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[continua dal numero precedente]

Era proibito.
Recarsi nelle camere dei monaci.
Entrare nelle fondamenta della cappella, avventurarsi fuori dal monastero, bere alcolici, incontrare donne. Era proibito legarsi a un unico monaco, celebrare messe senza la presenza del sacerdote, saltare i doposcuola, non partecipare alle attività extrascolastiche.
Giordano, puntualmente, rompeva le catene delle regole. Oggi, domani, dopodomani… ieri! E si stringeva le mani, forte, l’una contro l’altra, perché non avrebbe voluto uscire dalle righe che lo aiutavano a resistere alla propria collera controllabile, assoggettabile solo grazie alle medesime norme da rispettare, le uniche a metterlo in riga, dando ordine alla sua mente furiosa.

In quel locale ampio appena da contenere, stretti, una scrivania, una seggiola, un letto a baldacchino, un comodino e un piccolo comò, c’era odore di muffa. Le pareti, illuminate appena da un’alta finestra sbarrata da grate di ferro come in carcere, prive d’intonaco, denudavano rocce antiche come il mondo.
Giordano, occhi sbarrati da uccello notturno, si sedette sulla coperta ruvida, fissando il suo generale come fosse un dio malefico che avrebbe potuto sbranarlo da un momento all’altro.
Si sentiva ancora giungere da lontano, molto lontano, l’allegro schiamazzo dei ragazzi, normali, in gioco nel cortile, quando il monaco, con un mezzo sorriso irritato, si abbassò il cappuccio senza dire una parola e mostrò lineamenti allungati e irrigiditi dal tempo. «I tuoi documenti», svelò, «li ho trafugati fra le cartacce del tuo vecchio nosocomio. Avevano dimenticato di distruggerli… o di custodirli!».
Giordano ebbe un brivido e il freddo che gli artigliava le punte delle dita ne ridusse la sensibilità. Voleva carpire quelle pagine e leggerle d’un fiato. (No. Voleva prenderle per cacciarle nel fuoco del camino che gli bruciava dentro il cranio. Voleva darvi luce. E cancellarle. Voleva conoscerle e disconoscerle).
«Ognuno ha il diritto di sapersi», sibilò il monaco, allungandosi verso di lui e schiaffandogli in faccia il marcio che gli maturava fra i visceri.
Giordano non si difese. Non sollevò neanche una mano sulla bocca per coprire l’impulso di rigetto che aveva attanagliato lo stomaco.
Vibrò.
Il monaco agguantò la sedia e la piantò rumorosamente di fronte a lui, facendolo trasalire, poi vi si sedette per allungare l’oscura vista sulla calligrafia che riempiva la cartella clinica. Le labbra si sollevarono, mostrando denti gialli e consumati. «Patrizia D’Angelo», disse.
“D’Angelo?!”, pensò Giordano dalla nebbia che confondeva i pensieri.
Era il cognome che gli apparteneva…
«Diagnosi principale… Trauma contusi-vo al capo con commozione cerebrale e massiva emorragia subdurale. Diagnosi secondaria: lesioni da stupro, lesioni lacero-contuse al volto e agli arti superiori, lesioni minori di tipo escoriativo al dorso e agli arti inferiori. Intervento principale: decompressione cranica con evacuazione del contenuto emorragico subdurale. Esito: Morte celebrale». Come colto da un piacere indomabile, il monaco sbarrò gli occhi e sorrise. «Sei il figlio della morte e della violenza, concepito dalla furia omicida, nato da un vegetale che si avviava al disfacimento, sei la vita che sboccia in un campo di battaglia e cresce sana e forte, cibandosi delle rovine organiche proliferanti in un automa della natura». Sfogliando le cartelle lentamente, il monaco giunse a quella pediatrica, dove era citato il nome di Giordano. «Tre chili e mezzo», mormorò. Poi affondò quello sguardo nei suoi occhi e d’un tratto tutta la fronte si imperlò di sudore. «Al momento della tua nascita tua madre era ormai mummia raggrinzita alla quale restava solo un anno di vita corporale. La sua anima era già volata via da tanto, tanto tempo». Poi nominò quello che non avrebbe mai dovuto citare. «Tuo padre non fu mai scovato e adesso si aggira sereno per il mondo».
Suo padre.

