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[continua dal numero precedente….]

Parenti il vecchio Augusto non ne aveva: i genitori non li aveva conosciuti; forse, pensava, non li aveva mai avuti, e lui era nato così, non si sa come, prova vivente del detto: “Il cielo l’ha buttato, la terra l’ha parato”. Ma amici e conoscenti, altro che! In paese, infatti, tutti lo chiamavano sempre per piccoli servizi, tutti gli regalavano qualcosa, e i bambini soprattutto lo facevano sentire importante, perché quando lo incontravano, lo canzonavano, è vero, per i berretti vistosi e le cravatte sgargianti che era solito indossare, ma questo voleva dire che lui non passava inosservato. Sì, tutta la gente del paese sarebbe venuta al suo funerale, e il sindaco certamente gli avrebbe fatto la “parlata”, cioè la pubblica commemorazione, così come faceva con tutti i defunti per ingraziarsi i loro parenti in vista delle elezioni.

Senz’altro avrebbe avuto anche l’accompagnamento musicale della banda: ricordava bene che, ogni qualvolta moriva un membro del corpo bandistico, tutti gli altri si sentivano in dovere di onorarlo con una ghirlanda di fiori e di accompagnarlo al camposanto suonandogli dietro un paio di marce funebri. E il vecchio Augusto, a memoria di tutti, era sempre stato il portatore della grancassa, anche lui un elemento importante del corpo.

Si domandava, però, alquanto angustiato, chi avrebbe retto la grancassa, in quell’occasione, come pure chi avrebbe suonato le campane a “gloria”. Allora si faceva l’idea che, morto lui, nessun altro ne avrebbe preso il posto, e lui sarebbe stato accompagnato al cimitero senza grancassa e senza scampanate.

Alla bara non ci pensava neppure, perché non aveva i soldi per comprarsela anzitempo, così come avevano fatto molti di quei suoi vecchi conoscenti, che l’avevano acquistata anni e anni prima della morte, quasi a scongiurarla, secondo il loro gradimento, di solida quercia scolpita, e la tenevano bell’e pronta sotto il letto come una cassapanca.

Il vecchio Augusto si era chiesto spesso se quelle persone tanto previdenti avessero acquistato la cassa per non gravare sulle spese di famiglia o perché avevano scarsa fiducia nei parenti. Ma sfiducia non doveva essere, perché parecchi sembravano addirittura presi dalla febbre del camposanto: infatti, molto prima del giorno fatale, acquistavano dal Comune, secondo le disponibilità personali, un loculo funerario o un lotto di terreno, vi facevano collocare la pietra tombale con su perfino l’iscrizione con un’effigie per lo più giovanile e la data di nascita, e lasciavano vuota quella del decesso.

Anche le tombe erano certo una gran soddisfazione. Ne aveva viste di veramente belle: veniva preso dall’invidia quando gli accadeva di osservare nel camposanto le tombe ancora vuote e tuttavia perfette come se dentro ci fossero già i defunti. Certe volte aveva adocchiato anche quello che lui avrebbe voluto fosse il suo lotto di terra, e se avesse avuto il denaro sufficiente, lo avrebbe senz’altro acquistato, vi avrebbe fatto murare una bella tomba di marmo e scolpire un monumento. Era un bel pezzo di terra in vetta alla collina del cimitero, avanti alla fila delle cappelle di famiglia, riparato dal vento e in parte dalla pioggia. Senza dubbio, così, si sarebbe presa la rivincita su tutti quelli che lo beffeggiavano perché era un poveraccio e campava di elemosine.

Ma, se avesse avuto dei soldi, si sarebbe prima di tutto fatto curare i dolori alle gambe, per salire senza troppa fatica in cima al campanile e far sentire a tutti, lui che era il re dei campanari, cos’era ancora capace di fare con le corde dei battagli fra le mani.

Pareva si adirasse pensando a tutto ciò, e qualche smorfia del suo viso non tanto esprimeva dolore quanto piuttosto un risolino di compatimento verso se stesso, e non si accorgeva neppure che il sole di quella domenica autunnale, col passar delle ore che lui aveva trascorso lì, seduto sui gradini della chiesa, immerso nei suoi pensieri, aveva perso vigore nascondendosi dietro le nuvole e l’arietta che faceva mulinello all’angolo cominciava a diventare pungente, nonostante fosse ancora pieno meriggio.

La strada, intanto, si era lentamente rianimata e le automobili andavano marciando sempre più numerose, mentre la gente, vestita a festa, cominciava a sciamare dalle case per la passeggiata pomeridiana e la visita alle bancarelle dei venditori domenicali di dolcetti, lupini ammollati, castagne infornate, semi di zucca, arachidi e ceci tostati.

