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LA CARTIERA DEL PRINCIPE, NUOVO DENSO CAPITOLO DELLA AVVINCENTE NARRATIVA DI GIUSEPPE DIGIACOMO

Non posso, giusto al momento di invitare alla lettura di un bel libro che mi ha allietato e divertito (La cartiera del principe di Giuseppe Digiacomo) dissertare su antipatie e simpatie umane. Ma solo un cenno mi sia consentito verso le occasioni che tra rimozione e rifiuto della memoria mi inducono persino a non essere completamente amico di persone che non amino lo scherzo, l’ironia, il gioco. Il lettore potrà chiedersi cosa nasconda d’importante tale “cappello” alla segnalazione di un libro di cui si elogia in partenza il valore che procura in salutari emozioni, come quello di Giuseppe Digiacomo. E rispondendo avrò sinceramente detto perché.

Conosco Giuseppe Digiacomo da quando frequentava l’Università. Ci sono stati momenti di frequentazione cordiali e periodi in cui gli impegni di ciascuno di noi ha fatto diradare il rivederci. Ma a ogni nuovo incontro, anche se dopo anni, ci siamo ritrovati come se ci fossimo lasciati la sera prima. Sarà la carica di schietta umanità che caratterizza il soggetto. E anche la signorilità che lo contraddistingue. Ma quello che in ambito letterario mi lega profondamente all’amico poeta e narratore fin dai giorni in cui in una plaquette di sue poesie edite da Sciascia scriveva di un certo caffè amaro, di cui si attribuiva la responsabilità della preparazione, a quelli meno remoti del “Caso Riina”, Io non sono il boss (1993), la cui grandiosa metafora veste di impareggiabile e serio divertimento le pagine, al recente Pettine Bello (2017), vero scrigno di occasioni squisitamente letterarie e da scaffale alto, è stato un crescendo di occasioni per empatizzare con l’amico narratore e poeta.

Un crescendo che l’Autore ha accompagnato da altrettante edizioni di poesia, un binario di testimonianze letterarie che gli fanno meritare certa primazia di artista e un posto di solidi meriti nella storia delle letteratura italiana di autori siciliani. Quest’ultima degli autori siciliani e della letteratura nazionale, mi ingegno a ripeterla come locuzione didascalica contro il vezzo frequente di leggere “Letteratura siciliana”, quasi la lingua di comunicazione nazionale sia quella della nostra isola. Ma non divago con impertinenze e riprendo il discorso su Giuseppe Digiacomo e sue primazie di poeta e narratore. Questo suo nuovo libro di luoghi, personaggi e vizi capitali allo specchio, La Cartiera del principe, pagg. 171, € 18,00 – edizioni Archilibri, 2019) muove apparentemente sulle orme di Pettine Bello per affondare i denti dell’attrezzo del rimpianto dei calvi, in un vasto ambito che coglie ora dalle cronache pregresse e attuali, ora dalla storia ora tra costume e pensiero. Ma attenzione: tra le pagina delle avvincenti narrazioni il Digiacomo infiora di deduzioni e rilievi sulla realtà sociale, sul farsi storia cui si destina ogni piccola cronaca, e lo fa con levità magistrale, come se il richiamo gli fosse sfuggito nel momento di scrivere. Cito un solo esempio da pagina 18:

Il principe e alcuni del suo rango, avevano capito, con un secolo di ritardo rispetto all’Inghilterra, che se non volevano finire alla fame, non dovevano rimanere ulteriormente a bocca aperta ad ammuccari passuluni”.

In questa valutazione storica sul costume di certa classe “patrizia” del secolo scorso c’è la sintesi di un capitolo di realtà italiana tra costume ed economia. A parte il magistrale sigillo retorico in siciliano con il figurale ammuccari passuluni. E va bene.

Ma il divertimento, il gioco serio, è continuo tra una sezione e l’altra, indipendenti e imprevedibili nei contenuti immancabilmente infiorati da stilemi e voci dialettali che di volta in volta potenziano di ulteriori significati l’assunto precedente.

