La sera non esiste più
Assistere, quando se ne ha l’opportunità, allo spettacolo della notte ha un che di sconcertante: una folla di giovani (e post giovani) ha invaso le strade, le piazze e gli angoli della città. E con essi una quantità preoccupante di bottiglie viene, pericolosamente, agitata, esibita, ostentata.
Mi sono più volte chiesta se oggi sia una necessità dover bere, se l’ alcool e la notte siano legati. Si tratta soltanto della condivisione con il gruppo di un rito adolescenziale?
L’alcool (e le sostanze) sembrano aver ormai acquisito una funzione importante negli incontri tra i ragazzi: se non si beve (o se non si assumono sostanze stupefacenti) non c’è rivolta, non c’è trasgressione. E nel bisogno di produrre movimenti contro o anti le istituzioni, gli adolescenti hanno deciso di vivere quando si dovrebbe dormire, scambiando il giorno con la notte, secondo un antico detto popolare.
La notte sembra essere diventata ormai una parte del giorno, cioè dimensione spazio/temporale nella quale collocare eventi, dilatare il giorno.
La sera non esiste più.
Ascoltando i ragazzi, ho più che l’impressione che stiano scomparendo i rituali rassicuranti della sera che sono, in qualche modo, legati al rallentamento del ritmo diurno, al piacere di ritrovarsi in casa, qui intesa come ambiente che accoglie: così come un bambino piccolo ha bisogno di una mamma sufficientemente buona, un adolescente ha bisogno di una casa sufficientemente buona che lo sostenga, che espleti le funzioni di holding adolescenziale.
La sera è il momento in cui ci si spoglia dei vestiti e si indossa un comodo pigiama, si calzano le pantofole al posto di scarpe belle ma non sempre comode e confortevoli. Ed è in questo cambio di abiti che il corpo si rilascia e lascia che la mente si adagi comodamente in ogni parte del corpo.
Dalle scarpe alle pantofole, o dai vestiti al pigiama, la mente, però, deve compiere un movimento che implica la capacità di riconoscersi e ritrovarsi, di sentirsi, oltre le apparenze del giorno, oltre l’imperativo attuale che impone di dover essere per forza “belli di giorno”.
L’abito/armatura lascia il posto all’intimo, ai pensieri intimi: “Quis hic locus, quae regio, quae mundi plage”.
Potremmo definire lo spazio che intercorre tra i vestiti e il pigiama una sorta di spazio intermedio in cui l’adolescente, ma non solo, si prepara a lasciare andare gli imperativi diurni, il personaggio, la maschera per accedere a un Sé più antico, dando alla memoria la possibilità di esplorare la mente, ai sensi di accompagnare i ricordi.
Non si corre con le pantofole, non si è costretti a un pranzo veloce, alla sera si rallenta; e se la notte diventa giorno la sera non precede più il buio.
E da questo rallentamento sembrerebbe sorgere la necessità di fuggire da questa o di bypassare perché la sera, forse perché proprio questa prepara la notte, a quel tempo in cui ci si ritrova da soli, a fare i conti con il silenzio della stanza, eco della coscienza, e il lento cedere delle difese diurne in favore del libero fluire del pensiero.
Vivere il momento intermedio della sera, implica la difficile gestione dei pensieri intermedi, delle difese intermedie che possono generare nell’ adolescente (e tardoadolescente) vissuti angoscianti che hanno a che vedere con pensieri pazzi fantasie strane, con tormenti.
Da qui la necessità di trasformare la notte in un luogo abitato, negare le angosce del buio a tutti i costi, anche con l’alcool. Quando poi, al mattino, si torna a casa, non si potrà che crollare dal sonno, un po’ per la stanchezza e un po’ per l’alcool, le canne e altro.
L. 18 anni: “La sera per me è una tragedia, non riesco ad addormentarmi; durante il giorno muoio dal sonno, vorrei dormire ma non ci riesco. La sera vado a letto tardi e tutti i rumori li sento io: il ticchettio dell’ acqua, il televisore dalla stanza accanto, i cani che abbaiano. Ora mi è preso che non riesco a stare fermo nel letto, devo sentire il mio corpo, muovo le gambe con movimenti ritmici, quasi un tic. Allora mi dico devi dormire… devi dormire”.
Sembra il corpo non sia in grado di contenere la paura dello sgretolamento del Sé ed affiorasse la paura della dissolvenza del Sé nel sonno. Il letto, la stanza diventano spazi senza definizione, incapaci di fungere da involucro protettivo, da culla, e il corpo sembra incapace di contenere il pensiero.
E’ come se il buio/nulla si insinuasse in quello spazio intermedio accostandosi pericolosamente al corpo facendone vacillare le certezze.
