soste su “La festa del centenario”
A un secolo dalla prima edizione del joyciano “Ritratto dell’artista da giovane”, ci chiediamo quale eredità abbia lasciato lo sperimentalismo scaturito da una delle più grandi rivoluzioni del pensiero dell’umanità, quella che, trovando i suoi antenati nel pensiero classico e nelle ataviche, primordiali ricerche di sempre, si snoda verso nuove frontiere nei pressi della Mitteleuropa d’inizi Novecento. Quando si parla di romanzo moderno, oggi, si fa riferimento a questo capitolo storico della Letteratura, dalla nascita del quale epigonismi, diramazioni e ulteriori inedite pennellate hanno riempito la ricerca delle più accorte e sensibili penne. Delle appartenenti a quest’ultima categoria, quella delle personalissime pennellate, ve ne sono in realtà ben poche. Che la lezione joyciana sia dura da digerire? Sicuramente. Ma Giuliano Gramigna si colloca tra i più riusciti esempi dell’eredità di questo filone, e resta tale, oltre che uno degli ultimi, anche a distanza di trent’anni dalla pubblicazione del suo ultimo – e questa volta ultimo assume il significato che l’è proprio e definitivo – romanzo. Così collocherei questo Autore sulle vette del pantheon dei fan dello stream of consciousness, se proprio ne vogliamo costruire uno.
Non ricorderò a nessuno chi è stato Gramigna. Propongo, invece, una sosta sul suo “La festa del centenario”, come esito conclusivo del suo progressivo affinare le lame, quel “romanzo definitivo” che attendeva Silvio Ramat, come testimonianza del coronamento di un lungo percorso di tesaurizzazione e filtraggio di tutti gli accorgimento della narrativa moderna[1].
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A dispetto dell’apparente disorganizzazione del subliminale, del sogno, del delirio come della narrazione e della stessa struttura del romanzo, dovrò pur muovere da qualcosa nel vasto spettro di elementi da toccare in questa sosta su Gramigna, così partirò col dire che la particolare sfumatura che la sua ricerca letteraria assume, giusto per restare sul fronte della disorganizzazione – o meglio della scomposizione o dello scompigliamento come nel gioco del mikado che poi sfida a riprendere pian piano i bastoncini senza muovere gli altri – è dello stampo che parte dalla Ricerca per eccellenza, quella di Proust, che incontra le teorie di Lacan e fa tesoro di un altro incontro, quello tra lo psicoanalista francese e il de Saussure della linguistica strutturale, verso l’affascinante sbocco dell’inconscio “strutturato come il linguaggio”.
Sappiamo come Gramigna fosse sensibile a questo tema e a sua volta dotto in studi allora d’avanguardia d’ambiti disciplinari molteplici, come vuole la più corretta definizione da darsi al termine di “intellettuale”. Da questo scaturisce non solo la sua sperimentazione ma anche le sue lezioni sul romanzo (lezioni che peraltro troviamo anche in uno dei fili paralleli che corrono lungo “La festa del centenario” sotto la veste di meta-romanzo, di cui dirò più avanti).
Si approda alla conferma che l’incontro tra la sperimentazione narrativa e la psicoanalisi si svolge sul terreno del linguaggio, linguaggio come sistema di significanti su cui si opera un processo di simbolizzazione e – come in questo caso – ri-simbolizzazione per pervenire alla propria verità estromessa, sebbene questa sia destinata a restare per sempre das Ding, la freudiana Cosa dell’oggetto perduto a cui potremo dare tremila altri nomi ma che resta, in ultima analisi, quello scarto tra noi e il senso. Il lettore adesso mi perdonerà il viaggio nei meandri della psicanalisi ma il romanzo lo impone alla stregua di una proposta che non si può rifiutare.
