[… continua dalla puntata precedente]
– 13 –
I polsi serrati dietro la schiena come da catene senza giunture, neanche fosse stato appena arrestato.
Alla fine Giordano non aveva potuto vendicare Andrea Sergio e, come al solito, aveva visto altri attuare quella violenza che covava in lui morbosamente.
Veniva spinto fuori dalla stanza da un uomo alto quanto lui, ma che, infinite volte più possente, lo costringeva piegato, scaraventandogli sul viso i capelli d’argento e ancora impedendogli di vedere, oltre che fuori di sé, anche dentro, adesso che lo confondeva con l’energia violenta che fluiva dal suo corpo metallico, tanto magnetico da sembrare palpabile.
Cosma, al solito braccato come un carcerato, si era degnato di promettere a Torre e a Chimaglia di recarsi nell’immediatezza da un altro di loro e solo così era stato lasciato in privato con lui, almeno durante il piccolo percorso che separava dalla meta la sala dell’assassinio.
«Si vede», diceva, «che, per quanta furia tu manifesti, rimane in te la purezza di colui che non ha colpa. È scritto nel tuo sguardo e nel tuo modo di agire, di muoverti. Sei come il bambino che vuol prendere a calci un cucciolo e non sa che poi guairà con più forza dello stesso animale».
Si fermò e la morsa sempre più forte, pur costringendo Giordano in ginocchio, non alterò la sua determinazione a non chiedere pietà.
«Non hai idea, mio inesperto, di cosa sia il senso di colpa…». Pareva lo volesse punire prima ancora che commettesse l’irreparabile.
Giordano temette che le proprie ossa si spezzassero. Resistette, ansimando, resistette ancora.
«Pensi sia un cavallino da domare? Nossignore! È il diavolo che ti mangia vivo!».
«Cosma!», esclamò a quel punto Giordano con una voce fatta acuta per il dolore. «Redimiti, allora! Chiedi perdono a Dio e rimettiti nelle Sue mani! Basta questo e lo sai!».
«Basta?!».
La fitta ai polsi scosse Giordano che riuscì a non urlare.
«Niente potrà cancellare quello che ho fatto e che farò! Ho visto il sangue di tutti quei ragazzi… di quelle donne… di coloro che non torneranno mai più! E questo perché?». Sembrava un grido di ribellione a quel Dio che però, purtroppo, non udiva. «Per loro, soltanto perché abbiano la certezza che ci sia una casa dove tornare, la casa dei loro pensieri, dei loro credo e dei loro doveri».
«Loro? Chi loro? Tornare?».
Cosma all’improvviso aveva smesso di stringere. Si abbassò leggero sulla sua spalla e, come un figlio con la mamma, cercò conforto. «Non li hai visti? Non ti sei accorto che vagano sul bordo di un precipizio putrido e che da un momento all’altro potrebbero sprofondarvi, se solo io avessi un attimo di esitazione? Vivono nell’efferatezza come fosse la sola idea che conoscano e ormai, senza, si crederebbero inutili e colpevoli. Colpevoli come me… Non voglio… non posso condannarli a un simile martirio… nessuno di loro deve mai solo sospettare che questa nostra scelta di vita potrebbe essere sbagliata, altrimenti rischierebbero di affondare in una paura senza fine».
Giordano non aveva più neanche un lieve dolore ai polsi. Sospettò che Cosma lo avesse guarito, mentre parlava: «Solo tu, invece», disse, «puoi liberarli da questa esistenza rozza e priva di amore. Dà loro l’opportunità di vivere quel che rimane in equilibrio e saggezza».
Lo sentì ridere di una risata bestiale, ma era la disperazione di qualcuno che sapeva di non avere scampo. «Maganzese (21)! E alla faida non pensi? Li verrebbe a cercare fin dentro i cubicoli in cui inutilmente spererebbero di nascondersi, li scoverebbe con ogni mezzo. Poi le torture impartite al bastardo che tu hai appena visto contorcersi non sarebbero che un gioco da ragazzi. Sono stato molto generoso con lui, potendo adottare il pretesto del rispetto nei confronti del compianto Andrea Sergio».
