Al momento stai visualizzando Sana – Halima (7)

Leila se ne stava dietro ai vetri con specchio e pinza in mano in lotta con la testina di qualche pelo delle sopracciglia. Si rendeva conto dell’esistenza di un incongruente dolore maschile:
“Quanto è stupido Jaffar, l’acchiappa per l’orecchio e la trascina verso casa tutto per un paio di pantofole con cui scende per raggiungere i sui amici. Semplicemente perché queste portano un numero impresso sul blu. Che può spostare il mondo un semplice numero, il numero sei ricamato in ogni scarpa?”
Infatti, appena rientrata e chiusa la porta di casa, Sana iniziava a gridare con il proposito intento, sperava che i coinquilini dello stabile accorressero per renderle giustizia, sperava nella difesa del loro giudizio che esprimeva spesso la saggezza dell’indifferenza. Si riprendeva le ciocche dei capelli perché se scompaginati le apparivano come un difetto congenito.
“Tuo fratello se fa così ha il suo buon motivo. Perché tu stai a entrare ed uscire il piede dalle pantofole dato che girandosi le pantofole capita che un sei si gira, si accoppia con l’altro sei e forma un altro numero? Il mondo è cattivo, va a conto suo, va a caso figlia mia.”
Spiegava Halima alla sua figlia preferita. Era la preferita perché contrariamente agli altri figli non aveva conosciuto manco la metà dei suoi veri genitori.
Shafi era stato svegliato dalle urla:
“Quali sono queste pantofole?”
“Sono quelle che mi ha regalato il giorno del mio compleanno la mia compagna di banco. Sono quelle che regala l’hotel Bedford ai suoi clienti. Guarda quanto sono belle, eleganti e nuove.”
Dato che sollevò il piede fino a mettergliele sotto il naso per una verifica, Shafi si appoggiò la fronte sul palmo della mano per riflettere ed incaniato corse a cercare forbici e coltello per triturarle in mille pezzi e poterle bruciare. Intanto aveva perso la sua calma:
“Con la faccia di mimosa ti riduco. Le dita ti faccio ingessare se non ti calmi e smetti di fare la bambina. Lo tolgo dalle strade del quartiere lo spunto del lusso dei turchi. Hai capito o no che ti affetto a mortadella e faccio mangiare il mare? Perché se non hai l’udito vuol dire che ti ci vuole un dito, dentro gli occhi te lo infilo.”
In famiglia nessuno voleva accettare che Sana era un pepe di spezie, un fuoco di paglia in sintesi. Stava a lavarsi e a strofinarsi con la speranza di poter dimagrire perdendo le cellule morte dato che le piaceva mangiare assai. Sbandierava ai quattro venti che il suo sogno era ricevere coccole movimentate in macchina.
Halima le consigliava:
“Fai come me, chiuditi in casa e nessuno ti critica. Se fai a modo tuo e a modo moderno non ti ci fanno restare in società. Secondo te perché hai tanti amici? Che cercano? Sei più ingenua di tua sorella Warda”
“Il nostro quartiere è pieno del dolore di essere immigrato, cara mamma. Questo dolore si affaccia alle finestre, è un guarda-ascolta. Questa è la pubblicità dell’Algeria. Noi giovani vogliamo solo ridere anche per la gioia di pantofole nuove. Non capisco perché me lo toglie questo piacere tuo marito”
Jaffar si sentiva preso per i fondelli:
“Ma che fai ci marci?”
