RUBRICA DI LETTURE di Giulia Sottile
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Madama Butterfly alla Scala
7 dicembre 2016. Qualcuno è in viaggio sotto la pioggia che negli ultimi due giorni ha trasformata la Sicilia in una grande vasca da bagno su cemento armato; il tempo è spesso il solo a distogliere dal proposito di shopping natalizio e qualcuno è in anticipo con gli addobbi casalinghi. Mi chiedo quanti, della mia età, abbiano riempito le platee della diretta-tv della prima della Scala di Milano, con la riproposizione della Madama Butterfly di Puccini nella sua versione originale rappresentata nell’esordio del 1904. Scommetto sugli appassionati avanti con gli anni, scommetto sui giovani artisti aspiranti tenori o soprani, ma forse è preferibile fermarsi qui con le scommesse e abbandonare noiosi e inutili, oltre che patetici, piagnistei di tempi che cambiano, soprattutto da parte di chi è figlio di questi tempi. È preferibile anche abbandonare i commenti sul solito un po’ ridicolo giro del foyer, che non farebbero che dar spazio alla dimensione politica e mondana di un evento alla quale la splendida direzione del Maestro Chailly ha invece voluto appositamente dare le spalle. Se invece a qualcosa può essere dato spazio in queste righe, fuor da quanto apprendiamo dalla cronaca, è un affondo sull’attualità dell’opera, pur nella sua veste stilisticamente forse sempre più lontana dalla sensibilità musicale e culturale delle giovani generazioni (sempre che sia possibile non emozionarsi alla prima percussione d’apertura, o durante il coro muto).
Il fatto è che il dramma pucciniano (pucciniano per la sua musica, giacosiano per la trama del libretto) e il particolare protagonismo femminile allora tanto innovativo sono tragici tanto più quanto si riflettono su temi sociali a noi ancora vicini, molto vicini. Abbiamo una donna (una ragazzina) ingenua, immatura, talmente indottrinata dall’ideale d’amore da non distinguerlo dalle sfaccettature delle contingenze reali, talmente monopolizzata dalla sua versione della realtà da rinunciare a tutto a priori, al suo passato, la famiglia, la religione, la tradizione, la mentalità, la sua identità, persino il suo stesso nome. Abbiamo un uomo che si rende conto di tutto questo e se la ride beatamente, pensando a quanto tutto sia ridicolo ma in fondo funzionale ai propri obiettivi, celati fino alla fine. Potrebbe essere il riassunto di molte storie “d’amore” contemporanee, con conseguenze neppure poi così distanti dai tanti casi di cronaca e non, ben più frequenti se non fosse per il fatto che, in fondo, molti anni sono passati culturalmente e socialmente parlando.
Diverte, con un briciolo di amarezza, l’incipitario distribuire denaro a destra e a manca, perché in fondo fu quello un acquisto vero e proprio e, ancor più in fondo, continua ad essere un acquisto ancora oggi sebbene non il denaro ma altri significanti siano il mezzo dello scambio. C’è poi, in principio, la brama di possesso e la convinzione di onnipotenza che ben caratterizza – passatemi lo sgradevole stereotipo – l’americano, e caratterizza – passatemi anche l’ancor più sgradevole stereotipo – l’uomo nei confronti della donna. E l’autocompiacimento nel «Pensar che quel giocattolo è mia moglie!». Mi perdoneranno gli uomini che non si identificano in questa analisi: evidentemente non è di loro che si parla.
Ma ce n’è anche per lei, convinta che, proprio a lei, si sa, si conviene volerle «un bene piccolino». L’autoridimensionamento in difetto diffuso presso molte donne è forse la miccia che rende potenzialmente pericolose le santabarbara a cui ci si lega. Il potere non è un qualcosa che si ha ma che viene dato. E anche per questo ho preferito sorvolare sui commenti quanto a foyer, perché, a considerazioni come storia d’amore romanticissima… viva le donne innamorate così!, segue [nostra pausa di perplessità]; cambio scena: un uomo al megafono su una carretta: “Donne! È arrivato Puccini! E non ha concluso… niente!”. Almeno nel cosiddetto turismo sessuale (fenomeno a cui il dramma è stato, secondo me impropriamente, paragonato), la donna sa cosa sta accadendo e ci guadagna. Qui, invece, ha tutto da perdere: in primis – anche se cronologicamente collocato all’epilogo delle vicende – il figlio, per prendere con sé il quale, mr. Pinkerton, fa appositamente ritorno in Giappone in compagnia della “nuova” moglie regolarmente sposata negli Stati Uniti.