Si è detto dello scarto – e d’altronde anche lo stesso Gramigna si lascia a un certo punto sfuggire l’espressione «mancanza-a-essere» – che è quello inesorabile dell’iscrizione di ognuno di noi all’interno del registro linguistico, del simbolico, in cui non si avrà mai una perfetta e chiara corrispondenza tra significato e significante, ora per una inflazione del secondo a scapito del primo, ora per una serie di fenomeni che appartengono ai meccanismi dell’inconscio – e dei luoghi in cui si manifesta – ma appartengono anche alla narrazione di Giuliano Gramigna, lì dove appare una condensazione di più significati in un solo significante, e che in un’ottica sperimentale sfocia addirittura nella condensazione dei significanti stessi, al fine di poter rendere l’esatta sfumatura di qualcosa d’altrimenti inesprimibile. Non che il linguaggio possa colmare questo vuoto, esso è l’espressione e il fautore della parzialità, il soggetto del simbolico è il je dell’inconscio, ma qualche porta si schiude quando ci si ribella alle regole del sistema della lingua parlata. I significanti di Gramigna muovono per l’accesso a piani semantici altri che, da un lato, attivano altri significanti, dall’altro, tendono a trasfigurare quelli di partenza riplasmandoli ed esitando spesso in quelle condensazioni di cui si è detto e che Umberto Eco, riferendosi al Finnegans Wake, chiamava “finneghismi”[2].
D’altronde l’ordine simbolico “include qualunque sistema significante (…) il significato è un effetto che si produce all’interno di un determinato sistema significante in un dato momento”[3], e non solo l’Autore riproduce un sistema personale e autonomo rispetto al “principio di realtà”, ma vi immette anche il lettore stesso, nella continua negoziazione di un patto. E dal momento che il gioco è un sistema significante – forse il primo – Gramigna gioca. E lo fa con le parole, ricorrendo ad efficaci neologismi come «linguimbranato», «rincapezzarsi», «vicolazione», «ninfante», «imbiondettava», «quaquacei», per portare qualche esempio; ma lo fa anche ricorrendo a giochi fonetici come «Fa, fa fra Fracundo» e «Lucifer lucefalo»; storpiamenti come «irrealpolitikke», «stream of unconsciousness», «Cocito, dunque sonno», «Cannabis pensante», che sfociano in “finneghismi” come «dappene» e «ancosce»; scomposizioni di parole come «giac’Eva», «l’astricato» e «l’âne-à-Lise»; e interferenze d’idiomi diversi a contaminare l’espressione, come «föhnemi» e «satisfare». Le risultanti formule espressive collocano l’approccio alla narrazione tra il mistilinguismo e quello che altrove[4] ho definito “melting pot”. Ma d’altronde il ricorso ad altre lingue, che giungono quasi in soccorso, è dichiarato programmaticamente anche in un passo facente capo al filo parallelo del “meta-romanzo”. Il tutto partendo dal “flusso di coscienza” sino a divenire in alcuni tratti persino illeggibile a tal punto il linguaggio assume la struttura del sogno, dell’inconscio. Sembra quasi che l’Autore accompagni il lettore verso un grado sempre maggiore di complessificazione e destrutturazione del pensiero, mentre parallelamente si sgarbugliano i principali nodi della vicenda – sebbene dalla trama non sempre chiara – e ripropongo stralci di testo a testimonianza di quanto detto.
«Lucifer lucefalo porta genialmente questa testa appizzatrice d’ogni reverbero fin lontan lontano dove si dislingua l’acqua smeraldina, corso e ricorso di smerde vaganti, atti mancati o dementi del giorno, ancosce color pesca sforzate solo nel desiderio: lei assennandosi porta via tutto – parcificante. Quel sereno che fluiva con le onde da cui vergine nacque e faceva feconda l’Ile de la Cité; quel sereno de Occidente annunzia tarde, è Lucifero è Vesper vitino di vespa cintura scivolata giù dall’addome liscio a scoprire la selva pubserale di caffè drugstores bar cabarets che incingono luminosamente il ventre di Parigi».
Sino, si diceva, all’illeggibile:
«L’astricato di mauvais propos come la via greggia al ninferno ma io scrivo prugatorio, qualcosa che prude fruga e che mi lascerà, mal-à-venturato!, la coscienza sempre infelice. (…) Da Cork, il levita irlandese Eliphas ben Coen lèvita insufflando ‘ddocemente la tuba dell’après-calypso: dopo quell’olla podrida di tette gambe culi. Phantasmaticheria di Platone! Il sonno n’emonda me’ che Eunoé, perch’è c’è dell’Uno! come sostiene sempre il profeta Jacques sortito di lac… (…) Wie die Sterne wollten: e quell’altro irlandese, uno e bino, che non nacque a Cork ma a Clonmel, con le sue agugliate di filo d’oro, siiiìh!, stai fino!, a rammendarci la vitaccia. Rammèntalo. Però intanto le stelle s’inglaucomano swiftamente, fluttuando in un flou. Sarà questa la loro flusofia?».
