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[…continua dal numero precedente]

La calza non aveva schiacciato solo i lineamenti, ma anche i sensi, molti, ne erano incatenati e, attraverso la maglia impregnata di pioggia, la rugiada non sfiorava le labbra; lo sfrigolio sui padiglioni auricolari ovattava i suoni; il freddo umido, il venticello, ne erano frustrati, mentre ogni campo visivo diventava leggermente più grigio. Restavano solo l’odore e il gusto della bruma che, frizzante e pura, penetrava fin sulla lingua assetata.
Giordano credeva che qualcosa dentro di lui stesse maturando senza freno e che il vescovo non avesse commesso errore, scegliendolo per quella missione.
… Giordano, che avrebbe dovuto sentirsi intontito, non soffriva il gelo, non tremava, ma si eccitava al punto da credersi drogato, con i timpani che vibravano alla minima goccia di pioggia, le pupille attente alle ombre nell’ombra e le gambe rigide ed energiche. Gli parve di essere in un sogno, perché il suo corpo non stava rispondendo a leggi tipiche della veglia, ma risuonava esclusivamente agli impulsi del cervello, mentre Torre apriva una porta-finestra senza produrre il minimo rumore e nello stesso modo si intrufolava in apnea.
Dietro di lui, gli altri; poi il balcone fu richiuso con la medesima attenzione.
Fu allora che Giordano scoprì il colore scarlatto attraverso gli occhi della maschera, quando limpidamente comprese che nell’oscurità totale il miracolo vivente vedeva senza la minima difficoltà.
È mostro!
                    Cyborg? Androide!
È robot, robot robot.
Ma Giordano non riusciva a credere che la tecnologia si fosse evoluta tanto.
È alieno…
Muovendosi, Cosma sembrava leggeris-simo, come si librasse nel nulla.
No, è davvero creatura divina!
«Quindici secondi», sussurrò Torre, spegnendo la lucina dell’orologio.
Allora Cosma, con quello sguardo fulgido che inquietava, si accostò all’uscio della stanza, lo socchiuse e si girò, sparendo. Un istante, forse esattamente quindici secondi dopo, la sua sagoma fu scolpita dalla scintilla di una silenziosa pistolettata. Quando in corridoio il corpo di chissacchì crollò a terra, nell’altra stanza si udirono urla femminili: «Noooo! I bambini nooo!». Un suono che esprimeva non una, ma numerose emozioni, come uno strumento musicale che lanciava note strazianti di preghiera, rabbia, speranza e quanto altro una madre potesse provare di fronte al boia suo e dei propri figli.
Si udirono passi lungo le scale, una porta che si apriva, il gorgogliare sempre più muto della donna e i pianti infantili all’improvviso troncati.
Giordano fu spinto in corridoio e intanto immaginava il pericolo che avrebbero rappresentato i piccoli ancora inermi, quando fossero cresciuti, se per scelta fossero stati risparmiati… decideva che fosse inutile ribellarsi a tali leggi, magari soltanto domandandosi il perché di una strage a tappeto, di una guerra civile scabrosa quanto il genocidio hitleriano; deduceva poi che quell’angelo dai balzi senza suono fosse solo un soldato e non certo di Dio.
Ne vide il travestimento nero a ogni sparo, ora che, probabilmente uscito dalla porta del massacro, anche Pietro Tropea si prodigava in precise esplosioni e attraverso le scale, i picciotti venivano sorpresi, scivolando giù come sacchi colmi. Sebastiano Noto aveva freddato un altro sfortunato in corridoio. «Nun semu a-nnenti![1]», comunicò, mentre Cosma indietreggiava, dicendo: «Se è giù, ci è già scappato». Un attimo di silenzio. «Ma non è giù: è su!».
«Qui piazza pulita», relazionò Torre con voce ferma. «Più in là però c’è una botola in alto che va in mansarda».
Ed erano stati velocissimi.
«Bene». Nel buio le voci risuonavano con più energia. «Allora Tropea e Noto giù a finire i senzanome, noi in mansarda verso la punta della piramide».
Di nuovo si divisero, truppe speciali, SS della mafia, in metri quadri senza suono, dove i corpi, prima vivi, divenivano solo intralcio alle gambe, dove scorrevano rivoli di sangue e… «Sei bravo, dottorino», stava mormorando Trovato, pungolandolo con la canna della pistola lungo la schiena, «non una domanda, non un gesto di opposizione, non hai ancora combinato niente… Ma sai che potrebbe non bastare? Sai? In tutta questa confusione potrebbe scappare un colpo per sba…». La parola gli si fermò in gola e Giordano non seppe cosa fosse successo, vide solo le luci di Cosma accanto a Silvestro e poté almeno immaginare, quello sì.
