Innanzi tutto c’è stato un gioco di somiglianze. Infatti il libro “Lo schiaffo e la guancia”, della scrittrice di Leonforte Gabriella Grasso, mi ha posto subito di fronte ai ciechi destinati al precipizio, nonostante il bastone che li salvaguarda. E mi riferisco al quadro che il pittore fiammingo Bruegel il Vecchio completò nel 1568, un anno prima della sua morte, oggi custodito alla Galleria Nazionale di Capodimonte. L’opera riprende l’interrogativo del vangelo di Luca (6,39) “Può forse un cieco guidare un altro cieco?”e le parole di Matteo (15,14) “Se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa”. Il gioco di somiglianze dunque, perchè secondo Sciascia trattasi di “uno scandaglio delicato e sensibilissimo”, che ci impone degli interrogativi e in quanto strumento di conoscenza ci consente inoltre di indagare sulla identità dell’ignoto del Museo Mandralisca, in una girandola di intuizioni e di rimandi al “mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro… ” ma anche allo stesso Antonello da Messina, il pittore che ha realizzato il sorriso della sua opera, sul quale insiste Vincenzo Consolo. Non a caso perciò, col libro della Grasso, abbiamo tentato il cammino inverso, soffermandoci sulla folla di ritratti che regge la trama del racconto I redenti, ma da questa folla riconducendoci al vero ritratto dell’uomo, in quanto archè della somiglianza, anche ricorrendo all’arte e ai ciechi di Bruegel.
Un libro sulle ingiustizie questo della Grasso, che fin dall’inizio ci sorprende con l’immodesto titolo del primo racconto. Alla ricerca della verità, nonostante tutto. “I redenti” scomoda infatti presunte superiorità e fanatismi da nord contro sud, con categorie morali opinabili la cui classificazione entomologica, applicata ancora in ambito nazionale, coniuga a livello locale una schiera virtuosa di privilegiati, pronta ad alzare i toni sulle miserie di altri sventurati. E questo microcosmo estremo, curato dalla scrittrice nei suoi gargoyles, abbellisce una Babele racchiusa in un autobus diretto in pellegrinaggio a Pietralcina, rendendoci consapevoli che il mondo stesso è un unico sud, come interpreta il poeta agrigentino Alfonso Zaccaria. Un pellegrinaggio che precipita nella dannazione di una società, in cui i nuovi ciechi resistono al precipizio chiedendo al prossimo sacrifici e riverenza, mentre il gregge non distingue più la contraddizione delle notizie, asservito alla cecità delle istituzioni e ai bastoni di sostegno con cui i media impongono pettegolezzi imbellettati da una propaganda rassicurante… Nel racconto I redenti perciò, i luoghi comuni devozionali ma anche le storie comunitarie di trasgressione, sono tenute a freno da un parroco calamitante e misterioso, generoso fin dalle prime frasi del libro con quel suo organizzato indisporsi Salite!… Spicciatevi!… Fate presto!… Camurria!… Bii perdonatemi Signore! In questo suo spendersi il padre Redento si fa caro agli stessi parrocchiani, mentre a chi non sta dalla sua parte riserva disprezzo e noncuranza , consapevole del fatto che Dio è grande ed è pure dalla sua parte. A stimolare le note della sua interna armonia contribuisce inoltre quell’abito esteriore che non è nero perché da corvacci ma azzurro, coniugato in capi di lino, di seta o di lana a seconda delle stagioni o delle occasioni. E poi padre Redento non ama il crocefisso e si domanda ma che razza di Dio può volere la gloria della sofferenza? E tralasciamo la spicciola filosofia da confessionale con cui soggioga i suoi compaesani, facendo agognare l’assoluzione ma non come dovuta dimestichezza alla fede, perché il perdono è uno strumento pericoloso e perdonare può diventare un vizio. Mentre impetrare il perdono significa meritarlo, pagarlo in uova fresche,carne appena macellata, vino