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Pallido e tiepido nel cielo grigio, l’ultimo sole d’autunno scaldava il vecchio Augusto. Un’arietta non troppo sgradevole sollevava a tratti cartacce e nugoli di polvere, andando a far mulinello nell’angolo dove i muri della navata s’incontravano con l’abside della vecchia chiesa parrocchiale di cui il vecchio Augusto era campanaro.

La messa di mezzodì era da poco terminata e il vecchio Augusto non aveva saputo trovar di meglio che sedere un po’ discosto dal mulinello sulla pietra fredda dei gradini della scalinata che correva tutt’intorno alla chiesa. A quell’ora della domenica la gente del paese, conclusa la funzione religiosa, stava seduta a tavola con la forchetta in mano e solo qualche ritardatario indugiava ancora per la strada, la quale si era fatta silenziosa e tranquilla perché il traffico si era ormai allentato e molte automobili erano state parcheggiate, ai bordi, come cavalcature alla biada.

Per non patire il freddo della pietra, il vecchio Augusto sistemò sotto il sedere alcuni fogli vecchi di giornale, poi cavò da un cartoccio il po’ di roba da mangiare che gli aveva regalato la moglie dell’oste, e cominciò a masticare lentamente quasi a voler durare il più a lungo quel suo desinare all’aperto.

Per la moglie dell’oste il vecchio Augusto era solito andare a prendere l’acqua a una fontanella pubblica, tre, quattro volte al giorno, con le brocche di terracotta, enormi e pesanti. Le dava anche una mano a risciacquare i bicchieri, le pinte e le mezze pinte, e portava a domicilio le commissioni del vino. In cambio riceveva qualche lira, un po’ di pane e companatico e, nelle feste più grandi, perfino un fiasco di vino.

Questi umili servizi, che il vecchio Augusto prestava non solo alla moglie dell’oste e che non si limitavano all’andare ad acqua, erano tuttavia ben poca cosa in confronto alla sua vera “professione” di campanaro della parrocchia. Tranne il piccolo compenso che gli dava regolarmente l’arciprete, non aveva altri guadagni certi, ma lui non se ne curava. Quando, infatti, montava sul campanile per suonare le campane, gli pareva d’esser trasportato lontano lontano in un mondo sublime, fatto di squilli, rintocchi e scampanate celesti. La gioia e la pienezza di spirito che provava lo rendevano a tal punto instancabile che spesso l’arciprete, tra uno scampanio e l’altro, doveva gridargli, dal basso della lunga scala a chiocciola, di venir giù, perché tanto, per quella volta, aveva suonato abbastanza.

Nei lunghi anni della sua “professione” di campanaro aveva acquistato una pratica particolare nel fondere i suoni delle due sole campane, la maggiore e la minore, di cui era dotata la chiesa, tanto che riusciva a cavarne dei concerti come se le campane fossero cento, mille. A guardarlo era uno spettacolo. Quei pochi che talvolta erano saliti con lui fino all’angusto spazio della cella campanaria e l’avevano veduto all’opera, ridiscesi storditi e confusi descrivevano o cercavano d’imitare i gesti di Augusto, senza però essere riusciti a carpire i segreti dell’arte sua. Augusto, narravano, abbrancava le corde quasi con rabbia, apriva le braccia bilanciando i batacchi nel cavo delle campane, spalancava le gambe inarcando le ginocchia e poi attaccava. Si dondolava con armonia atletica puntando i piedi sul pavimento, armonizzava i suoni incrociando a un ritmo variato le braccia che accompagnavano dolcemente, senza fatica, i pesanti battagli. E pian piano si confondeva in una con le campane, come se progressivamente ne diventasse parte integrante. In quel suo modo di bilanciare il corpo e i battagli c’era qualcosa d’etereo, come i suoni che ne nascevano, belli e maestosi, a distesa, a “gloria”, a doppio o a rintocchi, secondo le necessità.

I suoi scampanii si sentivano da lontano per chilometri e tutti i campanari dei paesi vicini gli invidiavano l’arte e la perizia con cui faceva dondolare i battagli. Fra di loro il vecchio Augusto era nominato e sentito, e faceva da maestro. Non c’erano feste di santi patroni, nei paesi vicini, senza che lui non si facesse vedere sul sagrato all’ora delle scampanate maggiori, per approvare o disapprovare a seconda di come le campane venivano suonate.

