Molti diedero al mio modo di vivere un nome
e fui soltanto una isterica.
(Alda Merini, da: La gazza ladra, in: “Vuoto d’amore”)
Il dottor S. aveva consigliato a Zeno Cosini di scrivere sui propri ricordi autobiografici, per facilitare il lavoro analitico, ma all’epoca di Svevo (e del Sigmund Freud a cui molto verosimilmente l’iniziale del nome del dottore voleva alludere) era più l’intuito che non l’esperienza e la ricerca a orientare la pratica clinica, compiti per casa compresi.
Studi successivi, sempre più spesso corredati da ricerche, confermano la funzione terapeutica della scrittura (soprattutto quando diviene narrazione) sino a stabilirne la migliore modalità a seconda del caso e del soggetto. Pur facendone le opportune distinzioni, molteplici implicazioni condivide con la narrazione orale in sede terapeutica, tra cui – per accennare a qualche esempio –la ristrutturazione del proprio sistema rappresentazionale della realtà, attraverso un processo di risignificazione e una inscrizione dei dati all’interno di una cornice spazio-tempo; l’elaborazione del “lutto” attraverso la riparazione dell’“oggetto perduto”; la canalizzazione e la scarica energetica; la ridefinizione di sé e del proprio rapporto con la realtà esterna o con un sintomo. Potrebbe rappresentare un sistema di monitoraggio del proprio percorso verso il benessere, specchio per la consapevolezza nostra e di chi ci sta accanto[1].
Potremmo valorizzarne una funzione o l’altra a seconda della scuola di pensiero, ma si è concordi nel ritenere che – per dirla con la McDougall – «le parole sono DIGHE»[2]. Sono gli argini entro i quali teniamo insieme la nostra identità, la nostra storia di vita, la nostra salute.
Personalmente, non condivido l’affermazione secondo cui genio e follia andrebbero a braccetto: nega lo status di genio a chi folle non è e nulla ci dice dei folli a corto di genialità. Sarebbe più corretto parlare del ruolo che ha ricoperto l’espressione artistica nella vita di chi si è trovato sull’orlo del baratro, al confine tra salute e malattia, e ha potuto – sebbene in molti casi, nella storia, fino a un certo punto – contenere lo slatentizzarsi o l’incalzare di un disturbo, disturbo che – questo sì – ha caratterizzato la produzione di quell’autore in modo sicuramente insolito e peculiare.
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«Per anni Alda Merini si era abituata, su consiglio dei medici, a scrivere di getto, spesso a scopo liberatorio; nacquero così, a fianco ai testi poetici di grande valore, altri di carattere comunicativo», scriveva Maria Corti[3] che a lungo e con chiarezza di vedute in ambito letterario se n’è occupata, estrapolando e valorizzando (con una generosità che non manifestava facilmente) quei momenti in cui era possibile ravvisare la scintilla della poesia («un lavoro di selezione che isoli le perle e i brillanti e dia loro la possibilità di splendere») a fronte della notevole mole di inediti dalla funzione sicuramente terapeutica ma dal contenuto più vicino alla trasposizione scritta di un delirio.
In realtà, dall’analisi del “fiore” della poesia della Merini sembrerebbe che, a dispetto della notevole popolarità di cui già nel secolo scorso godeva – ma con un ritorno di fiamma negli anni recenti, corredato da apposite iniziative editoriali e da successiva scia di storici o improvvisati estimatori – la prospettiva critica della Corti sia stata influenzata tanto dai suoi studi letterari (che la rendono tutt’oggi Maestra insuperabile) quanto dalla sua particolare sensibilità dinnanzi alla tragedia di una donna. Con ciò non si vuole affermare che la poetessa sia stata sopravvalutata, ma che è opportuno stare molto attenti dinnanzi alla sua vasta produzione al momento di inneggiare alla poesia, che pur è presente in più d’un momento (soprattutto in “Ballate non pagate” che le valse il prestigioso Premio Viareggio nel 1996, sebbene si sia soliti individuare il suo capolavoro in “La Terra Santa” del 1984).
Ma questi sono pensieri che certamente è giusto facciano i conti con l’inflessione del gusto, da un lato, e, dall’altro, con la statura di chi scrive a fronte dello spessore di chi ha raggiunto vette altissime nella storia della critica letteraria e ha fatto da caposcuola ai più grandi critici italiani del secolo scorso, alcuni dei quali sono ancora in vita. Infatti – per citare quanto una volta mi è stato detto da un suo “discepolo”, Mario Grasso – «Giorgio Barberi Squarotti è il Primo grado, Giacinto Spagnoletti è la Corte d’Appello, Maria Corti è la Cassazione». (…)
(*) Per g.c.della Casa editrice Prova d’Autore, anticipiamo il brano iniziale del saggio analitico di Giulia Sottile, sulla poesia di Alda Merini, in corso di stampa.
[1] Per maggior approfondimento: Ferrari S. (1994), Scrittura come riparazione. Saggio su letteratura e psicoanalisi, Editori Laterza; Sampognaro G. (2008), Scrivere l’indicibile. La scrittura creativa in psicoterapia della Gestalt, Franco Angeli; Solano L. (a cura di) (2007), Scrivere per pensare. La trascrizione dell’esperienza tra promozione della salute e ricerca, Franco Angeli.
[2]McDougall J. (1989), Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, Raffaello Cortina Editore.
[3]Corti M. (1998), introduzione a: Alda Merini, Fiore di poesia. 1951-1997, Giulio Einaudi Editore