Al momento stai visualizzando Almeno la musica (3)

[… continua da numeri precedenti: 1° puntata e 2° puntata]

Quel grosso paese della marina lui lo conosceva molto bene: almeno tre volte ogni anno era sempre venuto a visitarlo in occasione delle feste dei santi protettori. E ogni volta era stata una festa molto bella, perché qui i soldi li avevano e la gente non badava a spese, né per la musica, né per gli addobbi e l’illuminazione colorata delle vie, né per gli spari dei fuochi d’artificio a mezzanotte.  Qui gli spari li avevano sempre fatti da mezzo il mare su uno zatterone fatto costruire apposta dalla commissione dei festeggiamenti. Dal mare era tutta un’altra vista, un godimento unico, e si potevano distinguere e osservare con precisione tutti i colpi dal momento in cui partivano sparati in aria fino a quando i cartocci non si aprivano formando tre, quattro rose di vari colori. I cartocci più spettacolari arrivavano fino a sette aperture e facevano fiorire, esplodendo, luminosi disegni a spicchi, a raggiera, a ombrello, a cascate, a zampilli. Al termine, era una meraviglia anche la terrificante esplosione della “cassa infernale”: i ragazzi si turavano le orecchie battendo i piedi, i più piccoli strillavano piangendo, gli adulti schiamazzavano come presi dalla mosca cavallina e dappertutto si levava il concerto dei cani che abbaiavano terrorizzati. Di più si preoccupavano le donne incinte e chi aveva botti piene in cantina, perché il vino poteva diventare aceto e i bambini nascere male. E nel mezzo del frastuono, subito dopo il colpo finale, proprio come al suo paese, si levava più alta la voce del guastafeste: «Oh pagaaatevi i deeeebiti!».

Qui erano ricchi, senza dubbio, e certi lussi potevano permetterseli. Non scherzavano neanche con la musica: che bellezza di palco allestivano questi della marina, in quella piazza spaziosa, dove ora si trovava lui, spianata quasi apposta per contenere il palco e l’immensa folla degli spettatori. Un anno era venuta a suonare perfino la banda della marina militare: il vecchio Augusto era rimasto lì in prima fila, in piedi per l’intera durata del concerto, a osservare i movimenti del maestro concertatore ‒ «Un vero musicista!» aveva raccontato poi ai suoi conoscenti ‒ stando attento soprattutto ai colpi della grancassa, la sua passione.

E le campane! Qui ne avevano tre in una sola chiesa, senza contare le doppie del Convento dei Cappuccini e quelle del Santuario della Madonna. Ma era meglio non pensarci. Se fosse nato in questo paese, sicuramente sarebbe stato più felice.

Volle fare una passeggiatina dalla piazza al sagrato della chiesa parrocchiale. Giunto, si piantò a gambe larghe sul selciato, sbirciò in alto e, pur non arrivando a veder le campane, si lasciò smemorare alquanto in quel silenzio mattutino rotto appena, all’esterno, dalle parole del prete che diceva messa dentro la chiesa, e tutto invaso dal suono armonioso di antiche, lunghe, perfette scampanate che il vecchio Augusto si sentiva nascere dentro assieme a una commozione straordinaria.

Bighellonò su quella piazzetta ancora un po’, con addosso gli occhi curiosi dei fedeli che, finita la messa, uscivano dalla chiesa, e quando si accorse che il sole era già alto e la gente aveva riempito le vie, e tutto sembrava avere in giro una bell’aria festaiola, gli parve giunto il momento di raggiungere quel negozio di pompe funebri.

Era aperto e, all’interno, una delle persone che aveva incontrato al paese se ne stava seduta dietro una lunga scrivania e, riconosciutolo, gli sorrideva con un «Accomodatevi, prego!» invitante e cordiale. Il vecchio Augusto entrò nella stanza e si pose a sedere davanti a quello che a lui pareva un “funzionario” dell’impresa di onoranze funebri. Questi non aveva la paglietta bianca sul capo e sembrava più vecchio di come se lo ricordava, a causa di una brutta calvizie che spaziava su una rada corona di capelli.

Rimasto imbarazzato e intimidito dall’ambiente ordinato e pulito, arredato lussuosamente, per nulla austero come si aspettava, e dal personaggio maestosamente seduto dietro il tavolo, che attendeva senza aprir bocca, il vecchio Augusto non sapeva come cominciare e farfugliava qualche parola senza filo.

«Io, vedete, col vostro permesso, vedete, finalmente, eccomi qua, col vostro permesso, vedete…»

Poi, agitandosi e tormentandosi spesso le orecchie e la barba, finalmente prese a ordinare i pensieri e a spiegare i motivi della sua visita, i suoi desideri, e cioè come avrebbe voluto, una volta morto, essere condotto al camposanto con un funerale di lusso, di quelli mai visti prima, non trascurando naturalmente il particolare della musica («Ci voglio pure la grancassa») e delle campane da suonare a distesa e non a rintocchi («A “gloria”, altrimenti non se ne fa niente»).

Dall’altro lato del tavolo il “funzionario” sembrava osservarlo e ascoltarlo compiaciuto e colmo di bontà.