Suonare le campane, però, non era più cosa di tutti i giorni. Fino a non molti anni prima aveva provato quel piacere spesse volte durante il giorno e durante tutta una settimana. Ma un po’ alla volta le occasioni erano andate scemando, dacché il vescovo aveva disposto, per tutta la diocesi, la riduzione degli scampanii: niente più concerti a mezzodì dei giorni feriali, niente all’avemaria, niente alla vigilia delle feste. Solo rapide scampanate per richiamare i fedeli alle maggiori funzioni religiose nei giorni di festa. E l’arciprete, dal canto suo, aveva contribuito a questa diminuzione facendo impiantare degli altoparlanti in cima al campanile: invece del suono delle campane faceva piovere dall’alto, attraverso quella diavoleria, musica organistica e canti gregoriani, tanto da cancellare, quasi, dalla memoria dei fedeli i meravigliosi concerti di campane di un tempo.

A vendicarsi degli altoparlanti il vecchio campanaro Augusto non ci pensava neanche, poiché aveva il cuore buono e non avrebbe mai guastato nulla a nessuno, e così preferiva ingollare assieme al pane quella sua tristezza profonda.

Ma, a considerare meglio le cose, forse era stata una fortuna che le scampanate fossero state ridotte di numero, perché ogni volta che, negli ultimi mesi, era salito in cima al campanile, il fiato era cominciato a mancargli e spesso, tra una pausa e l’altra degli scampanii, si era sentito scivolare inerti le braccia lungo i fianchi e a stento era riuscito a tendere i battagli.

Tutto questo il vecchio Augusto andava pensando, mentre si lasciava accarezzare la barba da quell’arietta che faceva mulinello poco discosto e mentre mangiucchiava quel po’ di roba del cartoccio. Spesso nelle ore del suo desinare sui gradini della chiesa, amava ripetere a mente e passare in rassegna il numero e la maniera dei rintocchi da adoperare quando le campane venivano suonate a morto: per le donne, sposate o vedove, erano due di campana minore e due di campana maggiore, con intervalli di assoluto silenzio; per gli uomini, fossero scapoli o ammogliati, non si faceva differenza: tre colpi per campana, anch’essi pausati. Se si trattava di bambini, invece, era come una festa: bisognava suonare a “gloria”, come la notte di Natale o di Pasqua, perché tutti i bambini muoiono innocenti e vanno dritti in paradiso, tant’era vero che li riponevano dentro bare rivestite di raso bianco e ricoperte di fiori tutti bianchi. Quando morivano le ragazze non ancora sposate, i rintocchi erano uguali a quelli delle altre donne, ma la bara e i fiori restavano bianchi, perché erano considerate vergini anche se ne avevano fatte di cotte e di crude.

Seguitando così il filo segreto dei suoi pensieri, da molto tempo aveva stabilito che alla sua morte qualcuno avrebbe dovuto suonare le campane non a mortorio, ma a “gloria”, come si faceva per gli innocenti. E questo pensava perché la vita che aveva condotto su questa terra era stata piena di tribolazioni sopportate con pazienza e che tra lui e un bambino tanta differenza non doveva esserci, se anche lui la gente trattava come un bambino. E, d’altra parte, sarebbe morto innocente, perché non si era ammogliato né sapeva ancora, pur essendo vecchio, come fosse fatta una donna. A maggior ragione, perciò, le campane dovevano suonargliele a “gloria”.

La gente del paese lo aveva sempre trattato come un bambino, pensava il vecchio Augusto, perché lui, in vita sua, aveva sempre preferito la compagnia dei ragazzetti e schivato le persone adulte, che spesso gli facevano scherzi crudeli solamente perché lui non aveva avuto mai di che comprarsi da sé un vestito, un cappotto, un paio di scarpe nuove, ed era vissuto sempre d’elemosina.