Il confronto tra uomo e donna ha poi un corrispettivo in quello tra due culture diverse, che è stato sempre sottolineato come uno dei maggiori tema dell’opera, anche questo ancora attuale. Non solo una cultura considera se stessa superiore all’altra e desidera sostituirla, ma l’altra considera se stessa inferiore a guarda alla prima con ammirazione, cercando di scimmiottarla. È ben reso dalla scenografia – eccezionale nella sua struttura “reticolare” – che nel secondo atto è volutamente kitsch, nell’accozzaglia di stili, persino con un ritratto di Cristo alla parete. L’accozzaglia è nell’intercalare tra effetti sonori tipicamente orientali e l’intrufolarsi, al momento giusto, dell’inno della Marina Militare degli Stati Uniti, oggi inno nazionale; ma è anche negli abiti ed è stato acutamente osservato dal Foglio che Suzuki diviene una sorta di alter ego di Butterfly, la sua “coscienza” ma forse sarebbe più corretto dire all’opposto, quel subliminale che emerge dal suo retroterra e dalla sua stessa sensibilità che, al contrario, è messa a tacere da una coscienza che vuole che le cose vadano diversamente (ancora quell’autoconvincimento dell’ideale). Tutto è americano, eccetto Suzuki è l’intelaiatura della casa, il cui scorrere verticalmente e orizzontalmente crea una dinamicità esteticamente gradevole ed emotivamente coinvolgente, all’interno di uno speculare sul fronte delle dinamiche psicologiche dei protagonisti e, soprattutto, della protagonista, con i suoi passaggi emotivi ben rappresentati e scanditi da questo “telaio mobile” di sfondo e cornice.
Nihil sub sole novi, dunque, ma va ammesso ogni volta quanto dovuto sia togliersi il cappello dinnanzi a quanto riesce a rappresentare con efficacia e spessore artistico e umano la sempiterna metafora della “farfalla” nella mano “dell’uomo oltre il mare”, dove il mare non è certo quello della geografia. Applausi meritati per Puccini, e applausi meritati per questa Butterfly. Certo, interrompere al termine la diretta all’ingresso della protagonista in scena (e con esso anche l’ovazione per Chailly) perché Edison, Rolex e gli altri partner reclamavano anche il proprio spazio sulla ribalta, non è l’esatto tributo né all’Opera né alla sensibilità umana; ma non lasciamoci dall’ennesima sfilata del dio denaro rovinare la festa di vedere celebrata la cultura su un mezzo di comunicazione di massa (oggi troppo in preda ai programmi spazzatura), gesto simbolico che si speri apri una stagione di rinnovamento nella fruizione della cultura e dunque nell’educazione e nella formazione dell’essere umano contemporaneo.
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Su Chimaira di Marcella Argento
Nei giorni di festa affluiscono tanti libri, chi timidamente chi con spavalderia si fanno avanti a rivendicare il tempo.
Quando si sale su un masso per farsi più alti, l’orizzonte si sposta un tantino più in là, e si vede meglio, si vede altro.
La mia proposta di lettura di questo mese d’inizio anno (finalmente fuor di bisestile) non è stavolta, cari lettori, un prodotto fresco di stampa. È un rifugio che vi propongo? Lo si può chiamare così, quando più leggo più mi accorgo che scrittori veri ce ne sono sempre meno in proporzione alla gran mole di pubblicazioni. Che gran spreco di carta! Se poi si aggiunge il fatto che si legga sempre meno… che gran spreco di carta davvero, “quasi una sfida in cui le poste siano superficialità e ignoranza”, scriveva Mario Grasso nel saluto editoriale del primo numero della rivista Lytyerses, nell’allora 1969. Certo ci sono sfide e sfide, come quella di Lytyerses o di qualche altro pazzo più o meno ignaro di aprir le strade ai savi di domani.
Di recente mi sono trovata a fuggire da storielle travestite da abiti attraenti dai meravigliosi colori a rivestire cloni e manichini. Manichini romanzi e romanzetti più o meno popolari, prodotti in serie a immagine e somiglianza di un modello precostituito nipote di influssi cinematografici preferibilmente statunitensi. Mi accorgo di pretese letterarie talmente ingenue da non mascherare neppure la loro essenza di pura suggestione televisiva, dove persino la nostra Vita (perché la Letteratura è la Vita) viene trasfigurata (insieme ai nostri corpi) per rassomigliare quanto più possibile ai prototipici cliché new generation. Ed è deludente, perché ti hanno rubato il piacere della lettura quando sai cos’accadrà ancor prima che se ne senta l’odore.
