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… continua da Lunarionuovo n.89 (prima puntata)

Voci nuove della poesia in Sicilia

seconda puntata

(…) Ma le scritture della Maiolo sono anche lo spazio del dialogo con la propria terra, in un continuo battibecco fatto d’amore e odio. L’interlocutore è a volte la città, altre l’isola. «Catania è così bella e ruvida qui», colta nell’attimo dell’incontro fugace con una realtà che si sa già si dovrà presto lasciare, in una «vita mercuriale», perché «vivere in una sola città è prigione. (…) Quando vivo a lungo in un luogo divento cieca». Più avanti palesa il rapporto conflittuale con Catania quando afferma di non sapere se amarla o soffrirla, salvo apparirle in sogno quando sta via per più di una settimana. Catania «è una bambina vecchia (…) è la guerra. Si affaccia sui monti e sbuca sopra i tetti (…) è rossa ed enorme, come un sole impazzito che torna dal buio e fa irruzione nella notte (…) è codarda (…) è una squallida anticamera». In un succedersi di definizione, emerge una città sparsa ovunque, astratta perché non rappresentata dalla materialità dei suoi palazzi ma dal suo stesso spirito. Anche l’Etna viene personificata più avanti, nell’atto di levare il capo, «cinta di rossi riccioli». Il sole e il mare vengono paragonati a petali di fiori e tutta la Sicilia sembra un giardino fiorito nella sua aria più spensierata, una delle sue mille facce.

Volto diverso assume il canto di Maria Bucolo alla propria terra, canto che è un’ode. Fine letterata, tra le altre cose ex-allieva di Pietro Gibellini, discepolo di Maria Corti, la poetessa si concede un tu-per-tu con gli elementi della natura e principalmente il mare, da isolana nativa di località costiera. Un esempio di sintesi ed efficacia espressiva è la lirica “Ionio”, «mare di tarde / ore (…) sotto avvicendarsi di / stelle // t’addensi e vai a / scurire», con enjambement che vogliono intensificare la lapidarietà delle singole parole. Ma restando sui temi, il mare e gli elementi della natura tornano protagonisti in “Pesca” in cui questa volta l’attenzione è focalizzata sui frammenti di un insieme, quasi lo si volesse scomporre in un quadro cubista per decifrarne il senso solo alla fine e guardandolo da debita distanza. Così il mare è qui rappresentato dal «brontolio di costa», dalle reti e dagli aghi, da un guizzo di coda (o meglio, «di coda / un / guizzo»). Non potevano mancare omaggi alle due “città del cuore” rispettivamente luoghi della sua infanzia e della formazione universitaria, Taormina e Venezia, la prima arroccata sul mare, quasi aggrappata, perla nera; la seconda immersa in un «languore marcio / in ondular d’acque / malate».

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Il tema del rapporto con la propria terra si traduce in altri Autori nel rapporto con la propria civiltà, anch’essa dalle molteplici facce e dalle conflittuali implicazioni. La critica sociale emerge nelle poesie di Mario Condorelli, una critica dalle tinte satiriche, ricca di allegorie. Un esempio efficace ne è “Circo di periferia”, in cui il poeta, «ratto nel tumulto di ratti / su note di zufolo e favole scritte», nel frastuono della quotidianità pregna di menzogne, assordanti come «una marcetta di piatti», cerca uno sprazzo di verità ai margini delle cose, lontano dall’omologazione della banda, «tra l’ombre di palazzi di piombo, / incornati d’antenne». Compare una sfilata di personaggi, la strega che «adesca» il futuro e «lo pianta su un mazzo di carte», buffoni, equilibristi. Il circo così si presta a doppia interpretazione: quella controcultura che si contrappone, nella sua emarginazione, all’ordinarietà del vivere, incarnazione del barlume di resistenza a essa che sopravvive in ognuno di noi; oppure esso stesso ciò a cui contrapporsi, specchio della vita vera amplificata nei suoi tratti ridicoli, grotteschi, atti a mostrare quale show di fenomeni da baraccone è stato messo in piedi per noi. E anche l’apparente intruso, l’elemento di dissonanza rispetto al tutto (la colomba dal cappello del mago?), può prestarsi a duplice senso: ciò che ha il compito di destare stupore per sedare, oppure ciò che va scovato e tenuto in vita?