Né il lettore potrà dire di non essere stato avvisato a priori circa le brillanti peripezie ora ironiche, ora sarcastiche, che lo avrebbero accompagnato lungo le pagine; infatti Digiacomo, tra letterarie e salutari autodissacrazioni ed esilaranti incastri linguistici, riversa a piene mani in brevi spazi tutto un significativo preludio che sostituisce prefazione altrui a vantaggio di un fai-da-te che stabilisce immediata confidenza con il lettore.

E andiamo a volo di rondine al resoconto della mia doppia lettura. Inizio col dire sui Sette vizi capitali, nella parte prima, trovata che vale un premio in esclusiva. Ma, attenzione c’è una armonia tra le parti, e la Parte seconda del divertimento serio del Digiacomo (e goduria del lettore) che conduce per mano in una realtà per nulla ha da invidiare meno di quella dei sette universali della Prima. Per non dire della doccia calda di Samarra, nella quale il dialogo nel finale con l’odiosa implacabile, e la sottile allusione (probabile) al Proust del “Tempo perduto” (secondo me, si badi) con la locuzione a mo’ di sottotitolo: “Elegia degli scecchi perduti”, giunge per il lettore con significativa nota che licenzia (prima di licenziare, perché il divertimento continua anche la delizia di un dizionario per quanto di lingua dialettale siciliana fa da detonatore fono-semantico lungo tutta la variegata tavolozza letteraria digiacomiana), giunge come i proverbiali colpi di coda.

Un pensiero a parte si dovrà dedicare infatti alle voci in corsivo nel contesto rispetto al testo, una miniera di significanti per ulteriore delizia di questo bell’esempio di letteratura che Pippo Digiacomo ci ha ancora una volta consegnato come momento di un percorso in crescendo, ammesso che mai ci siano stati momenti privi di una loro maturità autentica. Uno scrittore, Giuseppe Digiacomo, che non fa il verso ad alcuno e che occupa già un posto distinto tra i narratori siciliani del genere caro al Francesco Lanza de I mimi, anche se la originalità del Di Giacomo, persino rispetto a quanto di opere narrative ha lasciato il di lui padre Nunzio, esige l’onestà che merita ogni voce nuova, a sé stante, forte di un complesso universo di contenuti cui lo scrittore e la sua indole creativa imprime un magico andante di aere perennius a testimonianza del valore della letteratura come vita del mortale immortale che è l’uomo, ogni uomo, con i suoi vizi e le sue virtù.

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LA LIBRERIA DELL’ALCHIMISTA

Entrano dallo spazio aperto sull’infinito della mia finestra note musicali e canto di una voce a me da sempre nota e fraternamente amica. È la voce del cantautore Francesco Foti e, le note, quelle del suo nuovo singolo: La libreria dell’Alchimista.

Conosco Francesco Foti, direi da sempre e comunque fin da quando mi è stato presentato da altro sodale “veterano”, Vladimir Di Prima, questi, già allora promettente scrittore che avrebbe mantenuto le promesse del suo ingegno. Confesso di non aver smesso in quegli anni di esortare entrambi a uscire dall’Isola del fuoco e delle arance. Uscire perché nessuno dei due presentava segni di aspirazione a essere pompiere (perdonatemi, volevo dire vigile del fuoco) o commerciante di agrumi. Di Prima si sarebbe laureato in giurisprudenza e subito dopo specializzato in criminologia, senza per questo smettere di pubblicare provocazioni linguistiche e contenutistiche in romanzi e racconti, mentre Foti, dedito alla poesia e alla musica, mandava in onda il suo “Uomo nero”, singolo del suo brillante e promettente esordio. E aggiungeva alla musica certo recupero di voci e locuzioni significanti del dialetto etneo in edizioni che continuano ad avere successo.

Ma il successo di Francesco Foti, almeno quello che può rispondere alla sua genialità di cantante e di autore, cioè di poeta e di musicista, non è tuttavia quello a cui lo attendiamo noi amici, che ci dobbiamo accontentare di quanto gli viene concesso da una congerie di combinazioni socio-culturali che, esse sì, operano in Italia personificate in “commercianti d’ingegni e genialità musicali”, all’ombra di una realtà che sarebbe difficile descrivere nella sua ragnatela di promissioni promozioni e compromissioni. Resta la evidenza e la insistenza del valore di Foti, momento inconfutabile per converso di altrettanta realtà politico-sociale, le cui manifestazioni sintomatiche risalgono, per la Sicilia e i siciliani, ai tempi di “Forza Etna”, e si manifestano ancora attraverso le locandine torinesi che avvertono “Non si affitta a siciliani” e continuano baldanzosi escludendo dai commenti mattutini praticati da tutti i network nazionali, qualsiasi citazione di alcuno dei tre quotidiani siciliani.