Questa volta il mio rifugio è stato un breve (ma μέγα βιβλίον μέγα κακόν) romanzo di qualche anno fa, ma che propongo ugualmente in questo spazio che almeno non fa spreco di carta: primo) perché non credo sia ancora sufficientemente conosciuto; secondo) perché resta ad oggi la più recente opera dell’Autrice (a cui chiedo perché mai abbia smesso di scrivere!). Di certo Chimaira, titolo dell’opera, mi ha ricordato cosa significasse scrittura, lontana da ogni banalità, tanto più se stessa quanto vicina allo sperimentalismo, ciò che preserva l’identità di un autore e la vitalità della letteratura, dove la fedeltà alla tradizione diviene epigonismo, stasi, sino alla morte della lingua, per non parlare dei libri-cronaca, libri-sceneggiato, sfoghi preadolescenziali di prepensionati. Chimaira me lo ha ricordato quando la verità su fatti e antefatti affiora pian piano e talvolta non è che intuibile, quando la terza persona narrante è così immedesimata nel protagonista (come Neorealismo propone) da non dover dar conto al lettore sui dettagli perché sarebbe come spiegare se stesso a sé. Ma in Chimaira c’è anche un Surreale che si tuffa volentieri nell’Horror, nell’inquietudine che s’insinua sia per l’Autrice retaggio di famiglia? Se il cinema è presente nella Argento, non è quello focalizzato sui risultati al botteghino. E per restare nello spirito del romanzo, che propone un divertente gioco di omaggi al mondo della letteratura e a quello della musica, rubo le parole di Niccolò Fabi da Il negozio di antiquariato: “Allora io propongo per non fare confusione / a chi a meno di cinquant’anni / di spegnere adesso la televisione”.
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Si diceva del gioco di omaggi, trovata assolutamente originale nel romanzo di Marcella Argento, che sin dal titolo suggerisce una delle chiavi di lettura dell’intera opera da lei stessa definita intarsi. Il suo divertimento sul piano stilistico emerge infatti anche dall’esperimento di “incasellamento” di parole, versi, periodi e mezzi periodi tratti dal libro o dalla canzone dedicatari di ogni paragrafo, così da portare a un’insalata di Argento e gli autori a cui s’ispira. Si parte non a caso da James Joyce per proseguire con Carlo Goldoni, Go Nagai, Fabrizio De André, Claudio Baglioni, sino a Mario Grasso, Stefano D’Arrigo, Dante Alighieri, Ignazio Buttitta, Omero, Oscar Carnicelli e Charles Baudelaire.
La parola “insalata” però si presta anche a un altro versante stilistico, inerente più direttamente alla lingua, e prendo in prestito una parola cara alla sociologia del secolo scorso per descrivere la composizione multietnica delle periferie urbane newyorkesi, quella di “melting pot”, che adotto nella sfumatura che fa tesoro delle critiche poi mosse alla terminologia che di certo non si riferiva all’integrazione. E infatti con Marcella Argento non si può parlare di commistioni o di mistilinguismo alla maniera di D’Arrigo o di Gadda, bensì di mosaico, dove i tasselli si incastrano senza miscelarsi, restando ognuno isolato dall’altro. Questa forse potrebbe rappresentare una critica nei confronti di questa originale trovata dell’Autrice, dove a volte il “gioco” appare un po’ una forzatura, come quando dà spazio al giapponese e all’arabo, nei loro rispettivi alfabeti, tanto da negare al lettore l’accesso al significato e allo spirito di quel passo, autoreferenziale. Altrove raggiunge un più efficace effetto, con l’uso del greco e del latino, dell’inglese e del francese, persino un italiano dantesco, con idiomi che con disinvoltura s’insinuano nella prosa con ragion d’essere, conferendo ora dinamicità, ora solennità, ora riuscendo a far rivivere un mondo altrimenti snaturato, come nella caleidoscopica descrizione del mercato che si serve di un italiano misto al dialetto tratto da Vocabolario Siciliano di Mario Grasso. In quelle pagine c’è la Sicilia dei nostri antenati, di cui qualche riflesso, è vero, possiamo ancora oggi trovare facendo un giro alla “fiera” (qui nello specifico di Catania). E proprio la trovata stilistica della Argento vivifica un mondo che la lingua di comunicazione nazionale faticherebbe a rispecchiare. Ma, vivificando le lingue e i mondi, suggerisce quasi come la chimera sia in fondo un archetipo, simbolo universale che cambiando volto non muta la propria essenza nel passaggio da un popolo all’altro.