L’ambiente circostante non viene riconosciuto in quanto ambiente proprio, significante e sufficientemente buono: la stanza diventa nemica, il letto veicolo dei pensieri pazzi. Il silenzio assume valenze persecutorie perché permette il riaffiorare del pensiero interno.
Il passaggio dal giorno alla notte diventa così una necessità perché le sera è ansia, angoscia, qualcosa che fa star male.
Così come i bambini non vogliono addormentarsi per la paura di perdere la realtà, l’adolescente ha paura di perdere il controllo del giorno-realtà; e come il bambino fa ricorso al teddy bear, l’adolescente fa ricorso alla bottiglia nel tentativo di controllare e mantenere un contatto con oggetti tangibili (visto che gli oggetti interni sono sentiti non tangibili): “mi stordisco e così mi concedo di abbandonarmi al sonno e, al tempo stesso, mi tengo stretta la mia bottiglia/teddy bear”.
In tale ottica il prolungamento della notte viene imposto dalla necessità di imporre il prolungamento del sentirsi, o del potersi sentire dentro un corpo. La sera, zona intermedia e permeabile, mette il ragazzo nella condizione di farsi toccare dalla paura. È il momento in cui il pensiero non viene, e non può essere accolto, da un ambiente “primariamente investito”.
Per capire questo concetto possiamo fare riferimento alla poesia di Saba “La Vetrina”, nella quale l’autore, prima del momento dell’addormentamento, esplora l’ambiente circostante e attraverso esso, le sue memorie, il suo passato. Le tazzine diventano oggetti con storie, come barche che navigano nel mare dei suoi ricordi che l’autore lascia andare perché sa che ogni barca ritornerà al porto e ogni tazzina ritornerà al suo posto. Saba racconta la sua sera e tramite essa contatta le sue esperienze, quello che è stato, lasciando libero il flusso dei pensieri perché lui sa che i pensieri non cadono nel buio e quindi non rischiano di farsi male.
E poi scivola nel sonno da solo.
C., 17 anni, accompagnato al Ser.T perché l’ abuso di sostanze ha slatentizzato un pensiero di tipo schizoide: “E’ la sera che sto peggio, mi sudano le mani, e faccio strani pensieri, se guardo la TV mi fisso o piango, poi mi metto a leggere e dopo mi calmo e mi addormento”.
In qualche modo non riescono a sperimentare la regressione che l’addormentamento induce, ovvero la possibilità di abbandonare il corpo, lasciare libero il fluire del sonno, essendo precaria la funzione di contenimento delle strutture che appartengono al Sé psicofisico e ambientale (la stanza, la casa, la famiglia).
R., 32 anni, politossicodipendente, diagnosi – Depressione bipolare: “La sera mi esce la maniacalità, comincio a ridere, a fare il buffone, se poi gli altri mi danno corda è la fine. E poi se sto a casa non riesco a dormire, penso, penso a tutto quello che potrei fare, mi vengono in mente storie, poesie; non riesco a stare fermo, leggo camminando, anche 50 pagine, dormo poco.”
Secondo Winnicott oltre la parte interna ed esterna bisogna considerare… “la terza parte della vita dell’essere umano, una parte che non possiamo ignorare, un’area intermedia d’esperienza a cui contribuiscono sia la realtà interna che la vita esterna. Si tratta di un’area che non viene messa in causa poiché non si pretende nulla da essa se non che esista come rifugio per l’individuo perpetuamente impegnato nel suo compito umano di tenere le due realtà, interna ed esterna, separate e pur tuttavia in relazione l’una con l’ altra”.[1]
È l’area del gioco, dei primi giochi del piccolo bambino quando nella culla scopre il carillon, il teddy bear, e poi dopo i primi giochi, da solo, certo che la mamma c’è. È l’area della creatività, della scoperta a cui il bambino partecipa sia a livello percettivo, emozionale, affettivo. E l’ambiente a sua volta diventa un ambiente a partecipazione percettiva, emozionale, affettiva. Avvolto da questo scambio, il piccolo bimbo si lascia prendere dal sonno perché sa nel sonno lo scambio si allenta ma continua.
Ma questo quando le cose vanno bene perché se lo scambio dovesse interrompersi ecco che le tazzine della vetrina potrebbero trasformarsi in mostri, e la sera in un incubo che si ripete.
Le sostanze, in tal caso, diventano l’intermediario tra il giorno e la notte, l’oggetto transizionale attraverso il quale potersi concedere l’allentamento delle difese, potersi abbandonare, senza correre il rischio di sentire la deflagrazione dell’Io perché precaria l’area “che viene concessa al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà”…
“Nella primissima infanzia quest’area intermedia è necessaria per l’inizio di una relazione tra il bambino ed il mondo, ed è resa possibile da cure materne sufficientemente buone offerte nella fase critica più precoce. Essenziale a tutto questo è la continuità (nel tempo) dell’ambiente esterno emotivo e di elementi particolari nell’ambiente” (Winnicott) [2].
