Gent.le redazione, Vi scrivo su consiglio di una mia amica Vostra lettrice. Ho 42 anni e sono un infermiere, in prima linea in un reparto Covid-19. So che non dovrei dirlo perché la priorità è la salute dei pazienti, la tragedia di quelli che non ce la fanno o stanno lottando, ma sono stanco. Ha fatto ormai breccia la storia dei medici-supereroi ed è una narrazione che in certi momenti ci conforta pure, ma non è vera. Siamo umani e (al di là dei sempre presenti casi di malasanità) molti di noi sono al limite della propria resistenza psicofisica. Dall’attimo in cui metto piede nel mio reparto e indosso il mio “equipaggiamento” (peraltro inadeguato): niente acqua né cibo, niente bagno; lavoro il doppio delle ore che mi toccherebbero; ho paura di essere contagiato, ho paura di contagiare; vedo gente morire tutti i giorni. Quando esco e torno a casa i vicini mi fissano terrorizzati e a volte evitano persino il mio sguardo (!), io stesso sono terrorizzato all’idea di entrare in casa mia e avere contatti con mia moglie e mio figlio. Certi giorni, per timore di nuocere loro, li evito. Non li abbraccio da marzo. Un caro amico è morto. Dormo male, di un sonno interrotto e agitato. Vorrei tanto una tregua, un momento per me stesso in cui poter non pensare al mondo, e mi sento in colpa per le volte che vorrei mandare tutti al diavolo. A volte sono irascibile e me ne vergogno. Temo di avere il burnout, come dice mia moglie. L.D. (infermiere)
Signor L.D., la ringrazio per aver scritto e colgo il pretesto per porgerle un pensiero di solidarietà da parte di tutta la redazione. La retorica degli eroi può essere tale per alcuni e non per altri e in fasi di grande incertezza è amplificata la gratitudine per chi agisce con mano ferma, ma non possiamo negare la base solida dell’ammirazione per l’incredibile lavoro che gli operatori sanitari si stanno trovando a fronteggiare.
La sua è la testimonianza di una categoria professionale che si unisce al coro, in una rete virtuale che può contribuire a non renderci soli. Purtroppo, mentre siamo tutti pronti a intervenire dinnanzi alla salute del corpo, passa ancora in secondo piano quella della mente. Proprio la sua ammissione di “umanità” può condurla a una legittimazione della stanchezza. È una guerra inutile quella tra chi soffre sempre più dell’altro. Pensare a chi sta peggio può portarci sollievo (meccanismo del confronto vantaggioso) ma non vieta a un mal di denti di esprimersi in un lamento né gli toglie dignità. Il coronavirus non cancella improvvisamente tutti i mali del mondo per assumersi il monopolio del dolore. Lei ha avuto un lutto che probabilmente non sta avendo il tempo di elaborare, tutti i giorni a contatto con la morte. In questi casi ci si fabbrica una corazza, ma lo si fa nel tempo e servono continui aggiornamenti quando entriamo in contatto con situazioni nuove. La sua irascibilità va accolta e trasformata.
Può provare a stabilire un orario (quando non è di turno) a partire dal quale praticare attività rilassanti: lo stretching, una lettura leggera, una partita a carte, due chiacchiere davanti a una camomilla, l’ascolto di meditazioni guidate e di musica, esercizi di respirazione per allentare la pressione, un diario dove appuntare i pensieri. Certo questo non può sostituire il calore di una relazione significativa, come quella con la sua famiglia. Potete provare ad accordarvi su modalità alternative con cui esprimere tutti i giorni il vostro affetto, dal momento che non potete toccarvi (un gesto, una parola). Giocate.
I suoi vicini pian piano ci auguriamo capiranno di essersi lasciati travolgere da una psicosi collettiva. Purtroppo non è il solo a essersi beccato di questi tempi lo stigma sociale dell’untore. La casa, che prima era un santuario, un nido, sta diventando per molti prigione e campo minato. Vanno recuperati i confini tra privato e pubblico, già da tempo in crisi. Vanno recuperati ritagli di tempo per la cura di sé, per il sorriso, e la presenza di bambini può essere una motivazione a creare da sé ciò che si vorrebbe trovare intorno.
Lo stress è il risultato di un rapporto dinamico di scambio tra individuo e ambiente e il burnout può essere una sua deriva. Esiste anche la “condizione traumatica del soccorritore” che va al di là dello stress lavoro-correlato ed è tipico delle professioni di aiuto.
Ci è chiesto di adattarci velocemente alle condizioni circostanti a fronte spesso di poche risorse. La velocità con cui gli interventi si stanno susseguendo non ha dato il tempo di pianificare protocolli di addestramento adeguati al di là dalle precauzioni anti-contaminazione. Quanto ai ritmi, ai turni, al clima relazionale, in ogni realtà dovrebbe essere stabilita un’organizzazione interna all’equipe quanto più possibile compatibile con i diritti del lavoratore, anche in condizioni di emergenza. In ogni caso, la comunicazione interna tra colleghi e tra i diversi livelli gerarchici si rivela di fondamentale importanza. Auspicabili gli incontri formativi e i gruppi di confronto sul tema della gestione dello stress e sullo sviluppo dell’autoefficacia personale e di gruppo. Stanno già mettendo a disposizione un servizio di sostegno psicologico rivolto alla sua categoria professionale. Potrebbe essere un’occasione per ridarsi lo slancio e non mollare, rinnovando le proprie risorse interne. La sua famiglia le è accanto. Nell’attesa (e con l’augurio) che possa spesso riavere i suoi meritati abbracci.
Giulia Sottile, psicologa