(terza e ultima puntata)
… continua da Lunarionuovo n.89 (prima puntata) e n.90 (seconda puntata)
Sarebbe sbagliato, tuttavia, guardare alla scrittura degli 8 come a un vuoto elegante lamento. A una realtà insoddisfacente ne contrappongono un’altra, ognuno la propria, come proposta creativa per chi vorrà raccogliere la sfida. Da questo punto di vista la scrittura si fa pensiero, ricerca, lavoro di restauro, come quando la musica del carillon si ferma o s’inceppa e arriva qualcuno a dare nuovamente la corda, ogni volta un numero casuale di giri. Così quando la vita s’inceppa, ognuno dà la propria corda e parte. È attraverso questo meccanismo che è possibile vedere oltre la stortura del mondo anche ciò che serve a costruire la propria città fatta di strade e ponti (quanto contano i ponti!). La società che la popola può essere nemica, avversaria, alleata o laboratorio d’osservazione in cui raccogliere e catalogare la realtà per conoscerla, comprenderla, amarla.
Questo lavoro di indagine appartiene per esempio alla scrittura di Maria Bucolo, non a caso definita nella nota critica interna al volume “poesia dei luoghi e delle persone”. A conferma la propria personalità già dichiarata con la narrativa di “Confini instabili” (2017), si può innanzitutto dire che la scrittura è per lei strumento di ricerca del profondo dell’animo umano, al punto da dar vita a una galleria di tipi personologici ritratti con estrema efficacia, in fisionomie e gestualità che sono rivelazione e chiave per la conoscenza di ciò che sta sotto la superficie. Ciò che appare ci dice ciò che è e c’è, indizio dai molteplici significati. Segnalo a titolo esemplificativo “La parcheggiatrice” e “Padre”.
La ricerca sociale, in veste molto diversa, è quella della Maiolo, nella descrizione di personaggi incontrati per caso, osservati da lontano nei loro movimenti, immaginandone storie e progetti, ponendo spesso la scrittura al confine tra la prosa lirica e la narrativa. Sembra quasi, inconsapevolmente, ci sia un metodo: sono “ritratti al contrario”, che partono da una condizione presente e vanno a ritroso nel tempo, come una maglietta girata dalla parte dell’etichetta con le istruzioni per il lavaggio, come se solo mostrando il passato fosse possibile davvero rappresentare il presente. Ai richiami a sfondo religioso si alterna lo sguardo laico, a tratti surreale e fiabesco (come in “Post mortem”), comunque focalizzato sugli emarginati, sui dissidenti, sugli «avariati».
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In tutti i casi si tratta di una ricerca sociale che non prescinde (e anzi si intreccia) dalla ricerca di sé, ed è il caso di Mario Condorelli, che parte da una condizione di dichiarata rottura come in un vero e proprio processo di “separazione-individuazione”. Per questo comincia dichiarando di odiare i poeti e la poesia, continuando col titolare arditamente il componimento successivo “Elogio della merda”. C’è come un’avversione per ciò che è chiaro, ordinario, preordinato e prestabilito, per ciò che è logico e prevedibile, in favore, invece, per ciò che spiazza e accende il dubbio. È per questo che sembra cercare se stesso in una discarica abbandonata, forse creata dal mondo per chi non risulta a immagine e somiglianza dei più? Eppure, seppur l’uomo può aver sfiorato la morte, «ribelle cadavere a tutti i potenti / il mio teschio non morde la terra», per tornare davanti allo specchio del bagno, a un faccia-a-faccia con se stesso, «il mio sguardo / da trovare nel mio (…) a provare per gioco il buffone, il diavolo, / o l’angelo / e sempre fuggire l’unica parte di attore / che non calca la scena», e qualche verso più in là, «a scavarti da ossesso, / a scappare all’immagine». Non si è mai detto, d’altronde, che la costruzione di sé fosse un percorso lineare, soprattutto lì dove il caos della vita rema in direzione contraria nel distoglierci da noi stessi, tanto a volte da farci dimenticare chi siamo. Guardarci allo specchio, tra frontalità e fuga, può essere un modo per re-impararlo.
Di Paola, «aedo di un’epoca che annaspa alla ricerca di una identità barcollante» (come in nota critica viene definito da M. Grasso), si cerca invece nei «sogni d’amore», nel disperato atto di trattenere a sé qualcosa che sfugge, lasciando la conclusiva desolazione di un «amore maldestro» e la sensazione di essere «ombre dissidenti / al cospetto delle mille candele / che infiammano / le nostre camere / e le mazzanotti distopiche, / senza di te, / neanche nei sogni».
E poi c’è Claudia Russo, col suo gioco a nascondere, che si professa «anima stretta da una colpa» per assumere la forma di ogni elemento e personaggio che chiama in causa come l’acqua dentro il bicchiere. All’autocritica si unisce però la consapevolezza di non potersi mostrare davvero all’occhio altrui, lettore compreso, carnefice; il che si presta all’esigenza di reticenza che rivendica la poesia.