Giordano, per la prima volta daché si trovava in quella luminosa tomba, realizzò che a tirare i fili di Cosma ci fosse qualcuno che stava più in alto… e che questo individuo non era certo il papa!
«È il tuo boss?».
Dopo un momento di silenzio che fu più eloquente di qualsiasi lamento, il santo finalmente parlò: «Chiamalo come vuoi, dottorone».
«Ma tu sei così potente! Di cosa dovresti aver paura?».
«E tu tradiresti, dottore?».
«Non sono un dottore…».
«Tradiresti, cane (22)?!».
Quando Giordano vide i suoi occhi tornare a illuminarsi di rosso, il sorriso diventare mostruoso, la minaccia nell’atteggiamento corporeo, capì che il cane era proprio lui, un cane fedele con poche circonvoluzioni per ribellarsi, un cane che adesso ringhiava perché condizionato… un cane che avrebbe avuto bisogno soltanto di carezze… Poi lo sorprese, quando gliene poggiò una sulla guancia senza timore di sembrare melenso o addirittura sessualmente ambiguo. «Io non ho ancora giurato e per questo non posso essere traditore. La mia sola casa è una Chiesa in cui non credo perché ipocrita e imbrogliona; non ho amici, non ho amore, non ho madre e mio padre è morto in gattabuia. Chi dovrei tradire? Chi potrei tradire?».
Quando gli occhi si spensero, uscì fumo dalle labbra socchiuse di Cosma e l’inclinazione della sua testa lo fece assomigliare a un giapponese fanatico. «Me», rispose, mentre Giordano, sprezzante, alzava senza esitare il mento e ribatteva: «Dovrei restare fedele a un uomo che per gli altri ha già venduto e tradito la propria anima?».
Cosma parve senza parole. Aveva gli occhi sbarrati e colmi di lacrime che non vennero fuori; sembrava confuso, indeciso, abbrutito dalla crudeltà di Giordano. «Tu osi sempre troppo», sentenziò.
Ma ebbe un moto che a Giordano non parve affatto di disprezzo. Tutt’altro.
«Andiamo da Pietro, non ho altro tempo da perdere con te», finì.
L’ultimo testimone camminava avanti e indietro sotto il controllo attento di Pietro Tropea. Era stato raccolto da Sebastiano in uno sgabuzzino scavato sotto la casa della carneficina, dove solo cinque persone, senza neanche riportare ferite, avevano sgominato giovani ed esperti al seguito di un boss il cui corpo finiva in quel momento di stillare un flusso di sangue già viscoso.
Il sopravvissuto si muoveva di qua e di là con tanta energia da far domandare a chiunque lo osservasse come avesse potuto restare chiuso in pochi metri quadri senza fracassare muri e porte. E i muscoli delle sue braccia, in mostra dalle maniche corte di una maglietta consunta, guizzavano ininterrottamente; le labbra si muovevano per infinite emozioni frustrate; i capelli appena riccioluti si ammorbidivano in un ciuffo rosso sopra la fronte. Era infantile e imponente allo stesso tempo, statuario e goffo, apparentemente sciocco… ma a tratti le sue pupille giravano rapide, guardando tutto dattorno con schizzi di pensieri geniali.
«Che cosa volete?», diceva, «poteva farci tutto l’accidenti che gli passava per la testa di cavolo che aveva sul collo! E se una bella mattina si alzava storto, erano cazzi amari per tutti… Era pazzo, pazzo da legare! Ma aveva legato noi e ci teneva come galli da combattimento». Mostrò i polsi fiaccati da irregolari catene. «Eravamo come orfani nella casa degli orrori e ogni giorno dovevamo aspettarci la sua reazione diversa alla nostra condotta, che lui definiva “inaudita”. Ma che cosa pretendeva?! Se ero un teppista anche quando nessuno mi pestava i calli, lui si aspettava che mi avrebbe potuto schiacciare con poche intimidazioni e qualche tortura?». Si sollevò la maglietta invecchiata di giallo per mostrare uno squarcio malamente cicatrizzato e con la mano tremante se lo toccò neanche fosse una ferita di guerra, con lo sguardo se lo controllò fieramente, incantevole trofeo della propria vittoria contro il diavolo della paura e della debolezza.