Come Gramigna a un certo punto si giustifica al lettore, discorrendo sulla lingua dell’autore/narratore/io-protagonista/lettore virtuale? Il problema di tutte le lingue è che «le maneggi ben bene tutte ma ti accorgi che sono tarlate dentro da un’altra grammatica. Io dico: una parlata a testa ingiù: tanto per spiegare. Come se metti la mano dentro una bocca e ci trovi una lingua diversa, non una lingua morta, una molto viva, che si muove per conto suo».
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La questione linguistica è il fondamento del flusso di coscienza come dello sperimentalismo di Gramigna. La parola che più esaustivamente può, nella magia della sua sintesi, rappresentarlo ce la fornisce l’Autore stesso, nella condensa di «linguapensiero». Si apre allora, data la corresponsione tra i due (lingua e pensiero), la sequela di lapsus e amnesie, di parole che non si riesce a trovare, insieme alle riflessioni sul perché non arrivino o arrivino in ritardo, nel fare i conti con i “meccanismi di difesa dell’io” e con il senso di colpa per “l’illecito” di sé e in sé: le parole mancanti, «buco nella memoria» appartengono tutte alla sfera sessuale («orgasmo», «fornicare», etc.). Nella ricerca insistente delle ragioni di un pensiero, sul binario del “meta-romanzo” che riflette su se stesso e sul suo autore mentre scrive (del «romanzo raccontato e romanzo commentato dall’autore che racconta»), mentre non affiora la parola giusta, «Allora ho concluso che queste falle sono parte del racconto, sono un suo sintomo (…) rappresentano il suo contenuto nascosto», scrive Gramigna, consapevole e palesante la consapevolezza circa l’importante questione della lingua con le sue implicazioni.
Una parentesi su questa meta-dimensione autoriflettente la aprirei in rapporto alla tecnica narrativa, di cui l’autore/narratore ci lascia consigli e riflessioni nel corso del narrato, come la necessità di una «sospensione» come tecnica «per se stessa. Il racconto sta in ciò: che si sospende, pare che nemmeno la pulsione vada dritta all’oggetto, ma gli giri intorno, lo bordeggi». Per non parlare degli intermezzi, tra la difficoltà e la noia di proseguire senza mai arrivare al dunque («Che barba scrivere questo romanzo!»), tra le riflessioni su chi sia poi l’io narrante («semplice sotterfugio verbale» o «il professore di letteratura itinerante a Parigi», «istanza letteraria prepotente e dispettosa» o «alter ego che legge da dietro la spalla man mano che l’Olivetti batte»?) e su quali siano i criteri spaziotemporali in cui inquadrare la storia.
Quanto allo spazio, nell’ambiguità delle ambientazioni geografiche e urbane delle vicende dal sapore onirico, Gramigna stesso ci suggerisce che, in fondo, «il luogo della narrazione è il lettore».
Quanto al tempo, nella sua discontinuità, nella sua disorganizzazione, è il tempo dell’inconscio.
Il filo meta-narrativo che s’intreccia alle vicende sparse a tagliare la storia principale tocca poi il tema dei personaggi come proiezioni dello stesso Autore, e dunque di sentimenti e atteggiamenti ch’egli nutre nei confronti di parti di sé. Ne appaiono d’inventati di sana pianta ma anche di presi in prestito dalla Storia, come Eliphas Coen, Schlessinger, Adenauer, senza dimenticare Lacan, Maria Corti, persino se stesso – «implicato, a distanza, nel ruolo più o meno (auto)ironico di sorvegliare i propri personaggi-controfigure, ma innanzitutto il romanzo nel suo farsi»[5] – sino ad insinuare in noi il sospetto che abbia voluto chiamare in causa anche un personaggio del mondo dello spettacolo appositamente camuffato dall’appellativo «Pippo Rimbaudo». Personaggi, questi, caricaturizzati come fossero destinati a una commedia futurista.