Anche per Massimiliano Di Paola la propria civiltà ha del grottesco, ma lo rende col proprio stile, che non vuole divertirsi o divertire. Nella nota critica si è accennato ai “monologhi autolesivi”. Di Paola comincia con l’invocare lo spirito di Walt Whitman, invitato a vedere attraverso i suoi occhi il mondo nuovo del «rinascimento elettronico», in cui, in atmosfere onirico-surreali, i galeoni salpano verso la luna abbandonando «le grigie sponde / di una fiaba perduta» e l’Autore dà via la propria stella per un gallone di vino rosso. Anche la luna è colpevole, personificata in una «puttanella» dalle calze a rete, una magia nera che vanifica gli sforzi, una «vecchia sgualdrina d’avorio». Ma il segno del disfacimento appare anche in strada, a conclusione delle tante serate trascorse a far baldoria, quando non resta che immondizia: «le strade rigurgitano le bottiglie / cicche di sigaretta / e membra umane, / radi fantasmi in cerca di casa, / i gatti si radunano sotto l’ombra delle streghe, / presto spalancheranno le loro fauci / alle generazioni in festa, / sulla terra di nessuno». Più avanti auto scintillanti sono parcheggiate ai margini di campi minati «e si verserà champagne avvelenato / sulle buche di granata / della nostra epoca bella, / la città si sveglia / dentro coperte sudate e sogni irrequieti, / della festa non c’è altro / che fetore di carne e tabacco / e scellerato rum, / la città si trascina nel postumo di sbornia (…) nella pozza vischiosa del tradimento dei suoi padri». È critica anche in “Il cerusico e la terra grigia”, in cui la stessa scienza fautrice del progresso si rende complice della negazione della vita. Il cerusico becca sulla porta come farebbe un uccello del malaugurio e balla con la peste, i girasoli sono neri, il villaggio è infetto, la strada stessa si fa grigia e gonfia di pus, malata, e il cerusico vaga in cerca di porte cadenti e finestre sbarrate per «infilare il becco / nella morte degli altri», da sciacallo.

In Nicolosi Fazio la critica appare nella sua versione onirica, improntata su temi quali la fratellanza, il viaggio, la casa, proponendo una lettura della storia delle civiltà a partire da quella degli uccelli, scritta in anni (il componimento “Migranti” risale al 2006) in cui le polemiche sul fenomeno migratorio non erano ancora accese come oggi, né si prestavano a strumentalizzazioni politiche nella misura in cui lo fanno oggi. Invocando la necessità di una «alta vision / d’insieme» della storia e della cultura del genere umano, Nicolosi Fazio inizia col dar spazio al grande mistero che è la capacità degli uccelli di tracciare e ripercorrere sempre le loro rotte, da creature col più spiccato senso dell’orientamento, quasi correlassero al proprio cuore, ci dice l’Autore, l’asse terrestre. Come in un sogno ripercorre a velocità la storia geologica a ritroso, giungendo all’epoca della Pangea quale fulcro a partire dal quale, come nella prospettiva, gli elementi dell’insieme seguono proprie e autonome logiche man mano che si distanziano l’un l’altro. «E nei milioni d’anni / l’allontanarsi / delle terre / e nel chiamarsi contrade / costringere / a seppur lievi / crescenti allungamenti / i nuovi voli. // Terra / quella che per ultimi / ci accolse / oggi e sempre / unita / da stormi in cielo». E, ripercorrendo allora in avanti la storia dell’uomo giunge ad oggi, a un paese ricco che fugge ancora «la povertà dei nonni». Nelle agili ellissi, ricorda come il viaggio e i suoi moventi siano universali, manca solo il prendere esempio dagli uccelli: nelle grandi torme, il cielo non ha mai visto uno scontro, «ognuno / ha la sua rotta / e la stagione esatta / è già nel nostro sangue / odierna soluzione». In altro componimento, l’oggetto nel mirino cambia, per divenire, con impegno ambientalista, l’aggressione dell’uomo alla terra a partire dalla progettazione degli edifici in blocchi di cemento armato. L’immagine potente dei «nervi delle case, barre d’acciaio» pronti a immolarsi in silenzio sotto una colata di cemento fa tristemente pensare a una delle pratiche care a Cosa Nostra al momento di far fuori un indesiderato.