 

Di fronte alla chiesa, all’altro capo della piazza, sopra un muro riservato dal Comune alle pubbliche affissioni, due forestieri stavano attaccando dei manifesti, e il vecchio Augusto, involontariamente, senza aver altro da fare, osservava i loro gesti.

I forestieri avevano parcheggiato una grossa automobile nera proprio di fronte al muro delle affissioni. Erano ancora giovani, ben calzati e ben vestiti, e con una paglietta bianca in capo, la quale spiccava nettamente sopra la tinta scura dei loro abiti. Questo della paglietta bianca era un abbigliamento che attirò subito l’attenzione del vecchio Augusto, perché, pur avendola sempre desiderata, nessuno fino a quel momento gliene aveva donato una.

Mentalmente, con quel suo risolino sulle labbra, cominciò a passare in rassegna tutti i copricapo che aveva portato in vita sua: berretti, baschi e cappelli di tutti i colori e di tutte le fogge; passamontagna, papaline, berrettini di lana, di panno, di maglia, e berretti militari con la visiera; ma più belli fra tutti, i berretti della banda comunale, uno nero per i concerti d’inverno e l’altro bianco per quelli d’estate, entrambi con i fregi dorati, con la visiera di cuoio lucido o di celluloide. Senz’altro questi due berretti erano il suo orgoglio e non uguagliavano in bellezza e splendore neanche i berretti delle guardie municipali o quelli dei carabinieri in grande uniforme. Ma una paglietta bianca, no, non l’aveva mai posseduta.

Quei forestieri con la paglietta bianca in testa, in tal modo, gli divenivano veramente simpatici, e allora cominciò a interessarsi con maggior attenzione al lavoro che i due andavano facendo con l’attaccare i manifesti sul muro.

Un po’ per dar loro una mano se ne avessero avuto bisogno, e ricavarne forse una ricompensa, un po’ per istintivo piacere d’osservare, o perché voleva sgranchirsi le membra trascinandosi fino all’altro lato della piazza, si avvicinò ai due e si mise a guardare i segni stampati su quei manifesti. Allora, per pigliare confidenza, cominciò a chiedere a che cosa facessero la “propaganda”.

«Non sapete leggere?» gli fece uno dei forestieri.

Con la franchezza naturale di chi non ha nulla da perdere il vecchio Augusto volle spiegare:

«Non so di lettere. Ma voi a cosa fate la “propaganda”? Cosa vendete?».

L’altro compagno, che forse voleva toglierselo di torno per proseguire indisturbato il suo lavoro di attacchino, dopo averlo squadrato da capo a piedi gli rispose celiando:

«Cappotti di legno».

Il vecchio Augusto non aveva capito. Stette lì alquanto incuriosito, ma senza voglia di andarsene. Si spostava qua e là con una certa irrequietezza e andava guardando ora i due, ora i manifesti.

Uno dei forestieri reggeva un pentolino con dentro il pennello e la colla di farina, l’altro srotolava i fogli per terra. Erano piccoli manifesti e non ci voleva molto a incollarli sulla parete; ma quei due sembravano prendersela comoda e davano una spalmata di colla sul muro, un’altra sulla carta, e poi lentamente attaccavano il manifesto dando un’altra passata di colla direttamente sulla stampa. Ne avevano già attaccati tre, l’uno accanto all’altro, e cominciavano a svolgerne un quarto.

Al vecchio Augusto, che non sapeva leggere, quei manifesti parevano tutti uguali, ma non si arrischiava a stabilirlo definitivamente, perché non c’era nessuna figura o disegno che potesse aiutarlo. Era davvero incuriosito e volle chiedere in quale negozio i due vendessero i “cappotti di legno”.

I due forestieri, prima si lanciarono sorridendo delle occhiate d’intesa, poi gli fornirono alcune spiegazioni e l’indirizzo del negozio. Secondo quello che il vecchio Augusto cominciava a capire, i due forestieri stavano attaccando i manifesti di una nuova impresa di pompe funebri. Su quei fogli, a loro dire, erano segnati in dettaglio i prezzi corrispondenti a ogni tipo di cassa: un prezzo per la cassa in legno di quercia o di noce, un altro per quella di castagno o di ciliegio, un altro ancora per quella di faggio o di abete, e un prezzo a parte per quella interna di zinco con la fodera di stoffa. I due, così gli pareva di capire, avevano il negozio in un paese della marina a lui ben noto per certe feste di santi patroni che non si era mai lasciato sfuggire.

Stabilendo subito una relazione con i pensieri che aveva fatto prima, al vecchio Augusto veniva da ridere come a un bambino che non bada alle cose della morte; e gli pareva strano che, mentre lui andava pensando al suo funerale col rammarico proprio delle cose impossibili, soltanto desiderabili, quei due fossero venuti quasi apposta per lui, per proporgli un buon affare.

