Al momento stai visualizzando Itinerario cinematografico tra luoghi e solitudini. Da “Il deserto rosso” a “Le sorelle Macaluso” (1)

Il lavoro, nato quasi per caso, incrocia la costruzione dell’identità attraverso la costruzione dell’ambiente in cui ogni identità sceglie di vivere. Dall’utilizzo dei film come strumento formativo dei tirocini, e dalla riscoperta della casa durante lo scorso lockdown, sono scaturite una serie di riflessioni sul meccanismo della dissociazione e di come questa si riveli negli ambienti domestici. Abbiamo deciso di scrivere il percorso fatto perché convinti del fatto i pensieri, anche quelli meno importanti, devono sostare, non soltanto apparire e poi scomparire.

INTRODUZIONE

“…Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me?
Ehi con chi stai parlando?
Dici a me? Non ci sono che io qui!
Ehi… ma con chi credi di parlare…”

Questo il breve dialogo tra Travis e la sua immagine allo specchio che consegna Robert De Niro alla storia del cinema come uno tra i più grandi interpreti dell’alienazione, della follia.

TAXI DRIVER, SCORSESE, 1976

Travis abita in un piccolo monovano costituito da muri grezzi senza intonaco né pittura ma con evidenti crepe che, immediatamente, introduce lo spettatore alla vulnerabilità e alla fragilità del protagonista, privo di difese adattive: in assenza dell’Io saldamente ancorato alla realtà, i pensieri del nostro eroe sono organizzati da un Super-Io rigido e persecutorio che odia il mondo, New York. Il pavimento, composto da parti esteticamente discordanti, e con diversi rattoppi, sembra frammentato come il suo Io.

Travis è stato un Marine americano che ha prestato servizio in Vietnam, esperienza ancora tanto viva dentro sé stesso da riproporla nel suo quotidiano. Il monolocale in cui abita, infatti, è arredato quasi come camerata militare.

Nato per essere solo, cerca uno scopo nella vita che troverà di lì a poco nell’allestimento di una fantasia finalizzata all’eliminazione dello sporco intorno e dentro di lui. Nell’attesa di compiere la sua vendetta eroica, pianifica l’azione, si allena giorno dopo giorno fino ad assumere un nuovo aspetto. Si compiace di riscoprirsi diverso, forte, armato e guardandosi avvia una conversazione tra lo specchio e la maschera che lo fa sentire finalmente vivo. Come scrive Bromberg (2007): “…Quando questo riesce, il risultato è esaltante; quando fallisce vi è noia, angoscia, risentimento e senso di vuoto […] il sentimento di esistere momento per momento ha poca rilevanza se non come preparazione per il momento successivo”, ovvero il momento in cui Travis immagina di rivedere Betsy.

Costretto a vivere in un risicato pezzo di mondo, Travis si muove tra la fantasticheria e il quasi niente intorno, tra l’asfittica stanza e la notte. L’unica persona a cui è concesso visitare la sua casa è lo spettatore, che difficilmente può fare a meno di notare il disordine, le lattine vuote, i resti di cibo e le cartacce sparse. Lontano dagli altri, chiuso in una gabbia di pensieri fatta di rancore, rabbia e risentimento, scandisce il tempo attraverso una sorta di diario che lo separa dalla realizzazione del desiderio (o di un breakdown psicotico), dal bisogno di assurgere a eroe fuori dal taxi, dal cinema a luci rosse. Per sentirsi vivo lì dove vive.

 

Esiste una stretta relazione tra la qualità del mondo interno dell’individuo e la qualità relazionale che questi instaura con gli oggetti del suo ambiente. Ogni persona organizza e costruisce lo spazio fisico intorno a sé stesso così come costruisce quello psichico dentro di sé, strutturando distanze e confini, o confondendo aree, o stanze, in cui è facile non ritrovare più quello di cui si ha bisogno. Il rischio di confondersi, per poi farsi trascinare dal caos è alto.

Ogni individuo si muove all’interno della propria casa con lo stesso agio con cui ogni mente si muove nel proprio corpo.

Ci proponiamo con questo lavoro di offrire una sintetica retrospettiva di alcuni personaggi della filmografia contemporanea che, a nostro parere, meglio rappresentano la condizione di alienazione: Travis, Theodore, Lars, Giuliana e altri. Parleremo anche delle loro case e dei loro rifugi per evidenziarne le funzioni e le qualità strutturali qui intese come proiezioni di una realtà interna organizzata dissociativamente dove riporre contenuti non elaborabili.

Abbiamo deciso di guardare dentro le loro case per osservare i luoghi dove è cresciuta l’alienazione ed è maturato il disagio per poi tratteggiare, laddove ci riusciremo, l’incapacità dei nostri protagonisti a relazionarsi con l’ambiente, con le loro case, spazi primari ed elettivi nella costituzione dei legami.