Giordano, che sapeva cosa fosse il sesso, perché quello stesso monaco furente gliene aveva “spiegato” ogni particolare, portandolo dove a nessuno di loro avrebbe dovuto esser concesso e facendolo assistere a scene luride, immaginò come in un lampo la madre lottare per difendersi, il padre spingerla a pugni e schiaffi contro un fossato, saltarle addosso, arrabbiarsi per un morso, schiacciarle la testa contro la roccia, poi scoprirsi, tirando fuori quel coso enorme che serviva per l’accoppiamento e conficcandolo nel corpo esanime di qualcuno che già non c’era più. Percepì la carica bestiale della violenza, la mostruosità della spinta sulla donna straccio, la malvagità pura prendere forma nello sperma inseminante una vagina che si contorceva automaticamente, accogliendolo con la propria funzione di ricettacolo. Conca senz’anima che cullava spermi in fuga dalla morte verso l’ovulo, spermatozoi veloci, aggressivi, accaniti, offerti da un amplesso senza pietà.
Da quell’evento negletto era sorto Giordano che adesso, forse, riusciva a spiegarsi per quale motivo le proprie membra non si fossero date pace, ma come infernali, anche se invano, l’avevano sempre spinto verso la brutalità.
Il monaco adesso era serio. La sua pelle scavava rughe attorno agli occhi fra i guizzi delle palpebre: «Dobbiamo vendicarci…», decise, «dei nostri padri…». E di nuovo mostrò i suoi denti cavallini che sembravano precari come quelli di un cranio senza vita. «Padri che ci hanno bruciato, deturpato, sporcato…». Balzò in piedi di fronte a lui che restava ancora paralizzato e incapace di difendersi. «… l’anima!», gridò.
Giordano si sentì invadere da rabbia disumana, quando comprese che qualcosa gli aveva strappato l’infanzia nello stesso istante in cui gli aveva dato vita… lui che aveva studiato che carità, amore e fratellanza fossero gli unici valori da perseguire fra gli uomini… lui che aveva imparato a inventare, creare e costruire… lui, piccolo ma determinato, come carrarmato, si sentiva defraudato del diritto di essere felice sin dal concepimento e finalmente voleva, pretendeva sfogare quella carica immonda che solo fino ad allora non lo aveva fatto vivere nella colpa.

«Anche lui fu tradito…», disse ora a Turi Torre, tastando con mano come quell’uomo a cui si rivolgeva gli era più simile di quanto prima avrebbe potuto immaginare.
Si alzò e gli sorrise, avvicinandosi elegantemente; si chinò verso le sue mani per scioglierle e liberare ogni nocca, ogni dito dai lacci dell’esistenza, poi prenderle e sentirne la rudezza, la rigidità, premerle forte perché cedessero, come massaggiandole.
Era strano che si lasciasse toccare, con tale confidenza!
«… anche il mio monaco, che credeva nella giustizia terrena e sbagliava assolutamente», aggiunse.
Un istante dopo la furia, il medesimo desiderio di vendetta che lo aveva travolto quel giorno nelle segrete della cappella, il medesimo mostro che gli aveva governato la mente e il cuore come una malattia magnetica, lo spinse verso la porta al suono di un ruggito animalesco.