o olio. Questo solo nelle inadempienze veniali, mentre i preziosi, in rigoroso stile religioso, avrebbero costruito saldamene un’assoluzione perpetua. Oggetti che cercava di collezionare, scambiandoseli con i preti di altre parrocchie, riuscendo cosi a vantare la collezione più ricca della diocesi, che sfoggiava in occasionali banchetti. Ma saliamo sull’autobus del pellegrinaggio, spinti dal sorriso del padre Redento, in tempo per conoscere i coniugi Arsenico che si attardano a salire per le ultime carezze al nipotino Pierino sulle braccia della mamma Ina, rimasta in una sorta di limbo per via di quei suoceri mistici, ma attenti alla loro preoccupazione ereditaria. La nuora, accettata solo per via dell’erede che aveva generato, sorvolava sui silenzi che la riguardavano e, a fianco di quello scimunito di suo marito, pregava. Pregava Dio, il Demonio e pure quel loro santo. Una sorta di dipendenza inconciliabile quella coi suoceri, che arrivava a corrompere quella scarsa intesa familiare, minata dallo stesso marito Giacomino inteso lo scimunito che, ad ogni uscita dei genitori, doveva accompagnarli e poi tornare a riprenderli. La Ina se la augurava la dipartita dei suoceri, però fu lei ad andarsene per prima, per una brutta caduta o forse perché spinta dal marito. E ora Pietrino era solo loro. Quella, sangue estraneo, non c’era più. L’appuntamento sotto la statua di Padre Pio sembrava andare per le lunghe. Ma lì tutti dovevano radunarsi, perché nessuno sarebbe partito senza avere prima baciato i piedi del Santo e per il viaggio di andata e soprattutto per quello di ritorno. Salirono infine i coniugi Arsenico. A fianco dell’autista sedeva Concetta, la perpetua di padre Redento e vicino a lei Angela. Appresso a Concetta si erano sistemati tutti gli altri pellegrini. Prima di passare lo Stretto, il quadro di quel mondo di provincia, partito in cerca di grazie, si mostra al completo. Don Alfio innanzi tutto, coi rampolli di sua figlia Rossella, che nell’occasione ricorda il piccolo Alfio, ammansito dalla madre una volta per tutte con un beverone di camomilla arricchito da una spruzzatina di semi di papavero, tanto che il piccino per tre giorni e tre notti rimase come morto e per morto lo pianse il nonno don Alfio, che alla fine si rivolse al Santo in tono di sfida. E il Santo ubbidì… Il bimbo si liberò dall’intruglio con una fluviale urinata e riprese a piangere. Tra le solite facce, presenti anche quell’anno, si notava inoltre una ragazza che chiamavano la signorina, ma che portava in braccio una bambina di 4-5 anni. La bambina indossava un abitino da monaca, mentre un bambino di poco più piccolo stava con la tunichetta da frate. Signorina di sicuro doveva essere, perché non portava la fede all’anulare e nemmeno il segno al dito ci aveva. Due ragazzi, dalla faccia butterata, stavano poi come appartati, discretamente spiati da qualche occhietto sospettoso e di lì a poco trovati morti da frosci com’erano, ai piedi di un burrone sulle alture calabre. Una coppia di tunisini vestita all’occidentale fu notata da Lucia, fresca fresca di parrucchiere, ma la classificò pronta per la sfilata di carnevale. Insomma era tutto un susseguirsi di microstorie, che padre Redento raccoglieva, risolvendo l’attesa in quel pacioso distribuirsi tra i panieri della colazione, saltando da una pietanza all’altra, per non fare torto a nessuna. A questo punto, avendo preso dimestichezza con lo scenario devozionale dei pellegrini, potremmo consentirci una breve sosta, provando nell’attesa a richiamarci altri viaggi o pellegrinaggi. C’è infatti una storia del mondo alla quale bisogna raccordarsi, anche per dare tempo all’autobus di padre Redento di trovare, nel misticismo della sua corsa, una diversa e inaspettata simbologia di salvezza.