«U nnummero (23)!», comandò Pietro.
Il ragazzo si scosse da se stesso con uno strano sorriso. «Vuoi detto il numero delle volte che hanno giocato con me?»
«U nnumero di pispisuni ’ntappati dda intra! (24)»
«Ah!», esclamò il giovane un po’ confuso. «C’era…». Adesso si perse nel vuoto, ma continuava a reagire come un disperato che lotta per non precipitare e con le proprie forze vuole farcela. «… c’era Rino con me all’inizio, e ci facevamo le meglio risate, quando ci prendeva la liscìa(25). Ancora prima… prima c’era quel gigantone di Antonio, il gorilla. Lo hanno fatto fuori presto presto». Poggiò lo sguardo allucinato su Giordano e subito lo spostò a Cosma, su di lui lo bloccò come ipnotizzato . «C’era anche Quattrocchi», aggiunse, «è stato il primo a mollare e piangere come un cretino. Per ammutolirlo lo abbiamo pestato anche noialtri, ma non è servito a niente; anzi! sembrava un moccioso che, più viene sgridato, più aumenta il volume del suo frigno. Alla fine ci siamo rassegnati».
«E Andrea Sergio è mai stato un vostro carnefice?», domandò Cosma statico come un manichino.
«Carnefice?!». Rise istericamente, poi si appoggiò al muro, mettendosi entrambe le mani sul cavallo dei pantaloni strappati. «S’è fatto castrare per difendermi!». Scosse la testa, a gran fatica accettando di ricordare quei momenti. «Io… io continuavo a fare il duro e determinavo le ire di quello stronzo. Il sacrificio di Andrea è stato l’unico motivo per cui mi avete trovato ancora vivo: s’è prostrato per pregarlo di non ammazzarmi a costo di ricevere qualsiasi punizione». Mostrava i denti fra rabbia e commozione. «Il cervello non gli funzionava, no, non ci arrivava che preferivo scappare in qualsiasi modo da quel bordello schifoso, anche crepando garrotato. Ma, dopo che lui ha accettato questo per salvarmi, io che cosa potevo fare…? E l’altro, il bastardo, neanche lui ha più potuto tradire la parola data». Si era messo a sudare, tirava su col naso e si asciugava con il dorso della mano il muco che gli colava. Un po’ rideva, un po’ piangeva, mentre si avvicinava con circospezione a Cosma. «Mi disse che li aveva sentiti parlare di fare una strana cosa a Silvestro».
Pietro si accigliò e si mise con le braccia conserte. Sembrava una fattrice che abbassava le orecchie minacciosa, perché qualcuno s’avvicinava troppo al puledro.
Giordano, pur con testa in gran confusione, osservando la vittima nella conformazione corporea, si rendeva conto che potesse essere un compagno di Giacomo Martino, dunque uno di quei ragazzi che avevano fatto parte dell’infelice squadra di basket presa di mira dalle vendette fra adulti. E come amico del fratello di un pezzo grosso, avrebbe anche potuto conoscere i personaggi del gruppo di Cosma.
«Chi culostra cci vosinu impuniri ’sti chianchèri? (26)», gracchiò Pietro con gli occhi sbarrati.
Si muoveva come se si stesse avvicinando a uno squalo; agitato, ma lento, con curiosità, il ragazzo avanzava inesorabilmente verso Cosma che rimaneva inchiodato. «Ma che ne capisco?!», rispose intanto a Pietro, «qualcosa tipo: formare uno stampo della sua faccia per fare una maschera di metallo da appiccicargli, mentre era ancora incandescente e poi piantargliela nelle ossa della testa con dei piccoli chiodi».
Dal fare gelido dei due mafiosi, Giordano immaginò quanta fortuna avesse avuto l’aguzzino che fossero venuti a conoscenza di queste intenzioni solo adesso…
«Che cosa ha fatto ad Andrea Sergio?», domandò Cosma, immobilmente rabbioso.