«Sicuro» gli rispose quando il vecchio Augusto finalmente stette zitto.  «Sicuro. Si può fare. Noi qui per questo siamo. La nostra è la più economica e la più importante impresa di onoranze funebri di tutta la contrada. Pratichiamo prezzi eccezionali, pensiamo a tutto noi: cassa, addobbi, fiori, musica, trasporto, spese di chiesa e cimitero, contrattazione e acquisto del terreno o del loculo, monumento sepolcrale, cappella di famiglia… A tutto, a tutto pensiamo noi… Volete la musica? Ecco la musica! Lo scampanio? Si può fare!… Ma… c’è un ma: bisogna pagare… E soldi, dico soldi, ne avete voi?»

Mentre il “funzionario” parlava, il vecchio Augusto assentiva col capo, provava un’enorme soddisfazione per essersi fatto capire, senza troppe parole, alla perfezione. Quando quello nominò i soldi (se l’aspettava, un momento o l’altro avrebbe aperto quel discorso) provò un po’ di timore, chissà che somma ci sarebbe voluta.

«Qualche cosa possiedo, ma è poco, non credo che potrà bastare» borbottò il vecchio Augusto quel tanto che l’altro capisse e consolidasse l’opinione che si era fatta dei vecchi barboni, e cioè che tengono il gruzzolo nascosto sotto il materasso e, alla loro morte, si scoprono fasci di banconote.

«E soldi… quanti ce ne vogliono, di soldi?» si arrischiò poi a chiedere con la bocca arida e il cuore al galoppo.

«Eh, prima bisogna fare un po’ di conti… Occorre scegliere la classe del funerale, decidere il legno e il modello della cassa… senza considerare che, se siete in buona salute, potete campare fino a cent’anni, e per quella data magari i prezzi saranno saliti alle stelle…»

«Certo, certo…» approvava il vecchio Augusto.

«Ecco qua, posso farvi un preventivo, scegliendo la cassa più bella e più solida, il funerale di prima classe, eccetera eccetera, e considerando una percentuale media sull’incremento annuale dei prezzi di costo… Quanti anni avete voi?»

Macché, il vecchio Augusto non lo seguiva più: quelle parole non le capiva, si sentiva un battaglio senza campana.

«Non so di lettere, né di numeri, io…»

«Non preoccupatevi, lasciate fare a me, potete fidarvi… Quanti anni avete, dunque?»

Il vecchio Augusto rapidamente tentò di calcolare la sua età; ma non vi riusciva per quanti sforzi facesse. Poteva avere settanta, ottanta anni. Non si era mai curato dell’età, neanche da giovane. Ricordava soltanto che il governo l’aveva chiamato alle armi nella prima grande guerra, ma lo aveva rimandato quasi subito a casa.

«E chi lo sa quanti anni ho! Voi non lo sapete? Neanche io! Però la mia classe fu chiamata alle armi nella grande guerra. Anche me chiamarono, allora…»

«Va bene, va bene, non ha importanza… Avete versato le marchette per la pensione?»

«Questo non ve lo so dire.»

«Ma che lavoro avete fatto? Qual è il vostro mestiere?»

Questo lo sapeva, altro che se lo sapeva. Con il petto colmo d’orgoglio e la voce ferma rispose:

«Suono le campane».

«Benissimo» rispose il “funzionario” strizzando gli occhi e guardandolo con un largo sorriso di compiacenza, e cavò di tasca una matita copiativa, strappò un foglio da un bloc-notes che era sul tavolo e cominciò a scrivere numeri in colonna, fitti fitti, minutissimi, come per gioco.

E mentre quello pareva divertirsi con i numeri, il vecchio Augusto, ecco, si mise a pensare al tempo del suo servizio militare e si distrasse in quel ricordo limpido e sereno. Se avesse avuto ancora la piastrina cucita sulla giubba, come allora! C’era scritto il suo nominativo, la data di nascita e il corpo militare di appartenenza. Sarebbe bastato mostrarla al “funzionario”.

 

Quando l’avevano chiamato a fare il soldato, era ancora un ragazzo e si reggeva bene sulle gambe. A salire sul campanile per suonare le campane non si stancava, pareva un leprotto in corsa, gli scalini li faceva a tre a tre. Anche allora gli avevano chiesto: «Che sai fare? Qual è il tuo mestiere?». E lui, pronto, orgoglioso: «So suonare le campane!». Ma gli era venuta male: una volta che con la sua compagnia si era avviato verso la prima linea a sparare al nemico dalle trincee, durante la marcia, come fu e come non fu, si smarrì e rimase solo nella campagna come una pecora senza campanaccio. Si mise in cammino alla ventura e finalmente giunse in un paese. Non c’era gente per le vie, il paese sembrava addormentato. In mezzo stava la chiesa col suo bel campanile svettante come un cipresso. C’era caldo, Augusto sedette all’ombra del campanile. Con le spalle al muro fresco, riposato che fu, dimenticò la guerra e volle montare su a vedere le campane. Vederle e suonarle fu cosa di un momento. Quando gli piacque di smettere, sentì la voce del suo capitano, sul sagrato col naso in aria, la bocca che urlava e bestemmiava: «Scendi giù, ostrega maledetta, figlio d’un cane!».