IL PELLEGRINAGGIO DI CANTERBURY. Siamo in pieno Medioevo e Geoffrey Chaucer, l’autore dei “Racconti di Canterbury” (1387), riunisce ventinove personaggi e li mette in viaggio, per raggiungere la tomba di San Tommaso Beckett, l’arcivescovo assassinato circa due secoli prima su istigazione di Enrico II. Il pellegrinaggio rispecchia l’ideale cammino del Cristiano verso la Gerusalemme Celeste, ma il quadro generale del testo non poggia però su coordinate realistiche. I pellegrini si radunano a Southwark, non a Londra, vedono le città di lontano o ne attraversano solo i sobborghi. Non viene fornita nessuna indicazione di soste, pasti o pernottamenti. Lo spazio e il tempo della cornice sono intonati quasi esclusivamente alla voce dei pellegrini che, rispetto agli elitari narratori del Boccaccio, appartengono invece a tutti gli strati sociali. Ad epigrafe dei racconti metteremmo comunque gli “Assassini della morte”, che tratta di tre giovani, messisi in cammino per uccidere la morte. Incontrano però un vecchio il quale indica loro una quercia: lì potranno chiudere la loro ricerca. Sotto l’albero invece i tre rinvengono una montagna di fiorini d’oro, che decidono di dividersi. Il più giovane dei tre viene mandato ad acquistare cibo e vino e gli altri due si preparano ad ucciderlo quando ritorna. Il primo giovane però mette il veleno in due delle tre bottiglie del vino comprato e torna dai compagni, che lo assassinano. Gli stessi poi, per celebrare l’evento, bevono il vino e muoiono. La cupiditas, radice di tutti i mali, ha portato i tre giovani alla dannazione della morte eterna.
IN DILIGENZA CON MAUPASSANT. La novella di Maupassant “Boule de suif”(1880), è inserita nella raccolta “Les Soires de Medan” di Zola. Nello spazio ristretto di una diligenza, ci troviamo a convivere con nove persone: tre coppie di coniugi appartenenti a diversi ceti sociali (commercianti, ricchi borghesi, nobili), due suore e un rivoluzionario repubblicano. La carrozza, partita da Rouen, è diretta a Dieppe. Inizialmente Bouile de suif, la prostituta, è mal tollerata. Poi invece le cose cambiano e si integra nel gruppo, anche grazie a due episodi. Nel primo quando, in seguito a una forte nevicata, i tempi del viaggio si allungano. La ragazza nell’occasione, avendo portato da mangiare e da bere, mette il suo cesto di provviste a disposizione degli stessi compagni di viaggio. In una seconda occasione la diligenza è ferma da giorni all’albergo del Commercio, perché un ufficiale prussiano pretende il pagamento di una tassa in natura da Palla di sego. La ragazza, da vera patriota, rifiuta sdegnata. Gli altri viaggiatori dapprima la spalleggiano ma poi, con la prospettiva di vedere allungati oltremodo i tempi del viaggio, la spingono a cedere. La diligenza riparte ma Palla di sego, blandita nel momento del bisogno, trova nei compagni di viaggio il freddo distacco dell’inizio. In un altro viaggio in diligenza, il racconto è la “Casa Tellier” (1881), troviamo la tenutaria di una Casa di tolleranza con le sue ragazze. Madame è partita per partecipare alla prima comunione della figlia del fratello falegname, che abita a Virville. Un viaggio svolto nella commozione dell’innocenza, che quelle donnine sanno sottolineare ma contenere tra i banchi della chiesa, tanto che alla fine della cerimonia lo stesso prete si sente in dovere di gratificarle, di fronte a tutto il paese “…senza di voi forse questo gran giorno non avrebbe avuto tale carattere veramente divino”.