Invece di rispondergli Sana si sfogava masticando gomma elastica tirandola dalla bocca per allungarla il più possibile e poi rifarne una pallina. Basma lo guardava con rigetto:
“Tu fratello, sei più liscio di una purga. Quando ci si sente intelligenti in quel momento si è cretini. Intelligenti ci si sente quando si sono dette e fatte almeno mille volte le stesse azioni. Per cui hai il cervello aggrippato”
Sana appena si sentiva difesa dalle sorelle si fortificava, rideva, si squagliava:
“Aiutatemi, aiutatemi a cercare un metro”
“ Perché’
“Voglio misurare l’intelligenza di Jaffar. Se le pantofole sono un vizio dico che chi non ha vizi non è di carne, non si vive il suo tempo come se fosse un companatico. Ah, solo il sole e la luna mi capiscono. Va bene, anche le stelle che sono le mie sorelle”
Temendo una reazione manesca prese la via di uscita e ritornò dagli amici. A qualcuno sospirò:
“Mi fanno consumare come una candela, per loro ogni niente fa uno scandalo. Non ci ho capito niente. Perché mi pensano sempre con gli occhi chiusi, mi basta di averli chiusi quando sto per addormentarmi perché mi ritrovo ad allungare il collo e le labbra per arrivare al cucchiaino che ho di fronte. Il guaio è che mi faccio male da sola secondo loro e per conseguenza nessuno piange con me. Io non mi aspetto mai la frase che mi scappa dalla bocca perché le ho dato già una paternità dato che hanno le parole misurate. Io dico quello che vuole la mia pancia. Ho colpa se sono una pancia? Vi giuro che appena trovo qualcuno che mi vuole, Shafi si può scordar la voce mia! Non lo temo, ho paura della paura di mia madre della paura di invecchiare subito e basta. Solo i maschi per lui hanno diritto alla primavera. Tanto mi sposerò prima di voi perché c’è chi guarda”
“Chi? Qualche pezzente del quartiere?”
“Avete presente quel bel giovanotto che si sofferma in questa piazza con quel macchinone che pare un portaerei?”
Se ne scappava, ritornava a casa per calzare la solita maschera di Carnevale, come faceva quando era triste e nessuno la considerava. Con quella maschera si stracangiava. Prendeva il portamento di un serpente, strusciava qua e là e chiedeva:
“Vi siete scordati oggi a dirmi che sono vanesia? Dentro la mia maschera io desidero poggiare a terra dei soldoni di carta e nascondermi per scoprire la gioia di chi li trova. Dentro la mia maschera guardo il cibo fino a saziarmi gli occhi, e poi lo ingurgito per svuotare il piatto in modo che non mi rimproverano perché finisco di mangiare la prima. Dentro la mia maschera siete sordi e muti”
Shafi si agitava, bruttimiava e Bechir cercò di equilibrare la situazione:
“Quando penso ai miei quindici anni mi torna la gioia ma quando ascolto lei chiedo ad Allah
–Perché Sana non prega? Perché si prende la luna?-.
E’ peggio di sua madre, parla a matassa, dentro di lei il tempo ammazza un altro tempo, quello silenzioso! Vive per aeriaggiarsi dato che non veste alla musulmana per colpa della scuola francese”
Shafi inveiva:
“Lascialo in pace il tuo Dio, chiediti che ci hai messo di tuo in questa situazione… Ti pare che ti risponde? Non dovremmo avere qualcosa in comune noi? Fuori dobbiamo cercare non qui dentro qualche similitudine. Quando tentiamo di risolverci basta una parola scambiata o sbagliata e c’è il finimondo”
“Uguali? Al Comune! Ma che ci dice se siamo imbastarditi? Mistura siamo di sesso, di cultura, di religione e quanto altro. Sai che prezzo pago per restare algerino? Ebbene l’ho imparato a memoria. Sono stufo, sono stanco, sono confuso in questo mestiere di padre che a sentirvi non ha mai insegnato fra questi muri. Anch’io parlo a vanvera e prego. Chi mi assicura che questo è l’ultimo dolore, l’ultimo ballo di una festa in musica che dura una vita? Qui state tutti ad uscire ed ogni volta so che di voi ne porterete un pezzo in meno. So che tornerete più estranei”
Halima capì che il momento di inviarlo a dormire era arrivato. Lei sapeva mettere a sette a sette in una fossetta:
“Ehi vuoi farmi stufare di me stessa? Calati giunco, finirà la piena. Tranquillizzati anche Sana appena si marita si aggiusta. Suo marito avrà il vero pane per la sua pancia. A quel momento non ti potrai scolpare con la natura. Ogni persona non è un monocolore e se insisti a voler trasformare un carattere Allah ti farà morire prima di me.”