Poi il capo saltò, sfondando con un pugno la botola di legno e riducendola in schegge che sulla faccia di Giordano non danneggiarono gli occhi spalancati nel buio solo grazie a quella maglia che lo deformava.
Da dentro, le revolverate furono nevrotiche; proiettili a ripetizione che, attraverso lo squarcio appena aperto si affollarono liggiù; cartucce che rimbalzavano, sfrecciando e sibilando; pallottole che si piantavano contro il muro; munizioni che spaccavano quella parte di botola rimasta. E di esse si vide la scia meteorica che nell’oscurità si accendeva per l’attrito con l’aria, o per il lento estinguersi della carica… Fin quando d’improvviso vi fu di nuovo calma.
«Gli resta un colpo», spiegò allora Torre.
«Vado per primo». Cosma si issò e, dall’interno, un tono corposo, maschio, disse: «Chi sei? Co-co-cosa sei? Perché hai gli occhi rossi? Chi cazzo sei???»
«Fai il bravo e dammi la pistola, bambino», ringhiava Cosma, mentre anche Giordano veniva costretto ad arrampicarsi e a esporsi.
« È scarica, cosa vuoi che ci faccia?!»
Nel buio la voce ferma del santo killer: «Sai una cosina? Non avresti dovuto toccare Giacomo. Per esempio, se avessi ucciso Alessandro, avrei potuto metterci una buona parola; ma Giacomo no, Giacomo… non era invischiato nei nostri affari!»
«Nemmeno Roberto, i miei bambini, nemmeno mia moglie!» Era alterato, ma manteneva ancora un barlume di dignità. «E li avete trucidati ugualmente!»
«Inutilmente, vorrai dire, dato che tu, contro le nostre aspettative, dopo aver subodorato puzza di bruciato, invece di proteggerli, sei sparito, lasciando loro al nostro ludibrio e salvaguardando solo la tua pellaccia vile! Ti consideravo migliore…»
Quando Torre accese la luce che lo abbagliò, Giordano non chiuse gli occhi perché voleva vedere il condannato a morte; quando la lampadina scarna ebbe illuminato le scatole, i cassettoni e i bauli di un mondo coperto da strati di polvere, Giordano mise a fuoco l’individuo che stava puntando la rivoltella verso Cosma e pensò si trattasse di un tipo perfettamente comune, con addosso un pigiama firmato e una bella vestaglia, un uomo forse curato, con un taglio un po’ strano, ma pur sempre un qualsiasi passante. Eppure era qualcuno che aveva rotto con tutti i canoni delle leggi, ma che si sapeva nascondere molto bene dietro la maschera di apparenze certamente molto più efficace di quella portata in viso da Cosma.
«Chi siete?!», domandò ancora facendo saltare gli occhi intelligenti da uno di loro all’altro.
E Cosma fece solo un gesto con la mano che gli scoprì appena appena il sorriso feroce.
«Tu?!», tremò allora l’uomo come una bestia in trappola. «Tu? Proprio tu??? No… nono! no!»
«Non si scomponga, signore, ci sono ancora io qui». La voce proveniva da dietro di loro e quando – in ritardo rispetto agli altri rapidissimi – si fu voltato anche Giordano, vide che il possessore teneva Trovato con una pezza bianca sul viso, svenuto, a sé, reggendolo come fosse piuma.
(Era salito senza farsi sentire, oppure era sempre stato lì, nascosto dal silenzio.)
Non poteva avere più di venticinque anni, ma sembrava già maturo nello sguardo, nel sorriso, nella tranquillità che mostrava di fronte alla  morte. «Tenete molto alla vostra mascotte, non è vero?», sostenne con voce suadente. Poi gli poggiò la canna contro la nuca. «Lascerete passare il mio signore, altrimenti io sopprimerò Silvio e a voi non resterà che sotterrarlo assieme ai suoi splendidi capelli lunghi, ora decorosamente raccolti a girandola di danza».
Giordano guardò il boss nemico che, si vedeva, stava progettando di uscire dalla finestrella, senza dare alcun peso al destino che avrebbe atteso chi stava rischiando la vita per lui.
«Lo lascerete passare e poi potrete sfogarvi su di me, finché vi parrà opportuno», continuò la guardia del corpo morbidamente.
«An-d-re-a Se-r-gi-o», scandì Cosma, come se ogni sillaba lo aiutasse a realizzare e ingoiare che si trattasse proprio del possessore di quel nome. La morsa, che il suo pugno stretto su se stesso provocò ai guanti, li tagliò, lama generata da dito contro dito, facendo saltare i lembi come corde troppo tese; qualcosa nelle articolazioni stava fremendo, sfrigolando, e sembrava il ruggito di un trattore, suoni meccanici che soffrivano nel tentativo di spostare smisurati pesi. I muscoli antagonisti (se Cosma ne aveva davvero) agivano contro i propri alleli e generavano su ossa e tendini, forse di metallo, macabri cigolii. «Vedi, prete?», si udì roco attraverso la bautta. «È  un po’ come quel figlio che portava il tuo stesso nome», tono colloquiale, pur con la voce strozzata, «e nonostante non fosse neanche legittimo, nonostante fosse ugualmente il più amato, il preferito, avuto fra l’altro da una donna qualsiasi senza titoli né rango, si ribellò al padre, il Conte Ruggero, prendendo il castello di Mistretta come roccaforte di base in occasione della sua assenza». Paradossale paragone in una situazione così complicata. «E non so chi fu più infame, se lui o il Conte stesso che, dopo averlo indotto a capitolare con la promessa dell’amnistia, accecò tutti i suoi proseliti e liberò lui dopo giorni di reclusione».
