Partiremo insolitamente dal poema ariostesco. Con la naturale franchezza che spesso va oltre la storia raccontata o forse solo perché i nostri pregiudizi e le affrettate confusioni di oggi hanno bisogno di approfondimenti, ma senza permalosità. Se le nostre intenzioni poi devono andare oltre la penna, non a caso Marcella Argento parla di folle chimerismo per concretizzare i suoi approcci narrativi, così come il sincretismo di Picasso, a suo tempo sfociato nel cubismo, ha fantasticato su un oggetto senza prospettiva, destrutturato secondo diverse angolature e nuovi punti di vista. Poi c’è anche da ammettere che la civiltà del Covid è stanca di essere definita. Ossessivamente studiata, ha finito infatti per prendere le sembianze di un animale preistorico, innegabile ma avventizio, a tempo debito destinato ad autolimitarsi.
Il primo momento della nostra riflessione prevede allora la marginalità, una particolare forma di comprensione che va comunque guidata, indirizzata a risolvere ossessioni e pubbliche licenze. Anche perchè le incertezze e le preoccupazioni della corrente cultura, secondo Michele Rech, sono da organizzare e catalogare in necessità di cambiamento, sociale ed individuale. Posizione da intellettuale la sua, evolutasi dallo “straight edge” ma anche da una impegnata professionalità da fumettista. Del quale ricorderemo il libro divenuto film La posizione dell’Armadillo e tra gli altri libri anche Scheletri e A babbo morto. Riprenderemo perciò dalle sue improvvisazioni alcune osservazioni, sottolinieate durante l’intervista rilasciata dallo stesso a Marco Damilano, per il settimanale “L’espresso”. Sciolte dal loro contesto, ma fino a un certo punto: mi interesso a persone meravigliose che poi mostreranno un volto orribile; ci siamo abituati a vivere senza un orizzonte che metta in discussione le cose; ho una grande invidia per le persone che riescono a viversi con disinvoltura. Secondo Rech infatti realizzare nei fumetti i propri complessi ti dà il tempo di spiegare, perché i fumetti sono manipolatori: “ti fanno empatizzare con cose orribili” e ti insegnano a parare i colpi. Racconti di fragilità i suoi, esplicitamente impegnati in una possibile redenzione. E qui Dostoevskij fa capolino da una Pietroburgo prerivoluzionaria e nichilista, tutta passione e animosità anche nelle sue contraddizioni. Mentre nel caso Zerocalcare non si tratta di stigmatizzare soltanto le distrazioni di una terra promessa, ma di introdurre le premesse evocative per una nuova società. In questo caso poi, acconsente lo stesso, una cultura politica che non ammetta che un’altra persona possa cambiare e migliorare non potrebbe mai appartenerci.
Anche partendo da queste premesse, l’Orlando Furioso dell’Ariosto ci verrà lo stesso incontro, in uno degli ultimi sbarchi a Lampedusa. Isola che dal nome riecheggia il casato illustre al quale appartenne lo scrittore Giuseppe Tomasi, ma che secondo Giovanni Fragapane, ex sindaco di Lampedusa nonché autore di una pubblicazione Sellerio sull’isola ( 1993), poco è da mettere in relazione con l’isola stessa. Innanzi tutto perché nessuno dei Tomasi è mai venuto a Lampedusa, compreso lo scrittore che, in una sua lontana lettera all’amico Bruno Revel, secondo il Fragapane dell’isola “ne parla con smaccata ironia e superficialità”. Riporteremo pertanto la lettera dalla pubblicazione di Andrea Vitello “Giuseppe Tomasi di Lampedusa” (Sellerio 1987).
Caro Revel, finalmente Lampedusa serve a qualche cosa! Non foss’altro ad estrarre qualche parola dalla tua penna recalcitrante. A Lampedusa non possediamo più, dal 1842, né un aranceto, né un’ortaglia anche perché credo che nessuna di queste due ottime cose alligni su quelle malinconiche rocce. Cappellania non ve ne fu mai perché i 2.000 Lampedusani hanno in ogni tempo goduto fama di gente senza vincoli religiosi, un tempo complici e manutengoli dei pirati barbareschi e quindi, se mai, più inclini a Maometto che a Cristo.
Nella stessa lettera lo scrittore Giuseppe Tomasi fa riferimento alla possibile aria di mistero e di vago che l’isola fa supporre. E continuando… Non per nulla essa è famosa nel regno della favola: Ariosto vi colloca l’epilogo dell’Orlando e la descrive sotto belli ma fallaci colori; e (gloria suprema per un’isola) Shakespeare vi ha collocato la scena della sua Tempesta…
I bei fallaci colori dell’Ariosto, ripresi e sollecitati in momenti di calma apparente, ci sorprendono e ci invitano…. Così nel Canto XL dell’Orlando Furioso, stanza 45.
