[…continua dal numero precedente]
Seconda parte
La città si affacciava sul mare e, grazie alla posizione strategica del porto, era molto funzionale agli scambi di merci e passeggeri. Le navi che vi attraccavano erano in prevalenza mercantili e da crociera, imbarcazioni da diporto e pescherecci, ma non mancavano mai unità della marina militare. Talvolta vi sostava per periodi abbastanza lunghi anche una nave scuola.
Un giorno che il maestro Carmelo C. vi si era recato come d’abitudine, vide attraccato l’Amerigo Vespucci. Il famoso veliero lo colpì in modo particolare per la bellezza delle murate, l’imponente alberatura, l’immensa velatura e il gran numero delle cime. Era il suo spirito infantile che si rifaceva vivo: quello spiritello che quando lui era bambino gli aveva fatto sognare interminabili viaggi lungo rotte sconosciute, in giro per i sette mari, su velieri leggendari, in mezzo a ciurme di corsari e pirati; quello stesso spiritello che poi, negli anni della maturità, lo aveva abbandonato. E lui, per una strana ripicca dovuta, forse, a uno spietato esame di realtà – le modeste possibilità economiche familiari, i sacrifici della zia per allevarlo, farlo crescere e studiare – aveva finito per odiare il mare, per non sopportare l’odore della salsedine, benché abitasse in una località della costiera, o forse proprio per questo.
Il veliero pareva averlo temporaneamente riconciliato con il mare. Nelle successive trasferte, sceso dal treno, si avviava al porto con la segreta speranza di rivedere il Vespucci e chiedere, eventualmente, di poter salire a bordo per visitarlo. Si fermava sulla banchina a riguardare nei vari settori l’incessante attività di marinai e scaricatori che movimentavano gru e paranchi, carrelli e automezzi intorno al gran numero di navi, imbarcazioni e natanti, per le operazioni di sbarco e imbarco delle merci, di rifornimento e di bunkeraggio. E restava come sempre meravigliato davanti all’enorme traffico che si sviluppava durante le ore di luce, fin quando all’imbrunire le attività sembravano fermarsi, e alcune navi si disponevano a salpare, altre a passare la notte in porto. Era un traffico lento e silenzioso se visto da lontano, frenetico e rumoroso se osservato da vicino. Il maestro Carmelo C. se ne stava a media distanza, irretito da quella confusione e dal gran vociare, mentre, a misura che scendeva la sera – e lui già volgeva la mente al treno del ritorno – andava crescendo sempre più l’andirivieni di donne e uomini, giovani e anziani, dediti al passeggio o ad altre faccende.
Questa volta, appena arrivato in stazione, smontò dal treno e si diresse verso il centro, addentrandosi nelle vie perpendicolari al vialone principale. Qui giunto, proseguì la passeggiata senza stancarsi, a dispetto della forte calura pomeridiana e dell’abbigliamento leggero sì ma completo di tutto. Stendeva i lunghi passi sul marciapiede, alto e magro, lievemente curvo in avanti, saltando da un cono d’ombra all’altro dei platani che svettavano ai bordi del viale. Il piacere che provava passeggiando in centro città gli faceva accettare il caldo che non sopportava al paese.
Era quella l’ora in cui la maggior parte degli abitanti rimasti in città trovava refrigerio in casa con i ventilatori in funzione, non avendo voluto o potuto godere di alcuna villeggiatura ai monti o al mare. E la città, in piena estate, ardeva come un forno a legna e il selciato scottava come uno specchio ustorio. Ma il maestro Carmelo C. sembrava non curarsene. Era come se la lontananza dal paese gli desse refrigerio. Saltellava da un’ombra all’altra per scansare gli spazi aperti alla vampa del sole provando, quasi, una sorta di piacere infantile. Macinava così, andando avanti e indietro, su e giù per il viale, chilometri e chilometri, sostando più volte qua e là, con le braccia dietro la schiena, davanti alle vetrine dei negozi più disparati: abbigliamento, calzature, oggetti per la casa, arredamento, gioiellerie, cartolerie, librerie e così via. Tutti negozi che, a una certa ora, riaprivano i battenti con la speranza che, con il diminuire della calura, il passeggio serale procurasse qualche cliente, soprattutto fra i turisti venuti a frotte ad ammirare le bellezze locali.
Il tempo era trascorso quasi inavvertitamente. Ma benché fosse pomeriggio inoltrato, la giornata era ancora lunga, luminosa. E lui, soddisfatto del passeggio in centro, decise di raggiungere la zona del porto, dove c’era sempre qualche nave importante da ammirare.
La fortuna fu dalla sua parte. Con enorme sorpresa – «Incredibile! Incredibile!» si ripeteva con la bocca aperta e gli occhi sbarrati – vide che il Vespucci era di nuovo lì, fermo nel porto, stupendo e spettacolare come sempre, splendente ancora al sole del tramonto. Lo squadrò in lungo e in largo, felice ed estasiato, sperando in cuor suo di poter salire a bordo e visitarlo. C’era lì un gruppo di marinai in libera uscita e chiese loro come ottenere il permesso. Quelli gli indicarono il giovane guardiamarina di servizio in cima alla rampa del barcarizzo. Il suo desiderio fu appagato, la richiesta accolta senza difficoltà. A bordo fervevano sul ponte le operazioni di addestramento per una squadra di allievi che, curiosamente, eseguivano i comandi a colpi di fischietto. I fischi sorpresero subito il nuovo arrivato per l’intensità e la modulazione dei toni, ora bassi, ora acuti. Una sorta di regolamento sonoro, vibrato con maestria dall’ufficiale istruttore.
