[…continua dal numero precedente]
11.
Ma non ne ebbe il tempo: Giordano fu chiamato prima di aver riordinato le idee, prima che fosse riuscito a estrapolare quella narrazione per riporla in una dimensione esistente fuori dai libri, fuori dal vivere ovattato nell’arte, nella cultura, nella scienza. Venne convocato con la fiaba nel cuore, con quel senso di surrealtà che lo faceva fuggire dal mondo, discostandolo dalla percezione che gli avvenimenti storici non fossero poi così lontani, ma potessero anche ripetersi nel tempo. E questa volta, a morire, non era stata una straniera sconosciuta e neanche un idolatrato, remoto giocatore di pallacanestro. Era stata la donna che aveva vissuto e convissuto assieme al narratore, dividendo momenti intensi e di profondo affetto.
«Ci sarebbe di peso», stava dicendo Chimaglia, come per giustificarsi. E allargava le braccia, alzando le spalle, si passava una mano sui capelli di lato all’orecchio per schiacciarli.
Mentre Giordano, scaraventato di nuovo fra loro, osservava tutto con il medesimo intento analitico di prima, Cosma, seduto sul trono asettico, teneva il capo ciondoloni, gli occhi chiusi e le spalle larghe diritte che stonavano con la rilassatezza del collo. Ridacchiò e senza muovere la testa disse: «Se pensi che ti sarebbe di peso, rimani qua!»
Chimaglia ebbe un sussulto. «Non… non intendevo questo!»
«Rifiuto categoricamente chi non sa reggere il peso! Resterai e sarà Trovato a occuparsene!», gridò il boss senza prendere fiato, con quel capo nascosto del quale non si vedevano i lineamenti, le emozioni.
Allora Chimaglia strabuzzò gli occhi, forse preso in contropiede, forse davvero sollevato; nel frattempo l’altro scagnozzo sorrideva e s’inchinava elegantemente: «È un grande onore per me toccare i grandi dottori!». Ma, dietro la battuta, si lesse l’atteggiamento sarcastico.
Cosma gonfiò il petto e lentamente si mise diritto, con gli occhi vitrei aggiunse: «Tu, Pietro, sortirai con Sebastiano dal lato Nord; io con Salvatore e Silvestro attaccherò da Ovest. Non voglio altri: noi cinque, anche con l’ingombro, valiamo più di cento uomini». Non voleva andare. Gli si leggeva nelle labbra paralitiche, nella voce monotona, meccanica… Assolutamente non voleva andare e per una volta ancora chiamò a sé quel senso di pietà che faceva dell’assassino un martire.
Fissò Giordano all’improvviso con pupille infernali. «Le forze di Alessandro Martino sono riuscite, dove noi abbiamo fallito, e hanno trovato il covo dello zio di Roberto», enunciò. «Il mio boss, dopo averne avuto notizia, mi ha chiesto vendetta». Balzò in piedi imponente, sbarrando quegli occhi che mandavano scintille. «E tu verrai con noi, visto che vuoi capire; perché devi capire».
Che quella fosse vera guerra? Che la guerra se lo stesse mangiando? Lo costringevano, forse, a comportarsi come non gli si confaceva e Giordano pensava che, se qualcuno non sopportava il peso, era solo lui, che obbligando Chimaglia a restare, aveva compiuto un gesto di benevolenza, dato che, certo, avrebbe preferito trovarsi al suo posto.
Sostituirono occhiali scuri con cappucci per ornare abiti comodi e neri, indossarono calze che ne alterarono i lineamenti, guanti di pelle, pistole alla fondina e altre armi nascoste qua e là o appena visibili; ma Cosma no, Cosma, per celare il corpo imponente, si copriva con un domino e usava una tribale, intarsiata maschera nera per il viso, del quale adesso si vedevano solo le pupille splendenti.
“Ma è davvero umano? E se, come sembra, non lo è, come potrei mai curarlo?”, si domandò Giordano, mentre, studiandolo, si lasciava imbacuccare come un neonato nella tormenta. Poi, sotto le strattonate di Silvestro Trovato, aspettò che Cosma smettesse di fissarlo e che quel capogiro trascorresse lungo le corde delle incertezze.
«Porti un bel nome, prete», esordì il falso santo. «Se dentro di te ci si potesse purificare, come facevano gli Ebrei davanti al Battista, come finse di fare Gesù per una platea di ignoranti, se le tue acque avessero tale necessario potere, ti aprirei il petto per bagnarmi tutto il corpo del tuo sangue, oppure… oppure riempirei le mani delle tue lacrime e vi immergerei il viso e gli occhi».
Gli occhi che avevano visto troppo, le mani che avevano agito troppo.
Gli stavano infilando i guanti, quando Giordano fece cenno di no con la testa. «Non è tardi», disse semplicemente, scolpendo un sorriso che fu trafitto e tramutato dalla calza stirata fin sotto il suo mento.
«Priorità alla nostra vita o a quella del corvo?», s’informò Torre seccamente, caricando la pistola.
«Che domande!», risuonò Cosma da dietro la maschera, mentre finiva di calzare i guanti. «Alla vita di tutti!»
Intanto… «Semu accavaddati… arrassu a malasorti[1]», esclamò Pietro, partendo al piccolo trotto assieme al compagno.
Padre Giordano percepì allora l’elettricità che aleggiava, come in un accampamento prima dell’assalto al castello, come attorno ai campioni greci pronti ad ammazzarsi per i propri eserciti e il proprio re; e per la prima volta comprese cosa rendesse questi uomini fanaticamente uniti: erano studenti prima di un esame, quando, in attesa della minaccia comune, si difendono stringendosi di più fra loro e finalmente, ignoratisi durante le lezioni, diventano amici in un’ora sola come d’incanto; erano sopravvissuti a un disastro aereo che fra le montagne, attendendo soccorsi, si occupano gli uni degli altri; erano fratelli sotto le vergate di un padre violento; bambini di una classe governata da un maestro che fa abuso della bacchetta. E si amavano, compagni, come ora amavano lui che, nonostante fosse stato imposto, trovandosi nella stessa avventura, come loro, avrebbe rischiato la vita… insieme.