“d’abitazioni è l’isoletta vota
piena d’umil mortelle e di ginepri,
gioconda solitudine e remota
a cervi, a daini, a caprioli e lepri;
e fuor che ai pescatori è poco nota”
Un incoraggiamento ai turisti la “remota solitudine”, che da sola non basterebbe comunque a facilitarci l’approdo sulle isole d’alto mare ma che innesta, al puzzle fantastico, una accurata messa in scena di flora gariga, gabbiani come aerei velieri e barche abbandonate. Dato che l’isola è anche una terra di approdi e di naufragi, in equilibrio instabile con le fantasie dell’Ariosto che a Lampedusa fa approdare i re saraceni Agramante e Sobrino, nonché il prode Gradasso. Quest’ultimo venuto a Lampedusa, più che per combattere i cristiani, per conquistare invece il cavallo di Rinaldo Baiardo e la durlindana del paladino Orlando. Contro i tre saraceni si schierano i tre cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero. E siamo ai tre contro tre: avamposti di due civiltà in opposizione mentre, da un mondo cortese e cavalleresco, si allontana invece la nostra cartolina che mantiene i colori della vacanza, trattenendo il piacere intenso della sabbia e la calda furia dello scirocco. Inoltre le rocce ci accompagnano tra calette e rade nascoste…
Tri suruzzi canusciu
ntu mari assittati
tutti tri assicutati
d’u chiù tintu sciroccu.
A nicaredda teni ntu paradisu
u ’nfernu d’i piscicani
ca ’rapinu a vucca
p’agghiuttirisìrla
e a mizzana muzzicata d’u focu
nata comu na sarda
nta na buatta ’i sali,
ma a cchiù rranni nta na rutta…
cristiani cu saracini
facìa prijàri.
Ma se nel nostro tempo i duellanti dell’Ariosto tornassero, saraceni e cristiani, contrapposti in una lotta a quei tempi iniziata sotto le mura di Parigi e poi spostata in Africa, oggi il modello originario non si complicherebbe di cortesie. Forse perché, in questa realtà Covid, le certezze iniziali sono state messe a tacere e persino le avventure galanti o le fughe di allora potrebbero sembrare superflue e inopportune. Nell’ “Orlando Furioso” il duello di Lampedusa si sviluppa nelle 34 stanze del canto XLII°, fino alla uccisione del cristiano Brandimarte e dei saraceni Agramante e Gradasso. Né serve a riscriverlo l’appunto del genovese Federico Fulgoso, capitano prima e poi vescovo e cardinale, per il quale il duello non poteva essere collocato a Lampedusa, anche per la configurazione alpestre dell’isola, se le tracce della lotta cantata dall’Ariosto rimangono ad oggi indelebili: la contrada cavallo bianco – che sarebbe quello di Orlando, ucciso da Gradasso – l’aria rossa, a ricordo dell’aspro combattimento a Lipadusa, così come “l’orma di Orlando” che poi sarebbe del cavallo di Orlando o “le quattro Torri di Orlando” che poi non si sa se fu lo stesso paladino a farle erigere. Come pure, a testimonianza, la presunta lettera scritta da papa Leone III all’imperatore Carlo Magno, di uno scontro avvenuto sull’isola tra bizantini e saraceni. Testimonianze ed ispirazioni fantastiche tutte collegate alle avventure di questa terra fatte di navi e di pirati, di conquistatori e di marinai, di misteri e di leggende. Mentre di questi incontri, non certo lunari, se ne fa interprete Bernardo Sanvisente, primo governatore dell’isola, che nel lontano 1843 ebbe ad annotare che l’isola era stata abitata da antichi popoli, perché tra le monete trovate ve ne erano di siracusane, agrigentine, dell’epoca dei consoli e degli imperatori romani… ve ne erano arabe, turche, veneziane, francesi e maltesi. Imprese fantasticate non solo dall’Ariosto, ma movimentate ai giorni nostri dalla traduzione teatrale del Ronconi, nella chiesa di San Niccolò a Spoleto nel luglio 1969. Uno spettacolo che il regista risolve in una giocata partita di palcoscenici scomponibili e di carrelli mobili e nel quale chi sceglie è lo stesso spettatore, decidendo se andare via o restare. Ma in quest’ultimo caso costringendosi ad accettare l’azione scenica e la affabulazione dell’intreccio, affidata al Sanguineti, che impreziosisce la recitazione in dialoghi condensati, adattati alla provvisorietà scenica stessa sorvolata da dimensioni fantastiche. Come l’ascesa alla luna del cavallo ippogrifo.