Foti, evidentemente, non si è mai crucciato per la limitata incisività dei suoi successi, prova ne sia il crescendo del proprio impegno, dal citato Uomo Nero a Tan Tan Tan, Renzo il torbido e l’attuale La libreria dell’alchimista. Il suo è un temperamento di artista che si manifesta con la spontaneità di una eruzione vulcanica, vorrei dire di una necessità subliminale-biologica che crea ex novo, salvo poi ad applicare quanto tecnica e oscillazione del gusto personale c’è da aggiungere al momento di rendere pubblico il diagramma privato del proprio “sentire” interiore.

Il sodalizio con Vladimir Di Prima, Foti lo mantiene intatto con spontanea misura come in tutte le sue scelte umane e culturali. Ma, Di Prima ha persino riposto in un cassetto – cassetto subito chiuso senza più voler ricordare dove abbia nascosto la chiave – sia la sua laurea magistrale in legge sia la sua specializzazione in criminologia, dedito alle scritture creative e all’arte del regista continua a proseguire tra brillanti momenti di romanzi, poesie e professionista ammirevole di quella libertà artistica morale e di vita che ricorda il titolo di un’opera letteraria di successo di anni passati: infatti Vladimir va dove lo porta il cuore. E merita davvero gli applausi che vengono tributati ai veri artisti.

L’odore di prodotti galenici cui si destina professionalmente il dottore farmacista Francesco Foti sarà pur esso una realtà, ma il nostro timore è che l’occhio abituato al gioco delle armonie con le sette note possa indurlo a leggere nelle ricette dei medici le “recondite armonie” che fin da bambino frullano, mai placate, nella sua indole creativa di musicista e di poeta, o che farmacopea-oblige si disinibisca a cantare strofe del suo nuovo “La libreria dell’alchimista” annaspando tra uno scaffale e l’altro delle teche con i medicinali. Ovviamente non è quest’ultimo il mio augurio e quello dei suoi tanti amici e fans, perché dal successo di questo nuovo singolo siamo propensi a riconoscerlo meglio nel ritmo delle sue creazioni musicali e nell’inconfondibile e avvincente timbro della sua voce, senza più essere ingannati dall’odore di farmacia e figura di professionista in camice con distintivo di categoria.

Chiudo ricollegandomi ai suggerimenti che davo ai due geniali e generosi Amici, di uscire dall’Isola. Loro avrebbero potuto contestarmi l’incoerenza del pulpito da cui proveniva la predica. Ma i giorni dei miei venti e trenta anni sono stati da me vissuti avendo per dimora carlinghe di aerei e vagoni ferroviari. Ma erano tempi diversi. Dopo internet il mio discorso non è più valido come prima. Forse non sarebbe stato valido nemmeno di per sé. Tuttavia qualche sospetto resta e non potrei lealmente dire a favore di quale tesi o proposito. Certo, i meati venefici del suolo della provincia che costringono a creare continuamente anticorpi per sopravvivere, non sono un invito a restare per assorbirli. Poi si scopre che tutto è provincia, anche dove l’immaginazione aveva potuto avere sopravvento sull’esperienza. E allora meglio restare dove la necessità quotidiana del creare anticorpi può persino costituire un esempio, per micronico che sia, che serva da modello a chi aggiunge e professa il coraggio di poter dire a se stesso: omnia mea mecum porto.

 Mario Grasso

Mario Grasso

Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica, ha fondato e dirige Lunarionuovo, è direttore letterario di Prova d’Autore nel cui sito (www.provadautore.it) pubblica un suo EBDOMADARIO (lettere a personalità e personaggi); dal 1992 collabora al quotidiano La Sicilia con la rubrica settimanale “Vocabolario”, i cui scritti sono stati raccolti nel Saggilemmario, di recente pubblicazione. Nato a Acireale, ha residenza anagrafica a Catania; viaggia spesso per il mondo. Il sito personale dello scrittore è www.mariograssoscrittore.it