Questa reticenza è fortemente presente nella personalissima scrittura di Ada Nicolosi, che sente il bisogno di dischiudere la propria intimità e al contempo fa di tutto per coprirla, metterla al riparo da occhio indiscreto. Come in una sorta di auto-analisi in versi, l’Autrice si muove senza seguire un tragitto lineare e nel linguaggio e nel senso, come nei riflessi scheggiati del sole sul mare increspato. Emerge un’inquietudine interiore messa in discussione e al contempo accarezzata. Incastonati in un corpo irrigidito, duro come la roccia, ci sono due occhi vivaci, in fermento.
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In questo excursus tematico, uno spazio potrebbe essere dedicato alla luna. Molto belle sono infatti le due poesie ad essa dedicate da Condorelli e Di Paola, entrambe particolarmente forti nella loro figuralità e nell’antropomorfizzazione. Nel primo caso, la luna è una sposa dal viso pallido con le stelle appese come le perle ai lobi, mentre scende piano i gradini coperta da un velo, per «maritarsi con trini di tulle»; poi si fa rossa come la gota di una ragazzina affannata. Nel caso di Di Paola, al satellite viene rivolto un aut aut, disprezzato perché illude gli uomini, spingendoli a sognare, e poi presiede alla loro rovina, «sgualdrina d’avorio», generatrice di ombre vaganti, eppure testimone, faro indispensabile, fonte di riconoscimento e sopravvivenza per tutti coloro che hanno bisogno di aggrapparsi a qualcosa.
Questa parentesi sulla luna dà il destro per una virata sulle immagini che questi otto Autori sono stati capaci di creare, se è vero che in fin dei conti la poesia risiede nella capacità di “far vedere e sentire” il mondo nella sua infinita complessità servendosi di un minimo indispensabile vocabolario libero dalle convenzioni sociali e piegato alla rappresentazione dell’oggetto non come appare, ma come è vissuto. Porterò qui alcuni esempi di felice espressività estratti da ognuno.
Bucolo: «aggrottate rocce e / salmastre / a / confinare / su / mare di spada / lucente. (…) Miri con noia / marina (…) un sole / impetuoso»; «sgambettìo / nudo / di cosce / negre / raccolte al viso»; «bianca treccia e / magra (…) per poche lire e / pigre»; «Mare di tarde / ore (…) sotto avvicendarsi di / stelle // t’addensi e vai a / scurire»; «brontolio di costa / calabro (…) in lenta alba e / scialba (…) reti // siepi / in agonia di // aghi (…) canti / spenti / senti e / langui e // dissangui (…) di coda / un guizzo»; «arrossato disco / langui e / dissangui un cielo / ferito. // Alba» (con riferimento al sole). All’occhio del letterato saranno saltati all’occhio allitterazioni, assonanze, anastrofi e iperbati, metonimie, sinestesie, sineddochi.
Castello: «afferra il mio seno e spalmalo / nella mano che tutto avvolge»; «immagino il tuo occhio nascosto / dietro l’angolo, il tuo sorriso / silenzioso tradito dall’amore /dei piccoli»; «sei il regalo più grande dei miei giorni / aggrovigliati tra sorrisi e pianti».
Condorelli: la già citata descrizione della luna, potente e originalissima, più avanti «l’ombre di palazzi di piombo, / incoronati d’antenne (…) i passi di ballerina vissuta, / tra le nuvole a zucchero filato, /e il caramello a vapori, (…) volano ali dal cappello del mago» (qui sineddoche); «c’è una luce di lampada, / imprime la sedia nell’angolo in chiaro / e stampa in eterno per terra il suo buio»; i sacchetti di plastica dell’immondizia sono «plastiche vesti, / fantasmi».
Di Paola: «le tenebre si sfilacciano»; «sotto terra, / tra le radici dei pali elettrici / e pile di stagioni immutate»; «i suoi capelli si abbattono sui palazzi / come alberi sbattuti dal vento»; «nella terra grigia il sentiero si avvinghia / come gli artigli di demoni pesanti; (…) dove i fiori / mitragliano le api volteggianti / e finiscono quelle ferite / con un colpo alla testa»; «la tua ombra scivola tra i solchi del mio letto (…) siamo questo / ombre dissidenti / al cospetto delle mille candele» eccetera (già citato).
Maiolo: «una valigia piena di nuvole e luce»; «l’unico mestiere possibile è quello del vento»; tutta la descrizione trasfigurata della città di Catania in “E’ temerario l’amore che ci trascina”; «il dolore della mia tristezza bagna i ricordi (…) ho in bocca l’aspro retrogusto delle ore morte, delle cose non dette (…) vedo il morto gelo dei tuoi occhi (…) le mie lacrime fitte scendono sulla mia angelica infanzia»; in un climax «pantaloni che stavano su da soli, maglie che non cadevano dalle spalle, spalle che non cadevano lungo le braccia»; «le strade scintillano sotto il sole»; «l’acqua brillerà di fuochi ultraterreni. / Nella terra promessa masticheremo la nebbia»; «con quegli occhi attaccati alle punte dei loro bastoni bianchi».