L’alcool condiviso crea una pericolosa illusione di gioco, di percezioni finte, alterate e mistificanti, ricercate come aree transizionali, sperimentate come tali in una fase iniziale, o talvolta. Dopo, però, al gioco subentra la falsa percezione di un pieno, di un pieno apparente, sostituto del vuoto. Ai pensieri intermedi subentra l’intorpidimento della memoria condizione “sine qua non” scivolare in un sonno comatoso, senza sogni, senza corpo, senza storia cercato e voluto proprio per annullare quella precedente e fastidiosa sensazione di essere solo, nel letto, nella stanza.
Le sostanze aiutano a non vedere la notte, evitare il buio, la solitudine della sera.
E quindi chi può vedere nel buio più di quanto altri non vedano nel giorno?
Chi non teme la sera, chi gioca da solo, chi porta dentro l’esperienza dello scambio, chi porta dentro la relazionalità intrapsichica e interpsichica.
Chi vede nel buio: chi non teme l’incontro, chi nel buio non vede il vuoto, chi fa del buio un palcoscenico dove far danzare ricordi, immagini, idee. Il mondo fuori e il mondo dentro.
Il buio impone alla nostra mente di sentire il corpo e lo spazio nel quale questi muove. Impone una rinnovata percezione dell’udito, del tatto, dell’olfatto e del gusto. Impone che lo sguardo cambi direzione e anziché dirigersi verso l’esterno, si diriga verso l’interno, verso uno spazio prevalentemente introspettivo.
Molti ricorderanno la scena del film “Il silenzio degli innocenti” nella quale una strepitosa Jodie Foster, promettente agente FBI di nome Clarice, si ritrova al buio nella stessa stanza del serial killer, collezionista di bachi, il quale, sentendosi braccato, stacca la luce nel tentativo di mettere in difficoltà Clarice e sfuggire alla imminente cattura. La scena è dominata ancor prima che dal buio, dal respiro ansimante dell’attrice che perdendo la luce e gli oggetti sui quali la luce poggia, vive con lo spettatore, l’ansia della paura della morte.
Ma è dalla necessità di vivere che Clarice fa riferimento a ogni sua risorsa: ascolta la stanza, l’altro nel buio, e se stessa, fondamentalmente, i suoi passi, il suo respiro. Clarice perde la luce ma non se stessa, la sua capacità di fare i conti con l’ambiente, con la previsione delle mosse dell’avversario, con la percezione dei rumori. La percezione di ogni senso è organizzata e finalizzata da un sistema emozionale superiore e diretto alla meta. Insomma Clarice rimane in ogni istante in contatto con la sua regia interna, ovvero con la sua capacità di organizzare una complessa trama di feedback su ciò che sta accadendo e di servirsene. Nel buio intuisce, deduce, coordina, vede. La sua mente, in quei pochi ma concitati istanti, si protende in uno sforzo attivo in cui chiama all’azione tutta se stessa, affermando in tal modo la sua capacità di essere lì, in quel posto, nel suo corpo con la sua mente.
Potremmo banalmente concludere dicendo che Clarice riesce nell’impresa perché non aveva paura del buio, che in fin dei conti era “un’agente scelto” e sbarazzarmi della questione ma in tal modo non renderei merito alla frase di U. Saba, né tantomeno al lettore Allora forse si potrebbe dire che Clarice non ha paura di fare i conti con il suo buio interni; non si perde nel buio ma si ritrova perché il buio non annulla la distanza tra lei e gli oggetti e non annulla la sua capacità di percepirsi o di esistere nel buio.
Il buio non oltrepassa il confine della sua pelle facendola sentire essa stessa buio, nulla o ignoto. Il suo corpo rimane oltre il buio e nonostante il buio. Il buio non è assenza, non compromette la sua capacità di essere “Clarice” e nel suo corpo contiene la sua mente e la sua mente definisce il confine del corpo.
Ma ancora più importante per noi è constatare che Clarice non ha paura di stare da sola nel buio. Da sola Clarice esplora il buio trovandosi.
E la notte è l’anticamera del buio.
Potremmo anche provare ad immaginarcela Clarice all’approssimarsi del buio, si metta in pantofole, smette i panni del giorno per indossare un più comodo e largo pigiama, e che in attesa della notte, si lasci scivolare nel sonno, libera.
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[1] D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 1974.
[2] D. W. Winnicott: op. cit.