Questa è forse caratteristica che, tra i nostri contemporanei più recenti, sembra aver a suo modo ereditato V.S. Gaudio, in sperimentali sortite narrative che impastano e tritano sequele di episodi mai verificatisi su scrittori e altri personaggi realmente esistenti; con l’aggiunta di altro timbro che appartiene allo stesso Gramigna e che riguarda la pervasività della pornografia, con la differenza che nello scrittore calabrese ha una probabile chiave di lettura tra la provocazione e il nonsense, nell’emiliano è inserita in un circuito analitico di ricerca e di scavo. Gaudio poi si accosta maggiormente a quei momenti di Gramigna in cui l’Io smarrisce le redini e cede il passo al delirio; ma Gaudio è anarchia, Gramigna si ripiglia perché il “regista interno”, a volte distratto a volte lascivo, è sempre presente.
E parlando dei personaggi principali di “La festa del centenario”, ci si accorge ch’essi sono in fondo tre: l’Io (sulla cui identità si è detto), l’Es (che sembra essere incarnato dal personaggio di Coen, parodizzato sin dal principio e dubbio, da cui diffidare come si diffida da – e si ridicolizza – la parte di sé che inventa/ricorda – e scrive – spinge sotto i riflettori contenuti censurati, e, in ultima analisi, il proprio subliminale – non a caso s’innalza un precauzionale muro) e il Super-Io (che pare sia il misterioso Interlineator come voce fuori campo, «A volte è sua una frase caduta nel discorso narrativo e che non si riesce a riconoscere o a giustificare, che non quadra, insomma. (…) lui è ancora più schifiltoso di me, gli abbandoni lo infastidiscono. (…) A volte, mi imita così bene che è impossibile distinguere di chi sia la voce. Allora, per così dire, scrive a spese della mia scrittura. (…) ma come chiamare uno che s’infila nelle crepe, nelle fenditure. (…) alla fine funziona da medium, è una specie di gas molto elastico, che sorregge e tiene distinti quei diversi fantasmi: io, il Narratore, il personaggio, l’autore eccetera, lasciandoli ballonzolare, a mezz’aria, e impedendo che si appiattiscano rovinosamente l’uno sull’altro. (…) L’Interlineator è il fattore O. Il Super O della narrazione, che ne controlla lo svolgimento – dopo aver fatto cadere quella piccola i (…) Perché l’O è un buco, uno zero»).
I personaggi che incarnano ognuno un brandello di Sé, mentre ci s’incammina verso la fine vanno disperdendosi, chi muore, chi parte, chi semplicemente cessa di farsi sentire. Se avalliamo l’ipotesi dell’onirico, che ci si avvii al risveglio dal sogno? Se avalliamo l’ipotesi del viaggio nel “mondo di sotto” ad insaputa di un Sé vegliante, che ci si stia per addormentare? Vi è comunque la coscienza della fine di qualcosa, «il romanzo sente vicina la fine» e il punto è che anche il narratore/protagonista “sente vicina la fine” tutte le volte che si misura con la morte, dall’incontro con un sospettato terrorista alla morte dello zio (quasi) centenario. Il pensiero della morte è persino più insopportabile del lasciarsi scrivere “sesso” e “orgasmo”, è quanto di più raggirato servendosi delle più articolate strategie mentali e linguistiche. Tanto il centenario rimanda alla longevità, quanto il suo approssimarsi rimanda alla morte, per essere esso stesso “atto mancato” per forze di causa maggiore. Il timore e il distanziamento dalla realizzazione di un concetto sono promotori del particolare stile ch’è proprio degli ermetici, nell’atto di dire e non dire, ma anche di chiunque osi spingersi oltre il confine della coscienza, dunque di tutti i seguaci del flusso di coscienza che obbliga a celare come unico modo per tollerare di dire. È il grande tema dello “stile” come “modalità di censura”.
Si tratta degli artifici tecnici volti al camuffamento della verità – a partire dalla disidentificazione come presupposto di successiva libera identificazione – alla deformazione e rielaborazione di un contenuto al fine di attenuare il carattere privato di una fantasia e potervi così versare dentro autentici pezzi di sé senza timore di essere scoperti, violati, rintracciati dalla lettura dell’altro. Processo, questo, accostato al “lavoro onirico” – e qui è il caso di dirlo – che si serve di “condensazione”, “spostamento”, “raffigurazione indiretta”, “negazione” (la retorica dell’inconscio) per celare il “contenuto latente”. Al di là dello stile troveremmo o il confuso vociare dell’inconscio, con i suoi molteplici dialetti, o il silenzio della sterile adeguazione alla norma. La censura non avrebbe tanto il compito di cancellare e occultare – come siamo soliti osservare tutt’oggi nel contesto della libertà di stampa ed espressione – quanto, invece, quello di rivelare (anche se – e proprio perché – camuffato); consente al rimosso di riemergere, offre un “codice” per il suo ritorno (un ritorno “controllato”). Lo stile è ciò che consente di affermare negando e, al contempo, di connettere privato e pubblico, interno ed esterno, Io e mondo [6]. Oscar Wilde scriveva «L’uomo è meno se stesso quando parla di persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità»[7]. E Italo Calvino aggiungeva che «scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto»[8].