LOURDES. Il pellegrinaggio a Lourdes di Maria Angulema, avventizia dama di carità, ha lo scopo di contrastare il pesante fardello di dolore che la stessa si porta dentro, per il padre morto in un incidente automobilistico. Armata solo della sua “anima sbiadita e pesta” l’avventizia si trova subito sommersa, fin dalla stazione di partenza, in “una folla rumorosa, composta da pellegrini, parenti dei pellegrini, malati veri, parenti e familiari dei malati veri, malati finti, parenti e familiari dei malati finti, curiosi, sfaccendati, militari in libera uscita, puttane nigeriane, dame o sorelle di carità….”. Ma nel traguardo della grotta di Massabiele, sul palcoscenico delle celebrazioni religiose, il libro di Rosa Matteucci (1998) accentua la iniziale comicità nello strazio, rinnovandosi in qualcosa di diverso e prendendo le distanze da “quella sinistra e beffarda sequenza di eventi”.
L’EREMO DI ZAFER 3. In un eremo-albergo è ambientato Todo modo di Leonardo Sciascia (1974). Il filo conduttore di questo racconto sono gli esercizi spirituali condotti da don Gaetano… un prete erudito e mondano, sempre pronto a sconcertare gli interlocutori con le sottigliezze della sua cultura e dei suoi paradossi… Secondo Ignazio di Loyola gli esercizi spirituali sono un momento particolare per adeguarsi alla volontà divina; in realtà nell’eremo di Zafer3 gli esercizi spirituali sono un puro pretesto e coprono interessati traffici per la spartizione del potere. Ad inceppare la macchina di questo pellegrinaggio spirituale intervengono però inspiegabili situazioni delittuose, che sottolineano le ingiustizie e la crisi della nostra civiltà.
LA ZATTERA DELLA MEDUSA. Il quadro di Gericault (491X 717 cm) si ispira al naufragio della fregata “Medusa”, in navigazione verso l’Africa. Inviata in missione dal governo francese, per accertare il rispetto del trattato di Parigi da parte dell’Inghilterra, la nave si arenò su un banco di sabbia al largo del Senegal il 2 luglio 1816. Una zattera venne improvvisata per 147 passeggeri, donne e bambini compresi, trainata da scialuppe sulle quali avevano trovato posto: il Comandante della fregata affondata, Hugues Duroy de Chaumareys, i suoi sottoposti e otto persone di ceto sociale più elevato. L’episodio, che ha ispirato “ll Ventre del mare” secondo libro dei tre che compongono “Oceano Mare” di Baricco, ci consente inoltre di relazionarci con l’imperizia di un altro Comandante e di ricordare la nave da crociera Costa Concordia, naufragata il 13 Gennaio 2013, al largo dell’Isola del Giglio. La zattera coi 147 avrebbe dovuto essere trainata a riva dalle scialuppe, ma durante il viaggio si spezzarono i cavi che la trainavano o forse vennero recisi per ordine superiore. In quella zattera di metri venti per sette successe l’inimmaginabile: molti morirono di fame e di sete, nell’indifferenza dei compagni di sventura, e i loro corpi vennero abbandonati tra i flutti. Al nono giorno i sopravvissuti cominciano a cibarsi dei cadaveri di chi non ce l’aveva fatta e poi anche ad uccidere per mangiare. Il 17 luglio, all’alba del tredicesimo giorno, la nave Argo raggiunge la zattera. I superstiti sono quindici, ma cinque di questi muoiono poche ore dopo i soccorsi. Tra i sopravvissuti è il medico di bordo Henry Savigny che il 13 Settembre, sul journal des dèbats, pubblica il tragico resoconto. Lo scandalo che ne conseguì, sottolineando la discriminazione sofferta dai non privilegiati, coinvolse la monarchia francese. Ma il nobile Comandante Chaumareys, grazie ai suoi appoggi, riuscì ad evitare la condanna della corte marziale.
-Ogni tanto mi chiedo cosa mai
stiamo aspettando.
Silenzio.
-Che sia toppo tardi, madame.
