“Ci son delle ore in cui vorrei piangere, in cui vorrei stringere le mani a tutti quelli che mi son vicini,
in cui non potrei proferire una sola parola, mentre in testa mi si affollano mille pensieri…”
(Storia di una capinera, Giovanni Verga)
Oggi, verso le 18.30, ho fatto una scarpinata – se tale si può definire – in balcone. Osservando fuori, ho notato diverse cose: c’era una madre a passeggio con il proprio figlio, camminavano sul lato del marciapiede adiacente alla scivola del cancello del mio garage; sul versante opposto un’altra donna, con un cappotto color cipria, parlava al telefono. Da sinistra non arrivava nessuna vettura, da destra sopraggiungeva invece una moto con a bordo un uomo abbastanza alto, indossava un casco grigio, come il suo destriero rombante. E’ probabile che difficilmente mi possa scordare di queste immagini, ma non solo perché ci sto scrivendo su, c’è dell’altro. Sono chiuso in casa dal 9 marzo. Sono uscito pochissime volte, quasi tutte per andare presso l’edicola sotto casa per acquistare le figurine dei calciatori. Anche questa del resto è una passione che merita di essere coltivata. L’edicolante ha la bocca coperta ed indossa dei guanti in lattice, ha cura di contare le bustine per non darmene qualcuna in più o qualcuna in meno. Al di fuori di quest’azione, la mia vita si concentra tra la mia stanza, il bagno e la cucina.
Come si fa a raccontare la monotonia senza scadere nella monotonia stessa? L’inesorabile scorrere del tempo trascorso, chiusi in casa, ad aspettare che tutto sia finito – o comunque che stia migliorando –, è semplicemente alienante. Le giornate passano, trascinate per inerzia dall’alternarsi del sole e della luna. A volte piove, altre soffia solo un forte vento. Ogni tanto un elicottero o qualche ambulanza dilaniano il silenzio della strada.
La televisione ci consiglia di scaglionare le nostre giornate ad orari, a cui è corrisposto lo svolgimento di un’attività di qualsiasi natura. Tanti si sono riscoperti atleti, allenandosi in casa, filmandosi e lanciandosi sfide. Altri si sono reinventati chef, sperimentando diversi tipi di ricette. C’è chi passa le proprie giornate attendendo semplicemente di fare una fila che, fino a qualche settimana fa, detestava: al supermercato o in farmacia, è uguale. Tutti in fila, mascherina e guanti, ad attendere il proprio turno. Si entra pochi alle volte, ma tanti sono i furbi che tornano a più riprese per svuotare gli scaffali, accumulando scorte in eccesso che verranno così inevitabilmente a mancare alle tavole altrui. La fame si fa sentire mediante i servizi al telegiornale, l’epidemia ha inevitabilmente contagiato anche i canali d’informazioni.
Di sabato si legge su vari social network che diverse famiglie si cimentano nella preparazione della pizza: pane in pasta, salsa di pomodoro, mozzarella, un filo d’olio e qualche condimento come prosciutto, olive nere e uova sode. Gli stessi social sono la nostra seconda finestra sul mondo. E’ innegabile come questi nuovi mondi abbiano aumentato in maniera esponenziale le connessioni tra le persone che, adesso, seppur lontane, possono in qualche modo essere vicine. Non potrò di certo abbracciare la persona che amo, ma posso comunque guardarla da uno schermo e dirle che non vedo l’ora di poterla baciare nuovamente. Questo è uno dei pochi casi dove il proverbio “chi si accontenta gode” trova accoglienza nel mio pensiero. Eppure, gli stessi social hanno dato luogo ad una catena di odio fuori dal comune.
Scorrendo con il mouse quando sono connesso da computer o con il dito quando lo sono da smartphone, trovo spesso un’accozzaglia di critiche basate solamente su luoghi comuni e parole dispregiative. E’ il funerale della logica del dialogo. Dal basso e dall’alto, elettori e politicanti di turno vomitano odio contro un governo che si è trovato a fronteggiare una crisi senza precedenti. Mi chiedo cos’abbia pensato il premier Conte prima d’andare in diretta il 9 marzo per chiudere l’Italia, il suo Paese. Mi chiedo se qualcuno di noi abbia mai davvero creduto, per un solo istante, che il 3 aprile sarebbe potuto finire tutto. Io l’ho fatto, non me ne vergogno. Adesso si parla della prima settimana di maggio. Un’angoscia lancinante mi avvolge il cuore. Sento una pressione sullo sterno e mentre mi isolo dalla mia stanza con solo due cuffie e “Creuza de ma” in sottofondo. Continuo a guardare fuori. Delle misure così restrittive sono necessarie per combattere una epidemia simile. Tuttavia, in queste, non riesco a non vedere anche una presenza di sfiducia nei confronti della coscienza civile dei nostri concittadini e compatrioti. L’Italia muore nelle uscite in barba al decreto, nelle persone che se ne fregano di quanto prescritto in compressione dei nostri diritti costituzionalmente tutelati, nelle immagini dei camion che da Bergamo trasportano i corpi di persone morte, senza nemmeno poter dire una qualsivoglia ultima parola ai loro cari.
Probabilmente il fenomeno dell’isolamento imposto, a causa del dilagarsi del COVID-19 e al fine di contenerne la propagazione, l’ho avvertito a tutti gli effetti solo in questi ultimi giorni, quando non ho più avuto diverse ore impegnate dal senso di colpa o dallo studio. Del resto, avevo un esame da recuperare, rinviato in forza di quanto disposto del governo, oltre ad un secondo, da fare la settimana successiva. Una lezione qui, una videochiamata per ripetere là e si giungeva alla sera, dove mi bastava vedere un film e sentire Chiara per dormire serenamente. Certo, non si poteva andare a studiare in dipartimento, ma la vita non era così difforme dalla consueta routine delle ultime settimane.
Quest’ isolamento è una guerra di logoramento psicologico, perché più piccolo è il luogo di quarantena, più facili saranno le crisi. Tanti non capiscono che l’apparente tranquillità è semplicemente una risposta all’ansia esterna, al nervoso di chi ti circonda. Tanti non capiscono che ci deve esser comunque qualcuno che almeno faccia finta di non cedere, perché altrimenti è finita. Non è una gara a chi si spaventa di più o a chi terrorizza meglio. Eppure, la televisione ha avvertito la necessità di mandare in onda a più ripresa una pubblicità contro le fake news. E’ più facile credere ad una nota audio che circola nei gruppi WhatsApp rispetto a chi ha studiato anni ed anni prima di proferire parola in tema. Si tratta di sentirsi informati, non di esserlo, di disprezzare e guardare con astio chi, con le armi della logica e della dialettica, prova ad avviare un confronto? Ormai è solamente una questione di quantità. Sono parole che bruciano dinanzi alle urla di chi sa solo rispondere con insulti ed urla. Quali fallimenti sta mettendo in mostra questa crisi?
E adesso è di nuovo notte. Il film è finito. Alcuni degli amici con cui parlo di solito dormono, altri sono ancora svegli. Questa Pasqua non sarà come le altre, questa primavera sarà come se non l’avessimo mai vissuta, se non nei nostri sogni. Ci sarà sicuramente qualcuno che ha sognato di andare a fare una passeggiata al lungomare o ad Aci Trezza. Ci sarà sicuramente chi si addormenta sperando di poter sentire oltre alla voce, anche la pelle di quelle stesse persone che – attualmente – può vedere solo in foto o in sogno. Adesso però è tardi, e nonostante l’angoscia e la voglia di bestemmiare, mi ritrovo privo di vino, sarà meglio non fare le quattro.
Francesco Raguni