Così Gramigna scrive che proprio le «falle che intervengono mentre racconto sono materia del racconto, rappresentano il suo contenuto nascosto». E più avanti, in un tergiversare del narratore sui come e i perché della narrazione e sulla struttura del meta-romanzo, la “voce fuori campo” s’intromette e lo avverte: «Credo che con tutto quest’arruffio di racconti, tu cerchi soprattutto di sottrarti al dovere di raccontare». E di parlare della morte, a mio parere la principale Cosa di questo romanzo, tanto nel suo significato letterale quanto in quello metaforico, la cui inevitabilità sarebbe una delle tre grandi fonti di angoscia dell’essere umano insieme all’imprevedibilità della natura e all’Altro (stando a “Il disagio della civiltà”). E in “La festa del centenario” ce ne sono almeno due.
Qui in soccorso la salvifica censura che abilita il dire l’indicibile. Qui la scelta di riflettere i meccanismi reconditi della nostra mente attraverso un procedere onirico di Gramigna, tra sogno, delirio e realtà – partendo però da quanto già sappiamo sulla natura del reale, come strutturalmente “fuori senso”, asemantico, nullo sino al momento in cui non viene da noi dotato di senso e dunque inscritto all’interno del registro simbolico, dunque inevitabilmente alterato (non dimentichiamo che nella prospettiva lacaniana la parola non rappresenta la cosa, ma ne è la sua morte, in quanto vi si sostituisce – e qui facciamo riferimento allo psicoanalista francese in quanto base da cui lo stesso Gramigna partiva). Così il reale cade in secondo piano, diviene irrilevante. Non è mai chiaro se il protagonista racconti ciò che ha vissuto o viva in funzione di ciò che dovrà raccontare, se sia credibile come finzione autobiografica o se riferisca ciò che immagina di aver vissuto, o sogna di vivere (con ellissi, metonimie, etc.), o ancora se non si tratti invece di produzioni deliranti in seno al personaggio. E – sempre per attingere alle stesse fonti di studio che hanno dato ulteriore materiale alle riflessioni e ai fermenti creativi dell’Autore, col proposito di meglio accostarci al suo mondo interno – il reale è il reale del “godimento” (la jouissance del “goder senza”, della privazione in partenza, dell’oggetto estromesso) e del “sesso” come piacere parzialmente mancato, riproposizione del trauma della perdita, e in perdita il soddisfacimento. Il piacere mancato è altro tema ricorrente nel romanzo, sin dal principio, e si associa a qualcosa che si avvicina e sembra non arrivare mai, dalle più esplicitate scene erotiche alla fine del romanzo o alla festa del centenario dello zio. E, infatti, non si arriva. Non si può dire che il romanzo finisca, e la festa non si farà.
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Nelle fiction che Giuliano Gramigna architetta, un po’ per avere il pretesto di dire – o non dire – qualcosa, in cui l’invenzione si fonde all’autobiografia e – con riferimento alle sfumature di cui s’è detto – ogni più importante ricordo appartiene alla «memoria del buco», si rincorre sempre qualcosa per immortalarlo dentro di sé, imprimerlo affinché possa meglio far chiarezza su chi siamo e dove stiamo andando.
Ci si diverte nel prospettarsi un Lacan-Salomè danzante e nel filosofeggiare sul design dei cessi pubblici. Ci si lascia trasportare da immagini e scene surreali, quadri di Dalì col supplemento della sensualità, della seduzione. Ci si specchia nel mondo, ci si accorge come ogni ambiente in cui cresciamo contenga una parte di noi, o siamo noi a contenere una parte delle case in cui abbiamo vissuto, la loro architettura ha uno speculare nell’architettura della nostro mondo interno, del nostro «apparato psichico». Il ricordo di un vissuto s’iscrive sulla pelle, un po’ come un’afta, a cui dedica quasi una pagina intera – e ne parla come nessun manuale di medicina saprebbe – un «tatuaggio intermittente che mi segnala qualche cosa con un’ostinazione enigmatica». È questa la suddetta «memoria del buco», che diviene metafora.
