Quel che affidiamo al vento
Avevo preparato un altro consiglio di lettura per questo numero di aprile, a ridosso della Pasqua, ma ho poi deciso di riservarvelo per un prossimo Sugheri e Boe, non potendomi di certo esentare dalla segnalazione: mi riferisco al libro di Giovanni Pasqualino che racconta le controversie presenti nella critica d’arte del secolo scorso circa la paternità dell’opera prima di Vincenzo Bellini (“Il Gallus Cantavit”). Tuttavia, ci troviamo reduci da un mese di quarantena e ancora immersi nel clima di terrore – per molti di dolore – di un’epidemia che ha stravolto le vite di tutti noi, senza differenze di nazionalità. Ma basterebbe che avesse stravolto una piccola comunità, per orientarmi verso la scelta di un libro in cui facilmente ci si identifica in giorni come quelli trascorsi: fresco di stampa, il nuovo romanzo di Laura Imai Messina, “Quel che affidiamo al vento” (ed. Piemme).
È una storia semplice, nel linguaggio e nell’intreccio, che nella sua semplicità parla di sentimenti, della morte, del tempo, in un modo che arriva al cuore. È stato ispirato da un fatto realmente accaduto: lo tsunami che l’11 marzo 2011 ha colpito il Giappone, provocando migliaia di morti e dispersi. In uno dei luoghi colpiti, a nord-est del paese, nella Prefettura di Iwate, ai piedi di Kujira-yama (la Montagna della Balena), accanto alla città di Ōtsuchi, un uomo ha istallato nel giardino della propria casa una cabina telefonica scollegata, che simbolicamente potesse rappresentare luogo di connessione tra “al di là” e “al di qua”, un modo per mettersi in contatto “telefonico” con i cari scomparsi. La storia narrata si innesca su questi antefatti, mettendo in piedi le vicende di Yui, una speaker radiofonica che nella catastrofe naturale aveva perso la madre e la figlia piccola. Sente per la prima volta dell’esistenza di Bell Gardia e del “Telefono del Vento” durante un’intervista e da allora, spinta dalla curiosità e dall’intuito, comincia a recarvisi quasi in pellegrinaggio da Tokyo, senza tuttavia mai trovare il coraggio di alzare la cornetta. Alla protagonista si aggiunge presto Takeshi, che, persa la moglie, era rimasto con la madre e la figlia Hana, da allora muta.
Le due storie si intrecciano a quelle di altri personaggi e tra loro, in un percorso condiviso di elaborazione del lutto, lento, fatto di gesti rituali, di rinunce e riappropriazioni. La struttura stessa del romanzo alterna capitoli di narrazione a capitoli che somigliano più a scheletri: liste di cose, sintetiche e schematiche cronache che facciano il punto della situazione, una sorta di diario del lutto, una “conta dei morti”, un TG della coscienza?
Il luogo stesso diviene un contenitore, uno spazio protetto a cui consegnare le emozioni e sperimentarle senza venirne travolti. La figura umana scomposta in cornici dietro la griglia della cabina, come in un quadro cubista, è la riproposizione figurale e fisica di quanto avviene nel profondo: la scomposizione dell’enorme mostro del dolore, per poterlo affrontare in piccoli pezzi, rompendo la visione d’insieme che lo rende terrificante. Un po’ come nel problem-solving, che suggerisce di dividere un obiettivo in sotto-obiettivi per facilitarne il raggiungimento. Anche questa è elaborazione, attribuzione di senso.
Ciascuno a proprio modo, con i propri tempi, trova il modo per medicare le ferite, ricucire i legami spezzati con i morti (anche nei lutti più difficili, irrotti in un rapporto conflittuale, fatti di rimorsi, rancore), ma anche con i vivi a cui non si sa parlare. È centrato il paragone con la fiaba di Peter Pan: lui perde la sua ombra e, una volta riacchiappata, Wendy gliela ricuce sotto la suola.
Il paziente lavoro di artigianato va corredato dal tempo, come nella storia di Noè, che manda in perlustrazione la colomba bianca finché un bel giorno non torna con la foglia di ulivo: terra.
L’ago-e-filo (o il viaggio della colomba) può essere la cornetta di un telefono, ma in fondo ciascuno trova il sistema più congeniale per «rimarginarsi la vita» (nella stessa cultura giapponese il legame con i propri cari defunti è parte della quotidianità, non è aleatorio ma si fa concreto, condensato in religioni come lo shintoismo, in tradizioni come i riti legati al butsudan, l’altare domestico).
Se avviciniamo una conchiglia all’orecchio per sentire il rumore del mare, il principio di Bell Gardia è capovolto: «più che incanalare e guidare le voci verso un solo orecchio», la cornetta le diffonde in aria. Delicato è il modo in cui l’Autrice affronta il tema della morte, uno sguardo occidentale dinnanzi alla concezione che ne ha l’Oriente.
Ma il tema parallelo, affrontato con altrettanta delicatezza, è quello della genitorialità (declinata al passato, nella perdita di un figlio, e al futuro, nella progettualità di una nuova forma di maternità/paternità). In Giappone una tradizione vuole che il cordone ombelicale venga conservato dopo il parto, nella convinzione che rappresenti una sorta di talismano (che poi viene consegnato al figlio o alla figlia) e che possieda potere taumaturgico. Può essere visto come simbolo delle distanze che nel tempo si allungano e si accorciano? La vita stessa è un continuo processo di elaborazione della separazione (da qualcuno o da parti di sé) e di ristrutturazione del mondo interiore. E quale significato ha e continua a rivestire nel percorso di ognuno la prima parola?
Laura Imai Messina ci offre una storia che contiene una delle possibili combinazioni per la creazione di una formula della felicità. Da qualsiasi retroterra provenga il lettore, leggere un romanzo permette anche questo: di lavorare, senza averne iniziale consapevolezza, sui sentimenti.
Giulia Sottile