Cortesie e audaci imprese introducono perciò la nostra storia, avvertendoci inoltre che il transito, attraverso le isole d’alto mare, dall’Africa passava alla Sicilia e da qui all’Europa. Una storia inizialmente riferita come leggenda di sbarchi marinareschi, cristiani e musulmani, vissuta come punto di riferimento per approvvigionamenti di acqua e di viveri. Mentre un percorso complessivo non è difficile da ricostruire, fino ai nostri giorni, movimentando non solo le disgrazie ma anche le fedi degli uomini.
- Perché inquadrare la rotta di questo destino è anche una scelta da meditare, alla quale può essere difficile dare una risposta. Anche se l’archeologo Paolo Orsi ritiene che gli insediamenti umani nel bacino Mediterraneo – Pantelleria Lampedusa Linosa e le isole Maltesi – ebbero notevole importanza per la stessa posizione geografica: vero ponte naturale che facilitava l’immigrazione dal continente africano, anche nel periodo neolitico. Come testimonia il ritrovamento di un insediamento neolitico nel 1971, a Lampedusa in località Cala Pisana. Tesi inoltre confermata dall’illustre archeologo Sebastiano Tusa. Mentre, come punto di incontro, la realtà dell’isola inconsapevolmente si andava organizzando e in una delle grotte, nei pressi della chiesetta attualmente luogo di culto della Madonna di Porto Salvo, veniva venerato il quadro della Vergine con Bambino e Santa Caterina d’Alessandria. E sembra che tale quadro provenisse dal monastero cristiano di Santa Caterina d’Alessandria in Egitto. La leggenda ricorda tale Santa, perché di lei s’era invaghito l’imperatore Gaio Galerio Valerio Massimino Dàia, il quale tentò di indurre la vergine a rinunciare al culto cristiano. Non riuscendoci, la condannò al martirio. La Santa fu sepolta sul monte Sinai dove, a suo ricordo, più tardi fu eretto un grandioso monastero, in località Horeb: la località biblica presso la quale Dio si rivelò a Mosè, nell’episodio del roveto ardente.
- Nel corso del VII° secolo, quando probabilmente nacque l’eremitaggio di Lampedusa, il monastero divenne anche luogo di culto per l’Islam, perché all’interno dello stesso era stato accolto e protetto il profeta Maometto. E questo spiega perché, nella grotta di Lampedusa in zone adiacenti, pregavano sia cristiani che musulmani, essendo l’immagine della Madonna venerata da entrambi i fedeli. Secondo quanto testimoniato dall’Anania (1576) a questa immagine ”non haverle mai mancato l’oglio, rifondendovene sempre del nuovo i nocchieri, che vi arrivano, ò sieno Christiani, ò Maomettani”, come inoltre confermato dall’Astolfi (1623). Le stesse offerte lasciate alla Madonna non potevano essere prese da chiunque, ma solo dai Cavalieri di Malta, per essere deposte presso la Chiesa di Trapani.
- A quei tempi la pirateria turca o saracena infestava tutto il Mediterraneo, diventando ogni anno sempre più audace, tanto da allontanarsi dalle basi mediorientali e nordafricane per aggredire le coste del Mar Ligure, depredando il retroterra collinare. In una di queste scorrerie Andrea Anfossi, un marinaio di Castellaro Ligure, fu fatto prigioniero. Durante la sua prigionia, che durò 40 anni, avvenne che la nave pirata dove si trovava ebbe necessità di fermarsi a Lampedusa, per approvvigionarsi di legna. L’Anfossi allora fu mandato a terra, perché sull’isola il legname era abbondante. Qui il prigioniero pensò di fuggire e la leggenda narra che, inginocchiatosi a pregare in una cavità della roccia, vide il quadro della Madonna con Gesù Bambino e Santa Caterina d’Alessandria.
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Verso la fine del ’500 l’eremita Andrea Anfossi, che praticava entrambi le religioni, avrebbe utilizzato il quadro della Madonna come vela per ritornare a Castellaro Ligure, dove sarebbe stato edificato il santuario della Madonna di Lampedusa. Nella leggenda si inserisce inoltre quanto riferito da padre Giovanni Rho sulla statua della Madonna di Trapani, scolpita in Cipro nell’anno 730 e da Gerusalemme trasferita da alcuni Cavalieri Templari, per sfuggire nel 1244 all’avanzata del Saladino. I Templari erano diretti a Trapani ma “correndo tempesta il Navilio, che la portava, si salvò in Lampidosa”. In ricordo di questa sosta dei Templari a Lampedusa Giulio Tomasi, signore di Lampedusa, donò al santuario di Trapani un quadro d’argento. Dal 1602 inizia infine la storia della Madonna di Porto Salvo: il passaggio definitivo dal quadro alla statua o alle statue che nel tempo si sono succedute. Durante poi la colonizzazione borbonica, iniziata nel 1843, il Capitano Sanvisente fece restaurare la statua della Madonna di Porto Salvo, avendola trovata con la testa staccata dal collo.