I ragazzi, invece, pur dandogli bonariamente la baia, lo tenevano in mezzo come un trastullo, giocavano con lui, ogni tanto gli davano degli spintoni, ma senza cattiveria; e lui li lasciava fare, anzi si divertiva un mondo e cercava di accaparrarsi le loro simpatie imitando i versi degli animali, come i cavalli e gli asini, ma soprattutto degli uccelli. Sapeva fare a perfezione le boccacce e si storceva la bocca e le labbra, il naso e le orecchie, stralunando gli occhi e facendo andar su e giù la lingua dal naso al mento come una mucca. Faceva pure un mucchio di altri giochi per mezzo di una semplice cordicella fatta passare, in decine di figure diverse, attraverso tutt’e dieci le dita delle mani.

Gli adulti queste cose non le capivano, però si servivano di lui quando c’era bisogno; e questo gli recava un po’ di consolazione e lo faceva sentire meno triste e meno disprezzato.

Talvolta aveva pensato di addestrare qualcuno a suonare le campane come lui; ma, dei ragazzi, nessuno voleva saperne e, se salivano sul campanile, era per far baldoria. Degli adulti, inoltre, per via dell’impianto di quei maledetti altoparlanti, nessuno pensava più di abbracciare la “professione” di campanaro. C’era, veramente, il sagrestano, ma costui era buono soltanto a speculare sulla vendita delle candele per i santi in cappella e non aveva mai dato prova di saperci fare: quando lo sostituiva nel suonare le campane, si limitava a qualche rintocchino insignificante, come se avesse dovuto provare la consistenza delle corde o mungere le capre. Quanto diverso si sentiva il vecchio Augusto. Lui, la musica, l’aveva nell’anima. Un concerto di campane, per lui, era di gran lunga più bello che qualunque altro concerto, fosse pure tenuto dalla banda comunale sul palco della piazza maggiore. Non è che il vecchio Augusto disprezzasse quella musica, tutt’altro; ma le campane innanzi tutto.

 

Per la verità, tre cose mandavano in visibilio il vecchio Augusto, e gli davano le vertigini: le campane, come s’è detto, poi la banda comunale, infine i fuochi d’artificio.

Del complesso bandistico del Comune lui faceva parte con l’incarico di reggitore della grancassa allorché i musicanti, in divisa e col berretto gallonato in capo, accompagnavano la commissione dei festeggiamenti nel giro del paese a raccattare denari, in fila per sei, come una fanfara militare, col maestro in testa e un nugolo di ragazzini alle calcagna; oppure durante la processione del santo protettore col corteo dei fedeli che si perdeva a vista d’occhio. Durante la marcia, il vecchio Augusto reggeva l’ingombrante strumento con delle cinghie legate alle spalle e, nei momenti supremi, le vibrazioni che il battitore suscitava percuotendo col mazzuolo imbottito la pelle della grancassa, gli procuravano un forte senso di euforia, al punto che, se non avesse dovuto marciare in ordine con gli altri, si sarebbe messo a saltare e a ballare da solo. I colpi gravi e profondi che la grancassa sprigionava alle sue spalle si propagavano fin dentro le sue viscere, regalandogli attimi d’intensa beatitudine.

Nei giorni della festa il vecchio Augusto trovava l’ultimo motivo di piacere quando poteva affaccendarsi attorno agli artificieri che, sopra la collina più alta del paese, preparavano i fuochi di mezzanotte. Li aiutava a interrare i cannoncini, i mortai e i mortaretti e ad approntare la batteria dei cartocci di polvere pirica. E con quest’ultima soddisfazione aspettava gli spari per chiudere in bellezza i festeggiamenti del patrono.

Ecco, come per un destino supremo, le feste sembravano fatte apposta per lui: le lunghe scampanate, le marce della banda comunale, i giochi pirotecnici a mezzanotte lo rendevano completamente felice come nessun’altra cosa al mondo.

 

Ma quella d’oggi era una domenica come tante, senza particolari festeggiamenti. Tranne lo scampanio di mezzodì, nient’altro avrebbe reso felice il vecchio Augusto fino a sera, quando avrebbe potuto suonare, ancora una volta, le campane per la messa vespertina.

Quell’ultimo sole d’autunno era una manna del cielo e lui, perciò, se lo godeva a più non posso, lasciandosi crogiolare lì su quei gradini perché, appena fosse entrato l’inverno, avrebbe dovuto passare la maggior parte delle giornate tappato in casa.