Silvestro Trovato lasciò scivolare le dita ingrossate dai guanti fra le sue ingrossate dai guanti, premendo forte i polpastrelli contro il palmo della mano.
Era intimidazione.
«Da adesso seguirai a fagiolo tutte le mie istruzioni nei tempi che ti imporrò e non sbaglierai di un pelo, se non vorrai che, al ritorno, di questa tua mano rimanga solo il dorso».
Giordano lo guardò nei lineamenti deformati e si accorse che questa aggressività nasceva dal bisogno di riscaldamento: quel ragazzo si stava preparando a uccidere e, velocemente, si avvitava, sprofondando nel ruolo di killer. Era la maschera neutra di un teatrante pronto a irrompere sul palco, quella che lo preparava a immedesimarsi nel personaggio. Fu la prima volta in cui Giordano si domandò se alla fine, assieme a loro, assieme a Torre, anche lui avrebbe interrotto vite, affondando il pugnale in un corpo che non sarebbe stato come quello di Cosma e non avrebbe potuto essere riazionato, se si fosse spento.
Ma non seppe darsi risposta.
A quella domanda, Giordano, no.
Lasciate le auto corrono come braccati
Notte fatta di gocce priva di lampi e botti
E intorno alle guance formano nuvole i fiati
Li inseguono fatui e sembrano fuochi
Su processioni migranti fra pini ammalati
pallide lapidi ormai senza motti,
costeggian villaggi dai monti celati
Il lido è lì in vetta,
per la valle dei corrotti.
È nella grotta,
è dove i ciclopi son circondati
da schiave ignave, fantasmi e bambolotti,
Morgana o Galatea in groppa ai soldati,
o cerve che Ulisse attendono al trotto.
S’inerpica il prete fra rocce e cespugli
Occhio non vede neppure i conigli
Orecchio non sente neanche bisbigli
Soltanto, sul braccio, di Silvio gli artigli
e il proprio ansimare che ai ragli assomiglia
E gli altri son agili e forti
lo tiran, zavorra, una pezza
Tanti momenti sconforto
rigira la mente, la carezza:
Giordano ormai peso morto
è inerte in ciò che ora apprezza
sbattuto, sbalzato da esperti
che astuti dimostran prontezza
E in alto appare più erto:
le nuvole scosse da brezza
non celano un picco che certo
espugnar potenza o destrezza
non può, tant’esso è irto
Ma ecco che rimbalza in pizzo
Cosma v’incunea, onda d’urto
la mano da sé il muro grezzo
frattura e s’aggancia traforte
poi, uno a un, con sveltezza
li piglia li leva li porta
li lancia lissù come un lazzo
un Silvio, due il prete, tre Salvo di scorta
E il due or’è senza sforzo
fra braccia del primo contorte
fra note di un verso un po’ pazzo
di corde vocali distorte
che vengon dal solito vezzo
dai segni di pene sofferte
La pioggia selvaggia
che echeggia nell’erba odorosa
tramuta d’un tratto
e svelta diventa vapore
che su dal selciato
trasuda nell’aria brumosa;
la casa, castello incantato,
non stilla rumore
ostello di vita rapito
nel buio riposa
è bello ma sotto gli archetti
s’inerpican more
smangiati balconi crepati
cariatide appesa
cariati, amputati barocchi
di grande valore
pareti poi cadono a pezzi,
vi cresce una rosa
che a rete conduce le spine
vicino il portale
La luce di luna il cammino
illumina e sposa
la croce che stona dal pino
e imprime dolore
atroce ricordo dell’uomo assassino
per chi nell’impresa
si appresta a ripetere
il puro rancore
Chi mai sta in agguato
o si è addormentato in attesa?
Chi mai sarà armato
e abile o col batticuore?
C’è forse un soldato
o un povero imberbe confuso
In corsa i mandati
riducon dei passi il clamore
accosto celati
aspettan di farsi sorpresa
E l’ombra di Cosma nel buio si erge
minaccia che tenebra mostra e nasconde
nera nel nero oscura ne emerge
la morte? la falce? la notte confonde
avanza decisa, al cortile converge
al pozzo le mani solleva e distende
è danza concisa, sciamano che d’etile sparge
il vento che spinge, la tromba dell’aria ne rende
da immobile presto d’incanto visibile in gurge
È allora che Torre e Trovato un po’ trafelati
retraggon Giordano, lo tengono a lato
è allora che l’orto d’ozono sembra invasato
odor di bruciato dov’è più bagnato
C’è l’arcobaleno attorno al costato
di Cosma ora viola o verde sfumato
E il santo, se vola, d’un balzo è saltato
sull’arco che il pozzo nel buio completo
sovrasta d’un pezzo al muro saldato
Non passa un minuto che il mondo è cambiato
e tre forse quattro si sono abbattuti
insieme su Cosma i lampi arrossati
da questi poi il tuono scorrazza di lato
permette al portento un lancio d’agguato:
lì sopra il balcone non ha generato
rumore che danno gli avrebbe portato
Se fulmine, tuono avesse vibrato
con meno violenza il proprio ululato
la preda si pensa avrebbe ascoltato
il suono d’intonaco giù rotolato
Così nell’imbroglio la sua amat’armata
colui che negli occhi richiama i dannati
può trarre a sé in alto con ansia quietata
[1] «Siamo armati (pronti), lungi la sfortuna!»
Marcella Argento