 

QUALCOSA È CAMBIATO (Brooks, 1997)

Jack Nicholson al suo terzo Oscar, interpreta il ruolo di uno scrittore misantropo, razzista e ossessivo che odia gli ebrei, i neri, gli omosessuali e tra questi il suo vicino di casa al quale intima, perentoriamente, di non bussare mai alla sua porta. La casa di Melvin é anche il suo studio, ordinato secondo modalità rigide, ossessive: bella e perfetta ma chiusa come un fortino a difesa di un presunto, quanto imminente, attacco di selvaggi che, nascosti dietro l’angolo, la possano sporcare e contaminare solo attraversandone la soglia. Per Melvin è intollerabile l’idea che un estraneo possa toccare anche uno solo dei suoi oggetti perché ciò significherebbe sentirsi esso stesso toccato.

Il suo bisogno di controllo della tanto temuta quanto desiderata affettività (o bisogno di contatto), gli impone l’esercizio di un continuo distacco dall’altro (da ciò il bisogno di controllo degli oggetti della casa) ad un livello odiato ma ad un altro, più inconscio, invidiato poiché portatore di bisogni di contatto, dolcezza, tenerezza. Per controllare queste spinte, Melvin si impone uno stile di vita e di relazione dittatoriale, attraverso la strutturazione di un Super Io feroce e implacabile, tanto con sé stesso quanto con gli altri. E ciò, ovviamente, anche con la sua casa: il sapone va usato solo una volta, poi si butta.

 

SUL CONCETTO DI ALIENAZIONE

L’origine del concetto di alienazione risale ai tempi dei profeti del monoteismo e alle loro “battaglie” contro religioni definite pagane e idolatre. Mentre nel monoteismo Dio è indefinibile e l’uomo, in quanto creato a Sua somiglianza, è portatore di qualità infinite, nel politeismo il pagano si impegna a costruire un idolo che diventa oggetto di adorazione a cui sottomettersi. Pertanto, non è più una sua creazione ma diventa una “cosa” separata e superiore a lui: “l’uomo idolatra si inchina davanti al lavoro delle sue stesse mani. L’idolo rappresenta le sue stesse forze vitali in forma alienata” (Fromm, 1960).

È nell’Ottocento che il concetto di alienazione viene ripreso dai filosofi per meglio comprendere i processi di industrializzazione della società e la ricaduta nell’individuo.

Hegel utilizza i concetti di Entäusserung e Entfremdung: il primo corrisponde alla “negazione determinata”, ovvero al farsi altro, all’estraneazione del sé che si proietta al di fuori per poi ricongiungersi e ritornare in sé; il secondo corrisponde alla “negazione astratta”, ovvero a quel cambiamento radicale che comporta l’estraneazione del sé, senza ritornare in se stessi (Hegel, 1863).

Marx intorno alla metà del diciannovesimo secolo, in riferimento alla posizione del proletariato, afferma che “la classe borghese e la classe del proletariato presentano la stessa alienazione umana” (Marx, 1883). Mentre per la prima classe l’auto-alienazione diviene strumento di potenza e conferma, per la seconda diventa strumento di impotenza e di inumanizzazione diventando essa stessa mezzo e causa di annientamento.  Intuendo il meccanismo economico interno alla società borghese moderna e le contraddizioni del sistema capitalistico, Marx sposta il vertice delle riflessioni sulla classe proletaria che diventa il nuovo soggetto che, in quanto tale, corre il rischio di rendersi essa stessa alienata dal processo lavorativo.

Successivamente, Paul-Michel Foucault, tra gli anni ‘60 e ‘80, riprendendo il paradigma della moderna società capitalistica e il concetto di alienazione, ridefinisce  quest’ultimo aggiungendo una valenza psicologica, in quanto: “Non si è alienati perché si è malati ma si è malati perché si è alienati”, poiché il  disagio  non si esprime soltanto a livello individuale ma occorre, altresì,  cercare nel sociale la chiave per la comprensione di “un’alienazione nella quale l’uomo perde ciò che vi è di più umano in lui”. Di conseguenza, l’uomo alienato sperimenta un precario senso dell’individualità da cui ne derivano relazioni superficiali (Foucault, 1963).

Erich Fromm, influenzato in particolar modo dal pensiero di Marx e in continuità con Foucault, descrive uno scenario contemporaneo in cui l’uomo vive alienato dal mondo, dagli altri, dalle cose che ha creato e, in ultima istanza, da sé stesso. Egli definisce l’alienazione come “una forma di esperienza per la quale la persona conosce sé stessa come uno straniero. […] Non riconosce sé stesso come il centro del suo mondo, come creatore dei suoi propri atti ma sono questi e le loro conseguenze ad essere diventati i suoi padroni. […] La persona alienata ha perduto contatto con sé stessa, così come è anche esclusa dal contatto con ogni altra persona”.

L’uomo alienato, terrorizzato dall’affrontare il senso di nullità che emerge nel momento in cui si confronta con sé stesso, nutre un profondo desiderio di accoglienza da parte della comunità.

Tuttavia, la difficoltà ad accettare sé stesso, che deriva dal percepirsi straniero, lo porta a dubitare delle proprie capacità di inserimento nella comunità: da ciò la scelta a cercare un rassicurante senso di identità nel conformismo, annullando, in tal modo, le differenze tra sé stesso e gli altri e aumentando le probabilità di essere accolto nel gruppo (Fromm, 1960).