- La statua, posta nel Santuario di Lampedusa presso il vallone della Madonna, è la stessa che oggi viene portata in processione. La leggenda della Madonna di Lampedusa continua inoltre in Brasile, a Rio De Janeiro. Qui, a partire dalla prima metà del XVIII° sec., viene venerata “Nostra Senhora de Lampadosa” e nel 1747 ad Avenida Passos, nei pressi di Rio, veniva costruito un piccolo tempio. Sembra che tale culto sia stato introdotto da un gruppo di schiavi, passato da Lampedusa e convertitosi al cattolicesimo.
- L’appellativo di “Porto Sicuro” che definisce la Madonna di Lampedusa, è il frutto di precisi riferimenti che si perdono nella leggenda, ma che è possibile anche inquadrare in una realtà storico-geografica e di umani punti di incontro. Né questo patrimonio di storia e di accoglienza, condiviso tra religioni e civiltà diverse, può essere dimenticato, in quanto prosegue il racconto dell’isola che, nei secoli, è stata una colonia fenicia, greca e romana. Nel 1800, essendo quasi disabitata, il re di Napoli organizzò una spedizione di 120 agricoltori e artigiani per ripopolarla, i quali sbarcarono sull’isola il 22-09-1843. Questa fu anche la data decisa come festa della Madonna di Porto Salvo, patrona di Lampedusa. E da tale data inizia pertanto il nuovo corso storico dell’isola.
Per farci riflettere su queste storie Antonino Taranto, premio giornalistico internazionale Cristiana Matano 2020, ha realizzato l’archivio di memorie lampedusane. L’archivio ha sede nella maggiore isola delle Pelagie e raccoglie un patrimonio di umanità, per ricordarci che quanti sbarcavano sull’isola nel partire rivolgevano sempre il pensiero ai più sventurati che vi arrivavano, per i quali venivano abbandonati sulla terraferma indumenti e viveri, addirittura attrezzi da lavoro o quant’altro potesse servire ai naufraghi per affrontare le insidie del mare aperto. E’ un dato di fatto pertanto che l’accoglienza fa parte della storia dell’isola. Lo stesso Giuseppe Tomasi sull’isola evoca “La Tempesta” di Shakespeare e partecipa all’introspezione dei fatti , convolgendosi nelle peripezie dei personaggi. Incredulo lui stesso, ma messo alle strette dal potere d’incanto che viene dalla disillusione, come ammette Auden. Sull’isola vivono il gran mago Prospero, un tempo duca di Milano, sua figlia Miranda, lo spirito Ariele e il mostro detto Calibano. Intreccio che lo stesso Tomasi di Lampedusa vede incentrato nella figura del vecchio Prospero, il quale “attira nel suo rifugio i nemici, li perdona, dà loro in dote la sua bellissima figlia, poi spezza la bacchetta, sotterra il libro, disperde i sortilegi”. Non a caso questa commedia di Shakespeare è l’opera della rigenerazione, poiché nella stessa il naufrago ritrova il filo della sua esistenza travagliata. Consapevole del fatto che l’essere umano, destinato a convivere con la tempesta, sulla zattera che gli confermerà la salvezza, dovrà alla fine accordarsi anche con le sue disgrazie. La Tempesta di Shakespeare per riferirci alle tempeste dei giorni nostri, ai naufragi e agli approdi in porti insicuri, mentre nella commedia del drammaturgo inglese la tempesta è scatenata ad arte dal vecchio Prospero, che si occupa di magia, ma nel naufragio non muore nessuno. Tanto che il regista Roberto Andò, nel realizzare “Il manoscrito del principe”, un film del 2000 sugli ultimi anni di vita di Giuseppe Tomasi, suggeriva all’attore protagonista Michel Bouquet di pensare al Prospero della “Tempesta” e all’intonazione che il Tomasi gli aveva dato, raccontandolo a Francesco Orlando. Lo scrittore infatti si ritrovava nell’addio alla vita del personaggio mago “Ora mi mancano spiriti da comandare, arte per incantare, e il mio finire è la disperazione” (Tempesta atto V). Secondo Eliot in quest’opera della maturità a dominare è il flutto profondo del mare, l’abisso incontestabile in cui Prospero raccoglierà, tra i flutti del suo naufragio, i sogni della propria giovinezza e della maturità, per sorreggere infine la propria rovina. Una sorte incontestabile questa rovina, nella quale però chi affonda trova la sua vita. Tanto che il Prospero della “Tempesta” nell’epilogo risolve la sua disperazione di naufrago nella clemenza, che costringe a perdonare. Consapevole del fatto che il perdono concesso agli altri uomini diventa il lasciapassare per ottenere dagli altri il perdono per sé sessi.
Salvatore Bommarito