Senza saperlo né volerlo aveva dato l’allarme, la gente era scappata via col diavolo alle calcagna, la compagnia dapprima si era messa al riparo e poi, dacché lo scampanio non accennava a smorzarsi, era venuta a vedere che cosa stesse succedendo.

In seguito l’avevano sottoposto ad alcune visite mediche. Augusto diceva di essere sano, anzi di ottima salute, ma il tenente medico non aveva voluto credergli; perciò l’avevano rimandato a casa. E non avevano voluto più sapere nulla di lui nemmeno nella seconda grande guerra. Ma prima che quest’ultima scoppiasse, Augusto non era mancato, in pieno regime fascista, alle più importanti manifestazioni organizzate nel capoluogo di provincia. Una volta ci era venuto perfino il duce con tutto il seguito di gerarchi. Anche Augusto non si era lasciato sfuggire quella straordinaria occasione. La folla si era adunata fin dal mattino nella gran piazza dove il duce doveva tenere il suo discorso, e aspettava impaziente il suo arrivo, che però tardava a causa di chissà quale impedimento. Nel frattempo Augusto, stanco per la levataccia e il viaggio in corriera, fatto insieme con numerosi altri compaesani, guidati dal podestà del paese, per vedere il duce, si era addormentato bell’e disteso su un marciapiede.

A un tratto, squilli di tromba, passi concitati, scalpiccii, rumori d’ogni sorta. Ecco il duce.

«Camerata, alzatevi! Come vi permettete?» si udì la voce di un ispettore in divisa.

Augusto, mezzo addormentato e imbambolato com’era, non capiva. In quel momento avrebbe voluto essere piuttosto in cima al campanile della sua chiesa.

«Rispondo io per lui» disse il podestà.

«Rispondete voi?»

«Rispondo io!»

E così Augusto fu lasciato in pace.

Caduto il regime e finita la guerra, il podestà, che era scampato alle vendette degli antifascisti, chiacchierando al caffè con gli amici di antica fede politica, raccontava il fatto e finiva invariabilmente col dire: «Augusto deve a me se non viene oggi ricordato come un martire della violenza fascista!»

 

Intanto, il “funzionario” delle onoranze funebri aveva finito di scrivere e sommare.

«Fa tot e tot. Non è molto, vi pare? È tutto compreso nel prezzo.»

«Pure la scampanata a “gloria”?»

«Pure.»

«E la musica?»

«Pure la musica.»

«Con la grancassa?»

«Con la grancassa… È tutto compreso, state tranquillo.»

«Ma a questa somma non ci arrivo, io…»

«Ma voi… di quanto potete disporre, voi?…»

«Non so, di più, di meno… non so… devo guardare.»

«Allora facciamo così: voi portate quello di cui disponete; e il resto, un tanto al mese.»

«Al mese, quanto?»

«Ci metteremo d’accordo.»

«E se, qualche mese, non potrò pagare?»

«Non pagherete. Salta un mese, non casca il mondo.»

«E fino a quando?»

«Fin quando vorrà il Padre Eterno.»

«E se campo molto?»

«A occhio e croce, ho conteggiato anche questo. La cifra tiene conto della vostra età, o per meglio dire di quella che potrebbe essere la vostra età… E considerate che voi, come può capitare a chiunque, potreste morire anche fra un mese, Dio non voglia… magari dopo aver pagato una sola mesata. E il resto delle spese se lo deve accollare l’impresa.»

Ma un grosso dubbio affiorò improvviso alla mente del vecchio Augusto, perciò volle chiedere subito:

«Scusate, ma chi mi assicura che, morto, mi farete il funerale?».

Il “funzionario” scoppiò a ridere come a dargli fiducia:

«Chi ve lo assicura? Noi ve lo assicuriamo. Facciamo un contratto a regola d’arte: firmiamo noi, firmate voi; e poi lo mettiamo in mano a un notaio. Così vivrete in pace.».

«Giusto, giusto, così vivo in pace.»

Nel frattempo era entrato l’altro “funzionario” e si era posto alla spalle del vecchio Augusto, zitto e rispettoso dei discorsi che ascoltava. Approvava con lo sguardo le parole del compagno e, quando gli parve che il vecchio fosse convinto abbastanza, intervenne con parole persuasive:

«Facciamo così, nessuno di noi scappa, siamo qui a vostra disposizione. Voi ci pensate su e intanto noi prepariamo il contratto. Un giorno di questi ritornate da noi, portate la somma che avete, contiamo il denaro, ci mettiamo d’accordo sulle rimanenti rate, ci rechiamo dal notaio, firmiamo il contratto e…».

«Ma io, ve l’ho detto, non so di lettere… Non so firmare…»

«Una croce la saprete fare, no? Per il notaio andrà bene lo stesso.»

«La croce, sì… quella, sì, la so fare.»

«Allora firmiamo noi e firmate voi, e siamo a posto.»

Angelo Maugeri

[continua…]