Baricco, Oceano mare
Ad un certo punto il rapporto dei redenti coi sommersi diventa un catalogo di insipienze, i commenti pruriginosi si alternano a crociate di liberazione, utilizzando “l’olfatto dell’anima”, mentre luridi e puzzosi restano i due marocchini o magrebini, per chi mantiene la sua casa “odorosa di varechina a tutte le ore del giorno e della notte”. Meglio allora liberarsene di questa umanità che ha preso l’autobus sbagliato, destinato ai santi pellegrinaggi, sul quale Concetta ripassa i pizzini che chiedono grazie, scritti a Padre Pio da quei devoti impediti ad affrontare il viaggio. Per distinguerli, li ha così suddivisi: di giallo le urgenze, di blu le amenità e di verde le altre. L’esperienza affinata la spingeva inoltre a chiedere l’obolo in denaro, impegnata com’era a rafforzare con l’obolo e la preghiera l’impegno che metteva ad ultimare l’opera di ristrutturazione della canonica. Ma cestinava le grazie inconsistenti, riducendole a coriandoli. Di verde Concetta poi etichettava l’adozione dei congolesini, custoditi dagli Amanti dei Bambini, filantropi di giorno e pedofili di notte. I pizzini verdi passavano da Concetta a Teresa in Pellegrino, quest’ultima segretaria part-time dell’associazione degli Amanti dei Bambini, con sede legale a Roma. Quando il pullman sbandò, alla frenata brusca di Padre Redento, la ragazza madre fu trafitta dalle parole della Mimmina che aveva visto l’aborto clandestino svolgersi sotto i suoi occhi, proprio in quel santo pellegrinaggio. Padre Redento pure volle vedere e si alzò dal posto di guida, dirigendosi verso quella ragazza che lo implorava di liberarla. La liberò, lasciandola su una piazzola di sosta. Si liberò pure lui e si liberarono gli altri redenti. Solo che ora il mare arrivava lo stesso fin lì urlando nuove disgrazie, implorando il cielo di aprirsi sui nuovi sbarchi; lo stesso mare che lo scrittore Baricco accende di tempesta, mentre su quella zattera il medico di bordo Savigny, da sopravvissuto, vorrebbe riassumerne l’orrore.
La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l’ottava i fantasmi della follia, la nona è carne e la decima è un uomo che mi guarda e non mi uccide.
L’ultima è una vela.
Bianca. All’orizzonte.
Nel racconto “I redenti” la vela bianca all’orizzonte è il Santuario di Padre Pio, nel quale la massa dei credenti si fonde, accolta dalla misericordia del Santo. Ma in cielo accanto alle preghiere salivano pure le puzze degli uomini: effluvi rancidi e umori corporali, mischiati a pietà e desiderio di perdono. Così Maria Angulema, nel tentativo di espugnare la grotta di Massabiele, deve difendersi da alcune comparse demoniache. La protagonista del libro della Matteucci, pellegrina a Lourdes, deve infatti sgomitare tra le diabetiche Michelina e Nazzarena, la stridula Samantha col tiacca, la terrifica Liona mangiatrice di viscere alla brace armata di roncola o angeliche come il bellissimo barelliere Gonzalo Gòmez y Morena. Mentre il misticismo della Grasso, a Pietralcina, ci prende alla gola quando fa scorrere una babele di ricordini, in cui ciascuno annega la propria fede: statuine, rosari e portachiavi, medaglie e santini, quadretti, ciondoli, biro…, volti di Padre Pio in cornice di pasta di sale, solitari o accompagnati da Marie dolenti o Cristi piangenti… Qualcuno dei redenti avrebbe infine aggiunto che il tour della fede si concentrava a S. Giovanni Rotondo e che qua bisognava tornare. Vediamo infine i pellegrini stremati abbandonarsi al riposo. Fuori la notte fonda, ma anche dentro di loro e sono gli incubi di Elsa per un figlio che tarda ad arrivarle, tanto da supplicare quel Santo di non mandarglielo più, o le notizie sulle manovre di respingimento di un barcone di migranti. Nel giorno della memoria i figli degli assassini avrebbero detto che loro non sapevano e i marinai avrebbero raccontato