dalla leggerezza umana de L’origine dell’insostenibile alla disumanità della schiavitù in Africa tra le braccia dell’Occidente.
Forme sinuose sono evidenziate da un chiaroscuro creato matericamente. È un gioco tecnico, delicato, tutto è leggerezza come l’uovo sospeso, lo stesso che come testa emerge in Attesa.
Un filo conduttore sottile ma definito lega tutte le opere, tutto ha una struttura sia tecnica sia concettuale, nulla è dato al caso.
Qualche effetto materico può essere legato alla casualità di una creazione, ma tutto è sapientemente equilibrato dalla posa del corpo a quella dell’oggetto, al colore vivo, sanguigno che sa di umano, di nascita e dolore, ma anche vita e passione.
Nella produzione dell’artista, il mito è re-interpretato in chiave contemporanea, assumendo significati e valenze concettuali altre, come il Vaso di Pandora pietrificato nello squallore del marciume della cronaca che assale lo spettatore inerme; o il Prometeo che per gioco di assonanze si ritrova incatramato anziché incatenato, non per avversi numi, ma per mal gestione umana.
I minimondi umani
La recente produzione scultorea passa da una dimensione ariosa a una giocosa, minima, quasi effimera, di “minimondi umani”.
Tale epiteto deriva da quell’intreccio di mini-racconti, mini-sculture non miniature, come gioielli di ventura, piccoli essere nati da amore paternalistico di legame artista- prodotto come Pigmalione innamorato, o nella condizione di un piccolo Eros contemplativo di una Psiche ancora dormiente.
Ultima produzione del minimondo è la fuga, un chiaro manifesto dell’intento di uscire da una superficie e da un mondo omologante dove anche il segno identifica l’uomo come marionetta-geometrica e informe, mentre l’uomo di carne fugge.
Il tema della fuga richiama per asintoto quello della caduta, ultimo residuo di una fuga altra, antecedente, quella evocata dalla serie di angeli caduti, appartenenti a una collezione privata americana.
Reduci da una fuga altra,
ultra terrena,
melodiosamente
deposti.
Soavemente giacenti
su una terra che non li ha accolti.
Angeli caduti
si involvono in un mondo
di cui aver paura
Superfici come realtà
Minimondi umani come vissuti di protesta
Umani di carta,
di argilla,
di plastica.
Donne in gabbia,
parate di vissuti
L’artista parla
con,
dentro,
su
e attraverso
la materia.
In merito a quest’ultima scultura, l’artista spiega la sua protesta:
“L’Africa si trova, ancora oggi, ad essere presa in considerazione solo in quanto risorsa da sfuttare, materia da trasformare in un prodotto da usare e gettare, questo è per noi il continente nero e lo dimostriamo quotidianamente.
Anche il Desiderio di abolire -CON LA FORZA- ma solo e sempre -PER LA PACE- (si pensi all’atroce e ridicolo concetto delle “guerre preventive”) i sistemi politici e le dittature di alcune aree dell’Africa, come per esempio la Libia di Gheddafi, altro non sono che maschere di interessi economici legati al consumo della macchina sociale occidentale.
E’ un grande frutto da spremere fino all’ultima goccia… sono secoli che spremiamo e quando avremo preso tutto ciò che serve la dimenticheremo e la lasceremo alla sua sete, all’AIDS, e per ricordarne altre che per noi ormai non sono un problema: colera, difterite, ebola, epatite, morbillo, pertosse, peste, TBC, tetano, polmonite, tifo…
La lasceremo all’indifferenza e a tutte quelle cose che sono sotto i nostri occhi ma che non hanno importanza perchè non vanno scambiate con il petrolio, i diamanti o l’oro.
Noi per quella gente siamo un’illusione troppo amara, molto più amara di tutto ciò che si manifesta con chiarezza lampante: problemi che hanno da sempre e contro cui cercano di lottare, noi siamo l’ambiguità, siamo l’inganno, siamo coloro che allungano la mano e poi con un ghigno crudele la ritirano l’istante prima che la persona cui abbiamo promesso aiuto possa afferrarla.
Siamo una gabbia, ed in questa gabbia teniamo chiuso questo splendido essere, come un trofeo di caccia, come un ricordo di ciò che eravamo, come un prodotto esotico, che aumenta di valore proprio perchè, grazie a noi, è sempre più raro.
Abbiamo imparato a raccontare alle nostre coscienze che si fa guerra per portare pace!”