Mito da sempre narrava
riti occulti nell’antro dell’ara
infanti sventrati con bava
colante, conati, da bare
di sale infuocato arrossava
col sangue le vite che odiava
Ma adesso i ceri d’alcova
splendevan su scene più rare
Bambini da data nonnava
rovine dei corpi il fetore
mostrava la morte che grava
su putrida sorte brutale
Eran quei che attraverso il cortile
nel cenobio aveva strascinato
eran quei che in mezzo all’ovile
scavando aveva riesumato
erano uno, due dieci, contava
eran tutti lì, insieme, gelati
a parlar della fine che lava
quello strazio comune accusato
«È mio padre, cattivo e anche schiavo
del declino dell’animo, nato
malato e fin troppo bravo
a cogliere errore in un fiato
È mio padre, da sempre violava
col sesso i bambini schiacciati
da chi come un gioco trattava
altrui corpo per bambola amata»
Fagotto lì sotto l’altare
additò con fare studiato
chi, minuto e stravolto da tara,
era ormai sempre più raggrinzato
Giordano s’accosta pian piano
notando un volto assai strano
perduto aveva lontano
sembianze di mente di umano
e quello che or rimaneva
sprofondare in un limbo pareva
che privo di senso e pensiero
vicino all’inferno sincero
viveva larvando sul telo
disteso a coprire il mistero
di un corpo ormai privo di anelo
d’un’aura che ha perso il sentiero
del vivere e saper per intero
chi si è e che si vuol per davvero
«È lui che ha stravolto le vite
di giochi e serene partite
troncando il fluire del mito
futuro splendente tradito!»
Così sorse rabbia contrita
nel cuore che morse le dita
ragazzo contratto, stranito
mutato da furia omicida
Non dava valore al concetto
che l’uomo ormai era l’inetto
perduto in un mondo disfatto
che privo di colpa era infatti
Voleva distruggere adesso
chi s’era permesso e poi mosso
per dare la morte in un passo
e farli finire nel fosso
Soltanto così avrebbe avuto
lo sfogo di quel dolor muto
che triste aveva vissuto
’gnidì duro ed ossuto
Ma proprio avanti alla mano
alzata a colpire ormai invano
il vivo che morto era insano
si udì quell’urlo: «Giordano!»
E lui, con scatto veloce,
si volse a guardare la foce
vibrante di rabbia e di luce
che gli occhi riempiva feroce
Il monaco infatti, agitato,
muoveva i due pugni d’un fiato
gridava e svelava affannato
tormento ben privo di pace
«Fui io! Il vero non tace!»
Giordano fermava quel gesto
attendeva parole al più presto
restava carpir tutto il resto
chiarire il motivo d’arresto
«Magagne subite in infanzia
tormenti crescenti nell’ansia
di prenderne ancora, una danza
del corpo e dell’anima senza
piacere stracciava il mio cuore
che, solo, poteva aspettare
la fine di quelle torture
e, solo, poteva restare
in vita durante l’usuale
azione crudele e bestiale
perché, dopotutto, è normale
che ovunque, nel bene e nel male
il figlio del bruto banale
non ha un trattamento totale
di fronte alla morte esteriore
A me toccò sorte peggiore:
di vivere d’odio ostinato
memoria del mal soffocato
da iniqui impulsi arrabbiati
libìdi avulse e permeate
d’insulsi secreti versati
Fui io, mio generato!!!»
Al suon di quel moto aggraziato
del saio lontano cacciato
di un uomo che nudo lasciato
mostrava se stesso segnato
da lunghi e contorti meati
Giordano rivide il momento
la morsa, lo stupro, il tormento
la madre, sbattuta e dolente
subiva il peso opprimente
del vile schifoso e gemente
di viscido e rio godimento
«A me è dato l’intento
di offrire supplizio al demente
parola non dice e non sente
mio padre, come se assente;
a te è occasione l’istante
di vendere il cuore e la mente
a faida infantile e potente
Tuo padre è qui, ben presente
parola non sarà insolente
in questa mia bocca fetente
Ti è data occasione eccellente
per compier giustizia che allenta
al suono del pianto opprimente
dei morti sentor sofferente»
Il capo abbassò già pentito
asciutti occhi di granito
sermone aveva finito
e adesso attendeva contrito
il castigo che avrebbe subito
Giordano era solo un ragazzo
la mano però serrò, pazzo
staccando dal marmo quel pezzo
sovrano di furia in un razzo…
non gliene fotteva più un cazzo
di perder controllo sul lezzo
del proprio invincibile e rozzo
fluir verso il buco del pozzo
(l’inferno dell’ira che insozza)
Ma che razza di cane! che puzza!

Era un rito

ordito
per liberare il peccatore
dall’orrore di patire il sapore
di una vita ridotta al timore,
nel ricordo del male subito
 
e del male dato

Era il rito della punizione e del perdono

Questa era la sua attività extrascolastica!

Irruppero troppo presto, proprio in quel momento, accompagnati dal vecchio parroco che aveva in consegna le chiavi delle segrete, l’unico oltre al monaco a sapere dove venissero occultati i cadaveri, il complice che lo aveva coperto per tanto tempo, tradendolo proprio al compimento della punizione terrena che forse avrebbe potuto salvargli l’anima.

Il monaco fu dunque accusato di:

infanticidio premeditato
pluriomicidio
occultamento di cadavere
rapimento di disabile
abuso su minore
celebrazione di riti tribali

non di stupro, di assassinio preterintenzionale – ironia – i veri reati che avesse compiuto.
E Giordano fu salvato dalla follia che era stato sul punto di perpetrare.
Per il momento fu salvato…

… Adesso, forse, era diverso!

Marcella Argento

[continua nel prossimo numero…]

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