A fargli da guida fu un allievo che sorridendo gli spiegò subito il perché di quei fischi – «Tutti i comandi delle manovre vengono dati all’equipaggio con un fischietto. Questo fischietto è chiamato precisamente “fischio del nostromo”» – poi gli illustrò le varie parti e le funzioni del veliero – «La nave scuola è un’importantissima palestra di addestramento alla navigazione a vela e a motore» – e, appreso che il visitatore era un maestro di scuola interessato, fra l’altro, a conoscere il lessico navale, si soffermò dalla a alla zeta sui termini marinareschi, dando i nomi agli alberi del veliero e ai relativi pennoni, oltre che alle varie vele. Un intero dizionario. Una goduria linguistica. Il maestro Carmelo C. ne era a tal punto felice che, al termine della visita, conclusa con una capatina in cambusa e l’offerta ospitale di un bicchierino, nel ringraziare il giovane accompagnatore sul barcarizzo, rischiò di perdere l’equilibrio e precipitare in acqua, più per la forte emozione che per il grappino delibato.
Anche per il pericolo corso, fu quella un’esperienza indimenticabile.
La visita al veliero che lo aveva oltremodo affascinato era durata poco più di un’ora, sufficiente, però, a renderlo euforico per quella che lui già considerava una fantastica avventura. Rimesso piede sulla terraferma, notò che ancora non era buio. L’illuminazione pubblica non era scattata e nella penombra si distinguevano bene i volti delle persone che incontrava, le facciate e gli ingressi dei numerosi magazzini ed empori della zona, gli imbocchi delle traverse fra gli edifici a ridosso del porto. C’erano, lì intorno, diversi ristoranti e pizzerie con i tavolini apparecchiati all’aperto sotto ampi ombrelloni o lunghi tendoni. Già i clienti si accomodavano a coppie o a gruppi, serviti da camerieri in camicia bianca che si destreggiavano fra i tavoli reggendo piatti e bottiglie come giocolieri.
Il maestro Carmelo C., nel vedere quel viavai di pietanze e bevande da un tavolo all’altro, avvertì un certo languore allo stomaco.
Il profumo dei cibi lo stuzzicava. L’appetito si era mutato in fame.
La pizzeria che di solito frequentava non era distante e la raggiunse in fretta. Consumò con calma una margherita sorseggiando una leggera birra locale, concluse la cena con un caffè ristretto, dopo di che pagò il conto, salutò il proprietario che conosceva da anni e si diresse alle spalle del porto.
C’era ancora tempo per l’ultimo treno della notte. Prese quindi a gironzolare qua e là, senza una meta definita, addentrandosi quasi senza avvedersene nelle vie laterali, verso un gruppo di vecchi edifici, alcuni dei quali erano diroccati, evidentemente colpiti dai bombardamenti dell’ultima guerra e rimasti così, né restaurati né demoliti.
Era, quello, un quartiere a lui sconosciuto.
Stava per calare la notte, ma il cielo era stellato e la luna rischiarava la zona che, priva com’era d’illuminazione pubblica, appariva disabitata e silenziosa, solo a tratti attraversata da fulminee rincorse di gatti e ratti. Nessuna luce filtrava dai vani delle finestre, forse le stanze erano tenute al buio per non attirare le zanzare e i pappataci. Né suono o voce o rumore proveniva dai vari edifici.
Il maestro Carmelo C. fu preso da un certo timore e pensò di tornare indietro, verso zone illuminate e frequentate. Ma ecco che un bisogno improvviso, urgente e pressante, lo costrinse a fermarsi.
Doveva orinare.
Cercò intorno, in gran fretta, un angolo appartato, dove svuotare la vescica senza rischiare di essere visto da eventuali passanti.
Notò lì, fra i vecchi edifici, un lungo e alto capannone, dietro al quale si stendeva un vasto piazzale. Un posto adatto, al riparo da occhi indiscreti. Si diresse di corsa in un angolo, allargò le gambe, aprì la patta dei pantaloni e diede sfogo con immediato sollievo al suo bisogno.
L’entrata della costruzione era protetta da un robusto cancello di ferro, la cui base pendeva dall’alto, a mo’ di ghigliottina, mediante una lunga barra ancorata orizzontalmente a due grossi pilastri. Un muraglione parecchio elevato girava intorno al capannone e al piazzale. Doveva certo trattarsi di un complesso di locali adibiti al deposito merci. E quel grande spiazzo serviva al carico e scarico dei camion e dei furgoni.
Il maestro Carmelo C., svuotata la vescica, si riabbottonò i pantaloni e cominciò a muovere i passi verso l’uscita.
Ma che è, che non è, all’improvviso, proprio in quell’istante, uno strano rumore di ferraglia rompe il silenzio. È un cigolio sommesso, insistente, che arriva dalla parte dell’entrata.
Sorpreso e incuriosito, il maestro Carmelo C. allunga il collo e sgrana gli occhi: il cancello a ghigliottina scivola rapidamente dall’alto in basso e si blocca alla base dei pilastri con un rumore secco, definitivo.
Dalla distanza in cui si trovava, non è riuscito a saltar fuori in tempo ed è rimasto chiuso dietro le sbarre, alte e fitte come quelle di un carcere.
È incredulo e perplesso, si chiede come ciò sia potuto accadere. Capisce subito che il cancello elettrico si è chiuso automaticamente a un’ora regolata in anticipo. E quella, maledettamente, era l’ora prestabilita.
«Proprio al termine della minzione…» si diceva. «Avessi finito un minuto prima…»
Non sapeva che fare, non aveva con sé un telefonino.
«Quegli strani aggeggi, utili sì ma complicati… Ci vuole una laurea per usarli a dovere… Ed io» rifletteva con disappunto «non ne ho mai voluto sapere… Su queste cose sono proprio un analfabeta! Questa è l’amara verità!».
Angelo Maugeri
(Continua nel prossimo Lunarionuovo)