di un mare di morti e i salvati avrebbero raccontato i sommersi, con la vergogna di chi sopravvive. Ma forse non importava niente a nessuno di questi orfani del mare lavavetri che incontriamo nelle nostre città: ai semafori la loro anima vaga e infine sparisce del tutto. Anche per Angela fu una notte da incubi, trascorsa insonne a ripassare una vita in cui aveva fatto la donna del prete senza giovamento. E di lì a poco le malelingue avrebbero consigliato di non andare con Padre Redento alla benedizione della casa nuova di Michela, per via del chierico Giovannino, che adulto non sarebbe mai diventato e che a dodici anni si buttò dal balcone della canonica. Si parlò di bullismo e si trovò Antonino Malacarne disoccupato. La mattina che trovarono il corpo di Padre Redento Veronica, la madre di Giovannino, distribuiva ai suoi compaesani il pane di San Giuseppe. Quello che accadde dopo non fa parte della storia ma tuttavia la completa. Raccontano perciò che, dopo morto, Padre Redento venne a trovarsi al cospetto di San Pio da Pietralcina che gli mollò un solenne schiaffone, proseguendo anche con una raffica di sonore sberle e una decina di pedate. Il prete tremò tutto, presentandosi alla sua nuova sorte con un sussulto incontenibile di perdono: Perdonateci… Siamo lo schiaffo e la guancia, la ragione e il torto. E naturalmente si riferiva a Giovannino.
Sull’autobus del ritorno, il Coro dei redenti non ha più voglia di capire la stessa grazia che ha cercato, perchè non è scesa a rinnovarli. Stanco, preferisce dormire un sonno fatto di incubi, diversamente dalle allegre donnine di Casa Tellier, che mantengono la leggerezza composita rinnovata tra i banchi della chiesa. E perfino Madame, conteggiando lo champagne a quasi metà prezzo, deve ammettere ai frequentatori del suo locale che non tutti i giorni è festa. I nostri redenti invece restano a dibattersi e a condividersi tra passione e dannazione, nell’ambiguo titolo del loro romanzo da biere du pecher , che è pure il libro di Landolfi nel quale l’autore sottintende la birra che diventa bara o il pescatore che si fa peccatore. Nel caso dei redenti resta comunque quell’ esercizio spirituale ignaziano todo modo… para buscar y hallar la voluntad divina… che ha spinto i pellegrini ad uscire dal proprio guscio. Ma nel giornaliero conflitto, tra fedeltà e infedeltà, i redenti della Grasso portano avanti solo scelte di comodo, né arrivano alla ipocrita sincerità dello stesso don Gaetano di Sciascia, che pur ammette di essere un prete come tutti gli altri preti… due o tre buoni, nove o dieci cattivi. Sia i buoni che i cattivi però nel modo più totale ignoranti. Inclassificabile forse il don Gaetano di Sciascia, avendo letto tanti libri. O forse è un fanatico, poiché ha delle certezze e il proprio credo è la zattera della Medusa. Alla domanda se in quella zattera si è salvato qualcuno, don Gaetano ammette che il 10% è una percentuale abbastanza alta. Quello che invece hanno fatto quei quindici per salvarsi è un’altra storia, perché in quell’epoca il diritto di sopravvivere non se lo potevano permettere tutti. Ma anche i nostri tempi hanno ciechi che indicano la strada ad altri ciechi e, tralasciando passatempi retorici sulla scienza del corona e dogmatiche incomunicabilità, c’è pure chi arriverebbe a tagliare la corda che ci tieni legati alla salvezza pur di salvare sè stesso, lasciando gli altri a ramengo. Per questo forse la Grasso preferisce non credere nella memoria, in quanto storiografa imperfetta, preferisce invece scriverla mentre il tema diventa quello dei rapporti tra oppressore ed oppresso, fra vittima e carnefice, già accennato dalla Cavani nel film “Il Portiere di notte” e indagato da Primo Levi nel libro “I Sommersi e i salvati”. Con queste premesse dovremmo perciò ammettere che potrebbe essere ingenua a volte l’interpretazione