Il giocatore di basket sembrò averne un leggero timore, perché si fermò e, passandosi una mano sul brivido che gli aveva increspato la pelle del braccio, rispose: «Tu non sai niente. A nessuno di voi può passare neanche per l’anticamera del cervello che cosa è successo nella testa di Andrea». Alzò le spalle. «Si era preso a cuore ciascuno di noi ed era anche giusto: eravamo i suoi allievi, merda! Ovvio che ci tenesse a noi, no? Ci voleva bene, quello! Li ha visti schiattare a uno a uno. Alla fine è schiattato lui. Q-quella bestia era molto più forte… era…» Si mise le mani nei capelli. «Forse si dopava, non lo so come faceva, forse drogava Andrea… fatto sta che fra le sue grinfie il mio grande e forte allenatore sembrava un marmocchio e questo, minchia, io lo vedevo, questo lo sconvolgeva!».
Cosma sbarrò gli occhi: stava di nuovo piangendo, come un bambino, sempre di pietra per il resto… una statua che stillava lacrime. Allora il ragazzo, scostandosi i capelli rossi dalla fronte con un movimento nevrotico, riprese ad avvicinarsi. «Alla fine Andrea faceva tutto quello che il figlio di puttana voleva, alla fine ha ceduto completamente e a quel punto riusciva a trovare pace solo sotto le sue carezze…» Tremò. «E ha persino goduto». Strinse forte i pugni vittoriosi. «Io sono stato più forte».
Fece l’ultimo passo verso quel mostro che lo attirava come una calamita, ma forse sbagliò perché quello così lo ebbe abbastanza vicino da balzargli addosso in un istante e artigliargli la nuca con una mano, con l’altra lacerargli la maglietta già bucata, mentre tutti i denti gli si allungavano, neanche fosse un vampiro.
L’atleta, ora terrorizzato, cercava disperatamente di fermarlo, mettendogli le mani sulla faccia. Giordano, intanto, non comprendeva cosa stesse succedendo e cercava con gli occhi il telecomando di Cosma fra le mani di Pietro che si era fatto indietro altrettanto sorpreso e impotente. Ma non spegneva… Giordano non capiva perché… non premesse stop!
Il sangue sprizzò dal petto del prigioniero come se una fiera si apprestasse a cibarsene e sembrò che uscisse dalla gola, che il torace fosse spaccato e il cuore fuoriuscito. Sotto il suono rabbioso delle corde vocali infrante, cadevano brani di carne sul pavimento, mentre l’aggressore si faceva prendere dalla furia, stracciava e sbranava, rumoreggiava come un lupo geloso alle prese con il proprio antagonista… ma questa volta la vittima non moriva e continuava a contorcersi, scalciando, gridando, mordendo a sua volta, imprecando.
Alla fine il ragazzo si ritrovò per terra, scombussolato e… sano.
Aveva la mano su un petto sporco ma integro e Cosma sembrava avere succhiato tutta la sua sofferenza. «Adesso che la tua cicatrice ti è stata strappata», disse, «potrai liberamente dimenticarne il dolore».
Il teppista continuava a respirare affannato; guardava confuso i pezzi di cute e muscoli sul pavimento e poi il proprio petto privo di soluzioni di continuo.
«Nello stesso modo», ordinò Cosma minacciosamente, «dimenticherai tutto quello che hai appena detto e non lo pronuncerai mai più davanti ad alcuno!».
Il ragazzo sembrava aver perso la spavalderia. Non sapeva se essere atterrito, grato, sottomesso o queste cose insieme. «Non ti tradirò, Cosma», decise. Poi abbassò la testa. «Non tradirò più neanche la sua memoria».
[continua nella prossima puntata…]
Marcella Argento
(21) Uomo simile a Gano di Maganza, il traditore dell’opera dei pupi.
(22) Cane: inteso come Gano di Maganza o Cani di Maganza
(23) Il numero!
(24) Il numero di giovanotti fanfaroni chiusi là dentro!
(25) Allegria demenziale
(26) Questi macellai quale dolore volevano infliggergli?
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