Al momento stai visualizzando Comune di Parigi: 150 anni fa il massacro di un popolo in rivolta

Non solo la Francia: tutta l’Europa l’ha temuta; ne ha temuto il “contagio”. Per Bismarck, stando alle parole che Brecht gli fa dire nell’opera I giorni della Comune, quella bandiera rossa che sventola dall’Hotel de Ville, il municipio di Parigi, era un maledetto esempio e bisognava “estirparla come Sodoma e Gomorra con la pece e lo zolfo”. Il potere costituito del continente, monarchico e conservatore, la cosiddetta Lega dei Tre Imperi, vi scatenò contro i propri giornali: una propaganda aggressiva e mistificatrice che dipingeva i comunardi come folli assassini, disseminatori di lutti, abolitori della proprietà privata, criminali d’ogni risma, senza timore di Dio e amore di patria, dediti al vizio e alla più sfrenata perversione.

Thiers, capo del governo francese, disse che il “brigantaggio antisociale” si era impadronito di Parigi. Anche il giornale milanese Perseveranza partecipa a questa campagna di delegittimazione e di odio contro i rivoltosi parigini. Che in realtà miravano in quei due mesi di conquista della città, dal 18 marzo al 22 maggio del 1871, a un governo rivoluzionario e socialista, e a realizzare riforme democratiche: unificazione dell’esecutivo e del legislativo, socializzazione delle fabbriche, elettività delle cariche burocratiche, organizzazione dello stato in una federazione di liberi comuni, abolizione della coscrizione e delle spese per i culti, una scuola obbligatoria, gratuita e laica, una giustizia sotto il controllo popolare.

Nata come insurrezione patriottica per difendere una nazione assediata dall’esercito prussiano dopo la sconfitta della Francia a Sedan nel 1870 e la conseguente caduta del Secondo Impero, la ribellione popolare aveva assunto nei mesi successivi un carattere spiccatamente rivoluzionario. La presenza degli operai (che lottavano accanto alla piccola borghesia, al proletariato, ai diseredati d’ogni natura: tutti provati dalla guerra, dalla fame e dalle dure imposizioni dei vincitori), degli operai come motore della rivolta e della prima moderna espressione di lotta di classe, questa presenza infiammò il nascente movimento socialista della seconda metà dell’Ottocento.

Marx analizzò la Comune con grande interesse e sempre più certo che l’aspirazione delle masse a una società senza classi sociali non fosse pura utopia. L’anarchico Bakunin la esaltò per il suo carattere libertario e per la sua organizzazione di governo autogestito. Mazzini invece vi si oppose, perché vedeva nella Comune la negazione dell’idea di nazione. Il poeta Eugène Pottier scrisse L’Internazionale, inno dei lavoratori: “In piedi, dannati della terra,/In piedi, forzati della fame!/… Non siamo niente, saremo tutto!/… Uniamoci, e domani/L’Internazionale sarà il genere umano”.

Stanco e malato, prigioniero dei prussiani in un castello nei pressi di Kassel, Napoleone III meditava intanto sul proprio disonore. “Perché non si è ucciso? Un imperatore non si arrende” – aveva gridato l’imperatrice Eugenia, quando le portarono la notizia della resa del marito al cancelliere Bismarck e al generale von Moltke. Ma poco dopo, lo raggiunse. Finita la guerra, furono rilasciati e andarono in esilio a Londra. Le condizioni di salute dell’ex imperatore, di lì a un anno, peggiorarono e morì dopo un’operazione chirurgica. Al re Guglielmo di Prussia, che era andato a fargli visita durante la prigionia, disse di non averla voluto lui quella guerra disastrosa, ma di esservi stato costretto dalle pressioni dell’opinione pubblica francese, che si era sentita umiliata dal comportamento dei tedeschi.

In realtà era una guerra evitabile. Il cui vero pretesto non fu certamente la mancata assegnazione della corona di Spagna al cugino di re Guglielmo, che aveva incontrato l’opposizione della Francia, ma il disegno bismarckiano di unire la nazione tedesca, preludio a una sua ascesa militare nel continente. Rassicurato dai suoi ufficiali sulla forza e l’efficienza dell’esercito francese, Napoleone III stesso ne aveva assunto il comando. Ma era vecchio per un compito così importante e una profonda malinconia lo pervadeva. A Sedan, nella battaglia definitiva, non impartì alcun ordine, come testimonia il medico che lo seguiva. E tanto da fargli dire: “Se quest’uomo non è venuto qui per uccidere se stesso, non so cosa sia venuto a fare”.

Sebbene il referendum costituzionale del 1870 avesse riconosciuto il suo diritto all’abdicazione in favore del figlio, di fatto la continuazione dell’impero, avvertiva un certo malcontento popolare e che qualcosa sul piano politico stesse per cambiare. Aveva avviato un programma di riforme, e i risultati elettorali dell’ultimo decennio erano stati a suo favore, ma il bilancio dello stato era in deficit, la Chiesa gli era ostile per il suo sostegno all’indipendenza italiana, e a Parigi, già dalle elezioni del 1863, i repubblicani rappresentavano la maggioranza assoluta. Napoleone III fu l’ultimo sovrano. Dopo la sua caduta, la Francia sarà sempre uno stato repubblicano.

Il 18 marzo del 1871, dopo altre insurrezioni represse dal governo conservatore, la Parigi delle barricate erette dai rivoltosi, la città territorialmente divisa per strati sociali, porta a termine il suo “assalto al cielo”, le periferie emarginate conquistano il centro politico. Il governo francese, dopo aver firmato un inglorioso armistizio con la Prussia, si trasferisce a Versailles per preparare la controffensiva alla Comune parigina, ufficialmente proclamata il 27 marzo con il voto della maggioranza del popolo. Un esperimento di governo democratico ed autogestito che dura sino alla “settimana di sangue”del 22-28 maggio.

Ciò che la distinse dalle rivoluzioni del 1789 e del 1848 fu l’attenzione preminente per le riforme sociali rispetto a quelle politiche. Ma il potere della Comune era troppo diviso in commissioni e comitati, e soprattutto dal duopolio politico composto dal consiglio della Comune e dal comitato della Guardia nazionale. E questo influì sulla necessaria celerità delle decisioni da prendere in quel cruciale momento. Così andò incontro a una repressione spietata da parte del governo di Versailles che poté avvalersi dell’apporto dei militari dell’esercito francese nel frattempo liberati da Bismarck. E le vittime delle fucilazioni, dopo processi sommari, superarono i caduti durante i combattimenti sulle barricate.

Un simile massacro, con il plauso degli altri stati europei, il massacro di quella che sprezzantemente veniva chiamata canaglia democratica ispirata dall’Internazionale, per nulla paragonabile alle violenze dei comunardi, che si mostrarono in quell’occasione più rispettosi del diritto e della legge, non si era mai visto nella storia francese. Venne “giustificato” (si fa per dire) in nome del ripristino della “civiltà”. Dopo settantotto giorni la bandiera rossa fu “estirpata” dall’Hotel de Ville (come voleva Bismarck), lo spettro della rivoluzione eliminato; e l’Europa conservatrice, insensibile alle violenze perpetrate sui rivoltosi di Parigi, poté tirare un sospiro di sollievo.

Gaetano Cellura