Nicolosi (Ada); «solido volo»; «l’alba, / tutta trema»; «negra dal rumore / delle onde»; «l’odor s’apre / carnoso»; «nel centro della luce; / con il viso rotto / mi sento usignolo»; «giù dal cielo mattutino, / qualche gocciolina di pioggia / scompare a poco a poco» (che consente di visualizzare il complesso processo di rifrazione dei raggi del sole in cui la pioggerella sembra scomparire); «la grezza malinconia / che arde la retina».
Nicolosi Fazio: «invece di bagnare / pioggia ritinge / di rossastre figure / come le foglie / i panni / al giorno stesi / nello stormir di notti / vibranti lampi»; «varcando crespi mari»; «pur non avendo ali / l’alea cerchiamo (…) l’aria è il mezzo / dove lanciar pensiero»; «i nervi delle case» di cui s’è detto «pronti ad immolarsi / nel flutto del cemento (…) la pioggia opaca / di malta petrosa / riecheggia la mattanza. / ordini brevi (…) intuiti, / nel frastuono, dall’increspare / degli angoli del volto».
Russo: «sete ostinata / furiosa come il grano d’estate (…) sarà per quel grigiore che hai tra i capelli / che la terra tacque la notte / al chiaro di luna (…) hai la schiuma spettinata nei tuoi occhi / sarà per questo che ti chiamavano ridente marea»; «nella stanza / che hai ornata di tappeti ed ombre»; «la vita ti tremava nelle ciglia / e cacciavi quei frammenti col respiro»; «coloro che camminano sotto il mondo / e sotto le dita parlano una lingua /severa ed ironica» (i poeti).
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Nel corso di questa analisi corale, ci si è dunque avvicinati ad aspetti di confine tra contenuto e forma. Quello della forma è un tema non secondario, sebbene ampio spazio sia stato dedicato al contenuto, soprattutto considerando che la Letteratura è forma. L’aspetto tecnico della scrittura, tuttavia, non è sempre al centro dell’attenzione di chi scrive, sia per scelta che per istinto, e anche in questo caso è più presente tra quelli che più su ho definito “analitici”. È sicuramente il caso di Maria Bucolo, a partire dalla scelta del verso breve ormai proverbialmente definito “ungarettiano”. Ma nella poetessa si manifesta anche con la scelta delle parole, che non è mai casuale, con l’ordine con cui esse sono inserite nella frase, col rapporto tra le frasi. Non c’è significante che sbiadisca l’intenzione comunicativa, ma bensì la potenzia, senza ripetersi. Non c’è pleonasmo. E’ un “osso di seppia”.
Non passa inosservato l’esperimento di Nicolosi Fazio, che organizza in un unico blocco privo di punteggiatura una prosa lirica raffinata.
Un discorso a parte andrebbe fatto per la Nicolosi, ermetica e misteriosa con introspettivi flussi di coscienza in versi e un personalissimo vocabolario. Proprio a tal proposito, sembra quasi che voglia sovvertire le regole della comunicazione, spingendosi al di là della convenzione linguistica che vuole corrispondenza tra significato e significante. Non solo questo non accade, e le parole acquistano autonomia a volte chiamate in causa per il suono che produco o per l’associazione che provocano con significanti taciuti, ma la grammatica stessa si ammutina. Verbi intransitivi divengono transitivi («un colorito / abbonda le radici»); salta la concordanza singolare-plurale, maschie-femminile («un suo folgore»); i sostantivi divengono aggettivi e viceversa («l’aria tutta corvina / preme una piuma lama»). Non ci è dato sapere se anche qui si sia trattato di gesto istintuale o scelta programmatica volta alla rottura con la stessa comunicazione poetica, certo lo fa al rischio e pericolo da cui, in altra epoca, Picasso aveva messo in guardia, per interposta persona del di lei fratello, la geniale innovatrice Gertrude Stein: «With lines and colors one can make patterns, but if one doesn’t use words according to their meaning they aren’t words at all»[1]. Certo, questo non ha impedito alla scrittrice americana non solo di avere successo ma di restare nella storia come caposcuola di un’intera epoca (il che non è più che nota augurale).
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Alla luce della ricchezza del materiale sinora sottoposto a esame, non ci resta che constatare come gli esordienti non siano stati scelti a caso per questa iniziativa editoriale, come chiaramente non lo sono stati i poeti più esperienti e affermati che completano la formazione del primo volume di questo “POETI IN e DI SICILIA” con poesie edite e inedite. Segno, questo connubio, di una continuità nella ricerca di talenti e nell’interesse culturale da parte degli stessi presenti e futuri scrittori. Sempre, tenendo conto del fatto che ogni mano levata è, in ogni caso, una mano che cerca la verità. Prova d’Autore e Lunarionuovo non smettono di cogliere le sfide che il tempo e la storia sottopongono all’arte di Euterpe.
Giulia Sottile
[1] “Con le linee e i colori uno può realizzare disegni, ma se uno non usa le parole in accordo con il loro significato esse non sono affatto parole”. Hobhouse Janet (1989), Everybody who was anybody. A biography of Gertrude Stein, cit. da Gutkowski, I primi passi di Gertrude Stein. Three lives: uno studio di letteratura comparata, 2004, Franco Angeli, Milano.