che ci possa essere l’oppressore puro e dall’altra la vittima santificata dal suo stesso ruolo di vittima. Ma l’animale umano è più complicato e molti degli aguzzini sono entrati nel loro ruolo forse involontariamente, per questo lo scrittore sente di riprendere il tema per bisogno di verità, anche per andare contro ad ogni retorica. Il monumento letterario in questo caso diventa un ammonimento, ma nel caso di Levi la chiave del libro può essere letta in senso antirevisionista, in risposta agli storici seguaci di Robert Faurisson, che arrivano a negare le stragi naziste. Un’altra ragione inoltre sta nella memoria dell’offesa e in fondo anche nel racconto della Grasso riaffiora, come in un sogno notturno, la disperazione dei prigionieri. Il sogno dei reduci era quello di tornare a casa e di raccontare a una persona cara le sofferenze passate e di non essere creduti. Non era credibile infatti quello che avveniva nei Lager. Simon Wisental, nel suo “Gli assassini sono fra noi” Garzanti 1970, ricorda come le SS ammonissero i prigionieri sostenendo che la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi. Le cose accadute erano infatti talmente eccezionali che il mondo non avrebbe creduto. Ci sarebbero stati sospetti, ricerche di storici, ma non certezze, perché sarebbero state distrutte le prove. La storia dei Lager sarebbero stati loro a dettarla. Ma le cose non sono andate come i nazisti speravano. Nell’autunno del 1944 i nazisti fecero saltare le camere a gas e i forni crematori di Auschwitz, ma le rovine ci sono ancora ed è impossibile giustificarne la funzione ricorrendo ad ipotesi fantasiose. Gli archivi dei Lager però sono andati bruciati negli ultimi giorni di guerra e questa è stata una perdita irrimediabile, tanto che ancora oggi se ne discute se le vittime siano state quattro sei o otto milioni, anche se sempre di milioni si parla. Per questo nel libro “I Sommersi e i salvati” Levi ha voluto essere metodico incisivo e dettagliato. Tanto che i capitoli del libro sono un pellegrinaggio nella memoria, per nulla dimenticare: la memoria dell’offesa, la zona grigia, la vergogna, comunicare, violenza inutile, l’intellettuale ad Auschwitz, stereotipi, lettere di tedeschi. Ma Levi si sofferma anche a definire i suoi aguzzini, per rispondere ai giovani delle nuove generazioni… Ed un punto gli è chiaro : aguzzini del Lager responsabili, chi più chi meno, lo sono stati tutti. Dietro di loro non bisogna dimenticare tuttavia la massa di un popolo che ha accettato per orgoglio nazionale o per pigrizia mentale o forse per stupidità, le belle parole del caporale Hitler e lo ha seguito finchè la fortuna o la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti, miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato gioco politico.
Ma il discorso di Primo Levi viene portato avanti con la intonazione di un uomo normale, come precisa in una sua premessa: un uomo normale incappato in un vortice, nel quale è riuscito a salvarsi per fortuna più che per virtù. Da allora però ha conservato una certa curiosità per i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali. Non a caso anche il libro della Grasso trova un equilibrio nel suo stesso vortice, in questo dialogo tra il dare e l’avere , tra il bene e il male, tra i vinti e i vincitori, legando tra di loro i singoli momenti, in una relazione che giustifica rispettivamente l’esistenza dei primi solo nei secondi. E viceversa. Personaggi a tutto tondo questi della Grasso, redenti eccessivi ed infedeli, tradotti in uno stile asciutto e incisivo, premuroso a concedere l’esperienza della verità. Comunque protagonisti di una realtà che vorrebbero sottomettere, dalla quale invece vengono sottomessi.
“Accadono cose
che sono come domande.
Passa un minuto, oppure anni,
e poi la vita risponde.”
Baricco, Castelli di rabbia
(Salvatore Bommarito)