E giungiamo infine alla particolare critica di Claudia Russo, insoddisfatta dell’epoca stessa in cui vive, che deve scegliere tra il soffocare se stessa, come «l’albero che strozza le fronde», e lo scagliarsi contro il mondo, a volte con rabbia, altre volte con nera ironia che non risparmia nessuno, neppure i poeti più amati. Tra le identificazioni negli impulsi autodistruttivi e le prese di distanza, rende i propri omaggi ad Alda Merini, Pablo Neruda, Virginia Woolf, Emily Dickinson. Emerge la compassione per le storie più tristi dal momento che l’Autrice stessa malinconicamente s’accorge di quanto sporco sia il mondo. «Guarda il bel fiore della modernità / c’è la ghirlanda di nessuno», e più avanti «vorrei trovarmi in un campo d’erba / ma sono circondata dal moderno». Eppure «Fai una tragedia camminando sulla terra / perché non contieni la sparizione del tuo regno», ma Claudia Russo un regno ce l’ha ed è quello della letteratura, dei libri in cui tuffarsi per vivervi dentro quasi da personaggio insieme agli altri, relazionandosi con gli scrittori del passato come fossero la propria famiglia, i propri amici, in una sorta di “collegio invisibile” in cui sia possibile studiare e crescere insieme. Le parole sono la personale risorsa, «le bocche hanno tentacoli», eppure la contaminazione della purezza, con lo sconforto della vacuità, non risparmia neppure la Poesia: «Nessuno sei tu. / Debole poeta che scrivi / seduto sopra la pietra…/ E con lui più pietre, / più poeti / con l’orecchio verso la terra / legati da un’amicizia che sembra / sempiterna / Coloro che camminano sotto il mondo / e sotto le dita parlano una lingua / severa ed ironica». Sono forse programmatici della Poesia stessa questi versi, come codice espressivo, a cui aggiungere ciò che dirà più avanti con «Non temete una bocca reticente / Il moderno vi ha abituati / a non avere pazienza / A voler guardare le terre emerse / A non curarvi mai delle acque scure e terribili». Ed è forse per questo, aggiungiamo noi, che la gente non sa più cosa sia la poesia come genere letterario e non riesca a distinguerlo dai “tentativi” di poesia.

Giulia Sottile

Continua nel prossimo numero con la terza e ultima puntata…

Giulia Letizia Sottile

Giulia Sottile è nata e vive a Catania, dove ha compiuto gli studi e ha conseguito la maturità classica. Laureata in Psicologia e abilitata alla professione di psicologo, non ha mai abbandonato l’impegno in ambito letterario. Ha esordito nella narrativa nel 2013 con la silloge di racconti intitolata “Albero di mele” (ed. Prova d'Autore, con prefazione di Mario Grasso). Seguono il racconto in formato mini “Xocò-atl”, in omaggio al cioccolato di Modica; il saggio di psicologia “Il fallimento adottivo: cause, conseguenze, prevenzione” (2014); le poesie di “Per non scavalcare il cielo” (2016, con prefazione di Laura Rizzo); il romanzo “Es-Glasnost” (2017, con prefazione di Angelo Maugeri). Sue poesie sono state accolte in antologie nazionali tra cui “PanePoesia” (2015, New Press Edizioni, a cura di V. Guarracino e M. Molteni) e “Il fiore della poesia italiana. Tomo II – I contemporanei” (2016, edizioni puntoacapo, a cura di M. Ferrari, V. Guarracino, E. Spano), oltre che nell’iniziativa tutta siciliana di “POETI IN e DI SICILIA. Crestomazia di opere letterarie edite e inedite tra fine secolo e primi decenni del terzo millennio” (2018, ed. Prova d’Autore). Recentissimo il saggio a orientamento psicoanalitico intitolato “Sul confine: il personaggio e la poesia di Alda Merini” (2018). Ha partecipato a diverse opere collettanee di saggistica con contributi critici, tra cui “Su Pietro Barcellona, ovvero Riverberi del meno” (2015) e, di recente, “Altro su Sciascia” (2019). Dal 2014 ricopre la carica elettiva di presidente coordinatore del gruppo C.I.A.I. (Convergenze Intellettuali e Artistiche Italiane); dal 2015 è condirettore, con Mario Grasso, della rivista di rassegna letteraria on-line Lunarionuovo. Collabora con la pagina culturale del quotidiano La Sicilia.