Lì per lì non si capacitava compiutamente; ma quella coincidenza cominciò, da allora, a parergli un segno del destino: quei due, senza dubbio, non erano venuti per nessun altro che per lui.

Con quella paglietta bianca in testa erano veramente simpatici, quei due della marina: e se venivano a fare la concorrenza ai falegnami del paese, sicuramente i loro prezzi dovevano essere convenienti.

Fece passare così alcuni giorni, grattandosi il capo e arrancando su e giù in casa e fuori, indeciso se andare a vedere di persona oppure abbandonare i suoi propositi. Ma un bel mattino si preparò di tutto punto con le cose che riteneva più eleganti: indossò un completo bianco di lino, un po’ liso e alquanto strapazzato, si cacciò in testa un cappello di feltro bianco, annodò al collo della camicia, anch’essa bianca, un cravattone bianco, calzò delle scarpe di cuoio bianche, tutta roba ricevuta un po’ alla volta negli anni in beneficenza; si pose in mano i guanti bianchi della divisa estiva da musicante e uscì, rigido e impettito, dalla sua abitazione.

Era quello un abbigliamento leggero e poco adatto all’autunno avanzato; ma per lui era il più bello della cassapanca e perciò se n’era servito senza esitare. D’altra parte, anche quella mostrava d’essere una giornata di sole; e ciò reputando una fortuna, il vecchio Augusto si diresse alla stazione delle corriere per acquistare il biglietto di viaggio per il paese della marina.

I ragazzi che di buon mattino si recavano a scuola, vedendolo così lindo e bianco, schiamazzavano intorno a lui e gli gridavano: «O Augusto, sei caduto nella calce?».

Il vecchio Augusto infilava le mani nelle tasche di calzoni per non farsi portar via i guanti e ammiccava sornione con l’aria di chi vuol prendere in giro il mondo o custodisce un gran segreto. E sebbene i dolori alle gambe gli rendessero faticoso l’incedere, provava una sorta di baldanza che cominciava a rendergli piacevole l’idea del viaggio.

Quando la corriera si mise in movimento, però, fu preso improvvisamente da un’irrequietezza che gli fece pensare affrettata quella decisione. Ma tant’era ormai fatta, la corriera marciava veloce verso la marina e il vecchio Augusto si accomodò alla meglio sul suo sedile e prese a osservare, di là dai finestrini, la campagna sterminata e, in fondo, le vette azzurrine delle montagne. Gli parevano montagne di cartone, piccole a vedersi da lontano, come quelle che al cominciare della novena di Natale, l’arciprete avrebbe fatto costruire per il presepe della chiesa. Anche i contadini, che a quell’ora del giorno si recavano in campagna, gli parevano figurine di creta dipinta, disposte nei luoghi più opportuni, a far bella mostra di sé. Era proprio una bella mattinata, e il vecchio Augusto al suo funerale non sembrava pensare più.

I compagni di viaggio che conoscevano le sue abitudini, gli domandavano se quel giorno vi fosse qualche festa o qualche fiera in uno dei paesi della marina. Lui li scrutava con occhi maliziosi, non si dava per inteso o non rispondeva che a monosillabi incomprensibili, e ognuno si sforzava di capire dove mai così di buon mattino si recasse il vecchio Augusto.

Il viaggio non fu lungo. Quando la corriera giunse a quel grosso paese della marina, lui si lasciò scaricare sulla piazza principale, come gli avevano spiegato i due attacchini, e cominciò a guardarsi intorno alla ricerca dell’impresa di onoranze funebri che, in effetti, si trovava lì.

Regnava una pace suprema. La piazza si allargava come una grande terrazza verso una balaustra di ferro battuto che dava su uno scoscendimento perpendicolare alla spiaggia larga e sassosa. E da lì si apriva il mare azzurro, lievemente increspato dalle onde. Sulla battigia alcuni pescatori si affaccendavano intorno alle barche senza destare il minimo rumore, e il vecchio Augusto vedeva soltanto i loro gesti lenti e precisi. Dai balconi delle case vicine qualche donna ancora in vestaglia dava l’acqua ai vasi dei fiori e delle piantine resistenti alla temperatura della stagione; o, scesa sulla strada, spazzava l’ingresso con quell’aria né sveglia né addormentata delle prime ore della giornata.

Il vecchio Augusto non aveva fretta, ogni tanto girava il collo verso il negozio di pompe funebri a guardare se l’avessero aperto; d’altra parte, pur rimanendo fermo su una delle panchine della piazza, non sentiva freddo perché l’aria marina era più dolce che al suo paese e il sole, quel giorno, era caldo come in primavera.

Angelo Maugeri

[continua nel prossimo numero…]