Shafi all’idea di morire corse a schiaffeggiare Sana. Bechir, Leila e Basma cercavano di calmarlo. Halima si rivolse lo:
“Che siamo in televisione dove tutto è giusto? Lasciatelo libero perché ogni femmina è ingrata. Ogni pugno del padre lo scambia per un cioccolatino. Per una volta che rimproverandola le ho mollato una ditata la trasformarono in parole fra di loro la mia ditata. Mi criticavano eccome se mi criticavano”
Non passò molto tempo che Shafi riunì i figli:
“Sto ad informarvi di quel che vuole Allah. Si è presentato un partito che ne capisce e ne possiede assai. Per la bellezza, la naturalezza, l’intelligenza, la fantasia, queste sono parole loro, senza dote, senza spese per le nozze questo partito che è un Arabo vuole sposare Sana”
“Aah, finalmente me ne vado.”
“E’ un nababbo.”
“Allora non lo voglio per marito perché c’è la parola babbo in nababbo”
“Scema è un ricco sfondato”
Erano tutti emozionati soprattutto per l’ultima informazione. Sana chiese al futuro marito di vestire la famiglia Meziane con grande pompa per il giorno delle nozze e di riempirne le tasche di soldi.”
“Hai visto papà che ti faccio un regalo? Sei contento che sposo un musulmano?”
“Sei la migliore figlia e ne sono onorato e fiero. Chi l’avrebbe detto? Proprio non sembrava”
“Poiché è così ho chiesto al mio futuro sposo di comprarmi nel palazzo accanto un grandissimo appartamento, così mamma farà kirikitelli kirikitelli e insegnerà a ballare al mio primo pupotto. Lascerà il balcone spalancato ed io potrò vederla tanto felice dalla mia finestra”
Erano tanti i sogni che si realizzavano perché la coppia che si era formata elargiva cibo, soldi ai Meziane. Shafi ed Halima ebbero stanza da letto, salotto, stanza da pranzo, macchina, bicicletta. Sana non circolava più nel quartiere e tutte le sere andava a cenare dai genitori, lei non sapeva occuparsi di una casa. Il marito le aveva insegnato ad intrattenere bene il letto però. Finalmente i Meziane erano felici di sfarzo, di lusso, di viaggi persino di mettere per terrea soldoni e nascondersi aspettando la reazione del fortunato che li trovava. Ora ciò che sognava Sana dentro la maschera era divenuta la loro realtà. Sana perdurava nel suo nido d’amore come nella tana in cui il suo animale si nascondeva dopo una giornata di lavoro. Insieme a lui stava spaparacchiata sempre a letto. Una sera gli chiese:
“Quando vai dove vai, che mestiere fai per portarmi tanti soldi?”
“Sorpresa.. lo saprai il giorno in cui vado in pensione.”
“Poco importa volendo. Tanto, se tu mi guardi con amore, mi vedi con amore ed io divento amore”
Quando me la prendevo con me stessa a volte me lo dicevo davanti lo specchio.
Stava giorni interi a coltivarsi le voglie della gravidanza, stava a pascersi a letto soprattutto di dolciumi. Da otto mesi nessuno riusciva a farle capire che il parto sarebbe stato più complicato di sfilarsi un fazzoletto dalla manica vista la sua incoscienza nel persistere ad ingrassare.
Infatti si levava ogni sfizio culinario, era gioiosa perché sarebbe stato un maschio e doveva fortificarlo in pancia. Fu un lunedì verso l’una quando si apprestava ad un caffè che bussarono alla sua porta. Lei aprì portandosi come chi ha valore e non sembra. Aprì senza guardare dallo spioncino perché Halima andava a trovarla a tutte le ore dato che era dopo il settimo mese compiuto e c’era la luna a contadecima. I primi furono più colpi al ventre poi più colpi al cuore, più colpi alla testa. Morì allo stesso modo del marito che era accorso per salvarla. Il sangue dei tre invadeva il pianerottolo. Di quell’amore, di quelle tre anime, del tanto lusso restava un titolo sul giornale UN POTENTE BOSS ALGERINO FREDDATO IN PIENO GIORNO.
I Meziane ne chiedevano conto alla religione per superare il momento ed erano più infelici di prima:
“All’ultimo dolore dobbiamo arrivare. Gli occhi per sempre dobbiamo chiudere per ricevere il premio di Allah. Chissà quanti tipi di dolore ci aspettano all’insaputa.”

matrimoni musulmani

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).