Quel Conte Ruggero che nel XI secolo aveva scacciato gli arabi, proclamandosi salvatore dei nuclei cristiani sopravvissuti in Sicilia, quell’antico normanno d’Altavilla il quale aveva portato modernità nella terra allora più florida della penisola italica.
«Quoque tu, Brute, fili mii!», gridò Cosma infuriato.
Ma Andrea Sergio non batteva ciglio, sorrideva limpidamente, come stesse compiendo l’azione più naturale del mondo, attendeva soltanto.
Attese…
che il suo protetto avesse preso la via della fuga, attraverso i tetti del palazzo, davanti a tutti loro che, dopo avere barbaramente freddato una donna e due bambini, si comportavano da romantici, grippati com’erano dalla minaccia di morte per un loro uomo.
«Perché? Perché ci hai traditi?!», sbraitò Torre all’improvviso e non era più lui, visto che stava tremando e le gambe tremavano, le braccia tremavano, tremavano le mani fino alla rivoltella che impugnava forte con tutte le dita, sembrando poter premere il grilletto di momento in momento.
«Oh! … La terza mano!», esclamò Andrea come recitando. «Vedo che stai bene e non ti nascondo di esserne contento».
«Perché? Perché? Perché hai fatto questa bacata idiozia? Io ti ammazzo!». E probabilmente non era diverso dal sentimento che lo aveva spinto a massacrare il massacratore di Agata, o forse era ancora più grave, visto che stavolta non si giocava solo sulla salute di Trovato, ma un compagno, proprio un compagno la minacciava.
«Nella vita, Salvo, capitano tante cose e…»
Dal giardino si udì uno sparo… seguì il suono di un corpo che rotolava lungo il tetto, per poi scaraventarsi sulla terra battuta.
Andrea, prima serafico, si era tutto a un tratto stravolto. Attraverso il guizzare delle sue sopracciglia, le labbra aperte e i capelli che ora sembravano più ritti, si leggevano i suoi pensieri: nella stanza mancavano all’appello diversi scagnozzi di Cosma, qualcuno di loro aveva certamente scorto un movimento nell’oscurità e aveva avuto l’ardire di far fuoco, così qualcosa era andato storto lì sul tetto…
no
(non qualcosa… tutto!)
non solo lì, ma dappertutto…
(nel mondo intero… che sembrò precipitargli addosso in un momento
ora che per lui che si era esposto e non aveva più alcuna speranza, non rimaneva neanche l’ideale).
Un attimo dopo, come per incanto, era di nuovo in sé. «… a me è capitato questo», completò semplicemente. Poi chiuse gli occhi e lasciò scivolare Trovato per terra. «Sei tu la terza mano, no?» aggiunse «Uccidimi allora! Chi meglio di te può farlo, chi meglio della mia terza mano?» Allargò le braccia. «Vedi? Non posso più nuocere a nessuno. Spara!»
E forse Torre, sì, avrebbe sparato, se Cosma non lo avesse spostato di lato. «Non commettere un simile errore!», gli intimò. Poi, rivolto al traditore: «Ti ha posto un quesito ben preciso. Perché?»
Andrea sorrise un po’ di più, un attimo dopo abbassò leggermente il capo. «Come se la mia risposta possa avere un significato per voi! Come se la mia risposta possa cambiare le cose!». Fece cenno di no con la testa. «Non saprete. Non c’è motivo». Alzò la pistola e sparò, ma non colpì altri che sé e il sangue schizzò dappertutto, sul domino, sui guanti, sul corpo esanime di Trovato e anche sulla terza mano che…
La tese per cercare di prendere qualcosa.
Che era troppo lontana e non riuscì neanche a sfiorare, adesso che l’aveva persa, adesso che per sempre rovinava a terra.
[1] «Non abbiamo neanche incominciato!»

21- Sta bbuono!!

22- Ma se lo incontro, faccio vendetta, / me la prendo di piombo la misura / che se per sfortuna mi sbaglia il braccio / io stesso mi condanno subito alla forca (traduzione letterale da Giuseppe Pitrè – Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol II  “Il vespro” – Palermo 1978 – pag. 304)

23- L’ho trovato rinchiuso in gattabuia

[continua nel prossimo numero…]

Marcella Argento

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