Inutile a questo punto aggiungere come vi sia una grande ricchezza sul fronte dei vocaboli, soprattutto scientifici (come nell’omaggio alla scienza che un medico, quale la Argento è, non poteva non fare). Ma il gioco si sposta persino sul suono della parola, ricercando allitterazioni, sino al frequente ricorso a neologismi, in soccorso alla lingua quando si rivela insufficiente, inadeguata a rendere altrettanto efficacemente un concetto. Porto esempi dei più riusciti: cenerava, lapillava, cenerioccava, nevecarbone, ingranellate, vulnerare, stracquato, fiumare, svoltolato, disviticchiandolo, cianfrugliato, barbugliava, borbogliava, gloglottava. Neologismi al servizio dell’espressività e della vividezza spesso figurale, come nell’immagine del sole che «si disannegava» o nella descrizione della pioggia di cenere quando l’Etna è in eruzione. Ma la figuralità è anche nel mare che buca il pavimento, nelle onde paragonate a «urla di leoni» e poi le descrizioni del mostro-chimera, che nell’attimo di affiorare con irruenza tra le onde, lì dove «la superficie si agitava. Vertebre di vetro e schiuma». L’efficacia degli «occhi di sole proiettati sui muri dai raggi» e del «mare che pioveva dal cielo» non hanno bisogno di commenti.
Il pittoresco delle descrizioni (mai fini a se stesse ma sempre specchio di uno stato d’anima) è poi da intendersi talvolta nel senso letterale, quando sembra di trovarsi dinnanzi a un affresco. L’empatia tra uomo e natura è continua, nel tramonto rossospettrale, nell’agglomerato urbano di fronte all’immobilità degli scogli lavici, quando anche i monti, «infastiditi, si scrollavano di dosso i parassiti con una ancheggiata di terremoto qua e una dispregiativa eruttata là», sino, infatti, all’antropomorfizzazione della natura stessa, dall’Etna «invaso dalla voglia di distruggere, in qualche giorno, boschi costruitisi in centinaia di anni», alla «vastità d’acqua che sembrava respirare, pensare, aver fame». Il denominatore è l’introspezione, motore e meta, che sfocia in riflessioni sulla personalità di ognuno di noi, sugli idoli, sul rischio “dell’ignoto anche ignobile” e sulla repulsione verso il diverso (riflesso del diverso/ignoto che c’è in noi, che diviene minaccia quando ignorato/negato/bistrattato), sulla speranza e sulla disperazione, sulla morte.
E anche Morte, in un certo senso, può essere la chimera. Anzi, con questo romanzo Marcella Argento assegna un volto nuovo e inedito alla Morte che nell’immaginario collettivo è rappresentata con il mantello nero e l’ascia. Qui la Morte non è un’entità esterna che ineludibilmente arriva e non si può che accettarla, ma è tanto più realistica e inquietante quanto non è che una parte di noi e ne ha la natura. Il mostro letterario-chimera è anche questo, è «la meravigliosa e riuscita avventura dell’essere umano nella profonda sfida ai propri limiti»; è il mito greco e qualsiasi creatura nata in provetta da un esperimento che fonde più codici genetici; è giustamente chiamato Cola dal protagonista perché è il mito siciliano di Colapesce, metà umano e metà pesce; è la fera del darrighiano Horcynus Orca; è un Moby Dick mai catturato; la baraonda acquatica creata dal suo movimento è Big-Beng e rinascita come seconda opportunità e rigenerazione di noi stessi nel dar/ri-dar vita alle parti sopite di noi a comporre il mosaico dell’essere umano; chimera è l’uomo, esperimento di se stesso e combinazione di elementi apparentemente inconciliabili; «chimera è l’intero libro», scrive l’Autrice in una nota personale, parlando di “chimerismo”, «fra antico e nuovo», nella veste stilistica di cui si è già detto. La chimera “multi-livello”, in definitiva, rende quest’opera unica nel suo genere e un esempio di sperimentalismo a cui ogni scrittore dovrebbe tendere per poter dire di far letteratura.
Rinnovo l’interrogativo – perché mai Marcella Argento abbia smesso di scrivere!? – che vuol essere esortazione e augurio.