Quel vuoto programmato e riprogrammato nel “sistema operativo” mente-corpo riporta all’interdizione dell’oggetto. E se la festa del centenario dello zio – anzi: dello Zio, in quanto Gramigna lo scrive sempre maiuscolo – fosse l’oggetto, «Tenuto conto che nessun legame di affetto o di parentela ci autorizzava a costruirti addosso questa macchina idiota e fasulla, il centenario! (…) Si può scommettere che nessuno di noi celebratori si è fermato un momento a pensare che cosa voglia dire avere cent’anni; anzi che cosa assolutamente non voglia dire avere cent’anni».
Era il 1989 e il famoso “secolo breve” stava per concludersi, così lo Zio non era tanto lo zio – e qui usciamo da ogni prospettiva psicanalitica per entrare a pieno nella Storia – quanto il nostro Paese – come ci viene continuamente suggerito pagina dopo pagina, a partire dai riferimenti storici e dalle riflessioni che fa chi, avanti con gli anni, si volge indietro a tirar le somme. In questo senso, le narrazioni che qui troviamo possono prendere lo stesso appellativo che Mario Grasso in “Occasioni” dà alle sue sortite, “spasseggio tra flussi d’incoscienza e momenti civili, politici, religiosi d’inizio Terzo millennio” (certamente con le dovute differenze stilistiche e strutturali – e anagrafiche! – oltre che per il fatto che dallo scrittore siciliano ci aspettiamo ancora altri e numerosi contributi letterari, e altrettanti “testamenti”).
Dunque, lo Zio-Paese (l’antropomorfizzazione è più chiaramente rimarcata altrove quando si parla di «Io-Stato») metafora di un modello, un’idea, in funzione della quale ci prodighiamo per mostrare, ostentare il più possibile affetto, fedeltà, riconoscenza, onorando ricorrenze e tradizioni con quell’ipocrisia ch’è propria di ogni festa di gala o del compleanno di un parente che non vediamo da anni. Qui Paese che mal s’adatta persino alla celebrabilità, quando puntualmente, proprio quando credevi di averne dimenticato i difetti, te li ricorda con “una delle sue” – qualche coazione a ripetere – patria madre-matrigna da celebrare nelle occasioni perché esse assumano e rinnovino la propria valenza, in funzione della longevità di qualcosa (come quando si compie un secolo). All’asemanticità del reale, però, si aggiunge che, se «Un centenario, per definizione, celebra una sopravvivenza. Qui, però, forse fin dal principio, è stata una cosa che riguarda la morte». La morte di molto di ciò che ancor oggi festeggiamo senza realmente conoscere, capire, credere in ciò che quella ricorrenza veicola. Abbiamo troppo poco tempo per pensarci su. Così, Gramigna lo sapeva già al suo progressivo approssimarsi: anche quando è stato il XX secolo a compiere gli anni, è stato un «centenario mancato».
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[1] Cfr. Ramat S., 16/4/2006, “GRAMIGNA ciò che resta di un poeta”, il Giornale.it (http://www.ilgiornale.it/news/gramigna-ci-che-resta-poeta.html).
[2] Cfr. Eco U., 1966, Le poetiche di Joyce. Dalla “Summa” al “Finnegans Wake”, Bompiani, Milano.
[3] Cfr. Cosenza D., 2003, Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi, Astrolabio, Roma.
[4] “Su Chimaira di Marcella Argento”, Lunarionuovo, n.76/53, gennaio 2017 (https://www.lunarionuovo.it/sugheri-e-boe-7/).
[5] Cfr. Tartaro A., 1992, “GRAMIGNA, Giuliano”, Enciclopedia Italiana Treccani – V Appendice (http://www.treccani.it/enciclopedia/giuliano-gramigna_(Enciclopedia-Italiana)/).
[6] Cfr. Ferrari, S., 1994, Scrittura come riparazione. Saggio su letteratura e psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari.
[7] Cfr. Mondardini S., 2006, “Introduzione. Il re della vita e San Sebastiano”, p. xxxiii, in: Wilde O., De profundis, Lorenzo Barbera Editore, Siena.
[8] Cfr. Maraini D., 2000, Amata scrittura, p.78, BUR, Milano.