Veramente, la sua non era una casa come quella degli altri: consisteva tutta in una vecchia stanza umida, buia e piena di scrostature, nella quale aveva collocato un pagliericcio, una sedia e una cassapanca. Dentro, vi teneva tutta la sua roba, e cioè qualche vecchio capo di biancheria e i vari abiti che gli regalavano quando moriva il proprietario, ma soprattutto una serie sterminata di cravatte, berretti e cappelli cui era affezionato moltissimo e che indossava dandosi arie di elegantone. Altro non aveva; ma a lui non importava proprio nulla, perché in casa rimaneva il tempo strettamente necessario durante le brutte stagioni, mentre le altre volte gli bastava la gradinata della chiesa o qualche altro posto occasionale.

Sui gradini della chiesa non era soltanto il vecchio Augusto a star seduto per prendere il sole. Vi venivano anche diversi altri anziani, appoggiandosi al bastone e avvolgendosi dentro enormi tabarri di lana. Se non era nuvoloso o piovoso, si radunavano lì a metà mattina, quando il sole era un po’ più caldo, e l’ultimo arrivato chiedeva con la vocetta chioccia dei vecchi:

«Ragazzi, ce n’è rimasto anche per me?».

Si fermavano qualche ora, chiacchierando e ricordando i tempi andati, sputacchiando catarro e fumando la pipa o il mezzo toscano; poi si levavano, andavano a sgranchirsi le gambe, ritornavano a gruppetti di tre, quattro per volta, finché non giungeva l’ora di pranzo. Gli anziani erano, accanto ai bambini, le poche persone da cui il vecchio Augusto si sentiva veramente benvoluto. Quando si trovava nel gruppo, qualcuno gli riconosceva i meriti dell’arte, gli batteva affettuosamente la mano sulla spalla, gli regalava un sigaro e gli diceva:

«Beato te che non hai pensieri!».

Che non avesse pensieri, però, non era vero, anzi uno gli possedeva per intero la testa.

Ogni inverno nessuno veniva più a sedersi sui gradini della chiesa. E alla primavera successiva qualcuno di quei vecchi non rispondeva all’appello perché non aveva resistito al freddo della tramontana. Il vecchio Augusto sapeva bene chi era andato al camposanto, perché gli aveva suonato il mortorio e perché ne aveva ereditato qualche indumento. E allora cominciava a pensare con più tristezza al giorno della propria morte e al fatto che nessuno avrebbe suonato bene le campane per lui a “gloria”, come desiderava.

Si era fatto davvero vecchio se provava tanto piacere a starsene al sole per riscaldare quelle sue gambe ormai tutte un dolore. Continuando così, sarebbe venuto il giorno in cui non avrebbe più potuto montare la scaletta a chiocciola del campanile, né insegnare a qualcuno la bell’arte di suonare le campane.

Così ragionando dentro di sé, lasciava di tanto in tanto scivolare lo sguardo lungo la via più importante del paese che aveva il suo punto più bello proprio lì, nella piazza davanti alla chiesa, e andava ricordando i bei funerali fatti ai defunti dell’ultima invernata. Tutti i cortei funebri si snodavano a cominciare da quella piazza, e prima di giungere al camposanto dovevano attraversare l’intero paese, bloccando il traffico su tutta la via principale.

Oltre ai rintocchi, dei funerali lui amava la funzione in chiesa celebrata dall’arciprete vestito con paramenti neri bordati d’oro, poi la bella cassa di legno lucido e scolpito, le numerose ghirlande di fiori e la processione dei bambini dati in prestito, a un prezzo prestabilito, dalle suore dell’orfanotrofio. La soddisfazione della morte era certo tutta lì: la doppia fila degli orfanelli in mantella azzurra che aprivano il corteo; il seguito delle corone e dei cuscini di fiori sorretti dai parenti più giovani; poi il chierico con la croce inastata; appresso l’arciprete con due chierichetti allato; subito dopo, la cassa trasportata a spalla; dietro, i parenti affranti e piangenti, vestiti di nero; infine gli amici e conoscenti, la faccia triste e il pensiero alla vita del defunto. Se poi interveniva pure la banda comunale per accompagnare il morto a suon di marce funebri, allora il funerale diventava un capolavoro.

(Continua nel numero di maggio…)

Angelo Maugeri