Tale esperienza provoca, nell’uomo alienato, “un senso di disagio e di inadeguatezza al pensiero di essere differente”. Inoltre, dal momento che l’uomo non è un automa ed è incapace di evitare la devianza, avverte un costante timore di disapprovazione: “la persona alienata si sente inferiore quando teme di non essere pari agli altri. Poiché il suo senso del valore è basato sull’approvazione come ricompensa per il conformismo, si sente naturalmente minacciato nel suo senso dell’Io e nella stima di sé stesso da qualsiasi sentimento, pensiero o azione che potrebbe passare per una deviazione. […] Non è la voce della sua coscienza che gli dà forza e sicurezza, bensì il sentimento di non aver perduto lo stretto contatto con il gregge”. Il risultato è un uomo vinto e deprivato della propria individualità.

 

da FIGHT CLUB (Fincher, 1999)

1999. “Anche io ero diventato schiavo della tendenza al nido ikea. […] Sfogliavo quei cataloghi e mi domandavo ‘quale tipo di salotto mi caratterizza come persona?’” (Narratore in Fight Club).

L’uomo della modernità, così assorbito nel proprio lavoro e dedito allo svolgimento dei compiti quotidiani, vive una routine che da un lato gli consente di percepire il mondo solo nella banale apparenza e dall’altro gli impedisce di mantenere il contatto con gli aspetti fondamentali della sua esistenza. Ciò che emerge è un senso di realtà compromesso e la degradazione della ragione propria dell’essere umano. Di conseguenza, “essendo sordo alla voce della coscienza e possedendo intelligenza operativa ma poca ragione, egli è perplesso, inquieto e disposto ad installare in una posizione di capo chiunque gli offra una soluzione totale” (Fromm, 1960).

 

FANTOZZI (Salce, 1975)

1975. Per quanto i film su Fantozzi siano stati considerati come produzioni poco importanti, Paolo Villaggio, persona colta e attenta nei confronti delle problematiche sociali, tratteggia con grande precisione il rapporto del ragioniere Ugo Fantozzi con i suoi ambienti. In questo caso, riteniamo opportuno soffermarci non tanto sulla casa di Fantozzi quanto sugli uffici nei quali lavora e sulla relazione con il suo direttore. Spinto fino al paradosso, seppur in chiave comica, Ugo Fantozzi vive una condizione di profonda alienazione nei confronti dell’azienda: viene murato per 18 giorni nei bagni dell’azienda, senza che nessuno ne rilevi l’assenza. I rapporti con il potere ma anche con l’altro sono sempre soverchianti: il mega direttore sadico che si offre come portatore di un pensiero unico, sovrasta l’espressione dell’individuo e del gruppo: a lui è data la facoltà di avere uno studio mentre a Fantozzi è data la possibilità di una scrivania posta in una grande stanza insieme a tutti gli altri colleghi. L’impiegato, inibito e soffocato dall’altro, subisce ogni forma di sopruso, fino all’annullamento della sua soggettività. Triste ma vero, l’unico spazio dove il ragioniere trova espressione dei suoi bisogni sono i sogni ad occhi aperti, unico luogo dove poter immaginare di esprimere un desiderio.

 

DALL’ALIENAZIONE ALLA DISSOCIAZIONE

Il 900’ introduce una serie di riflessioni circa le relazioni esistenti tra massa e cambiamento e quella tra l’individuo e l’aggressività, ben evidente nelle maggiori opere degli artisti del tempo.

Pablo Picasso, Guernica, 1937, Parigi, Museo National Centro de Arte Reina Sofia

Possiamo affermare che, nel ventesimo secolo, la ripetizione di due conflitti mondiali viene immagazzinata nella memoria storica collettiva allo stesso modo di come la ripetizione di un trauma segna la storia personale di un individuo.

Il succedersi di due guerre mondiali nel volgere di 30 anni non poteva non lasciare nel mondo un senso di profonda angoscia rispetto alla domanda: “da dove provenisse tutto questo male e quali percorsi avrebbe intrapreso una volta venuto al mondo” (Freud, 1930).

Freud, in Disagio della civiltà del 1930, intuendo quanto stesse per accadere, ipotizza l’esistenza di una tendenza aggressiva di origine pulsionale e indipendente, Thanatos, che, nonostante Eros, ambisce al dominio del mondo e dà origine a relazioni intrise di odio.  Sulla base di pressioni sociali e individuali, entrambe le pulsioni partecipano alla costruzione di architetture sistemiche finalizzate alla costruzione del mondo, alla convivenza, al mantenimento del potere.  Possono venire a patti con le richieste della società, costruire percorsi di partecipazione democratica.

O cedere ancora alla distruzione se mal distribuite e soppesate.

Il ’900 lascia in eredità all’uomo la paura della guerra, della bomba atomica, l’ambivalenza nei confronti del progresso. Al concetto di nazione come madre patria, si sostituisce quello di matrigna da cui guardarsi se non rifuggire. All’investimento collettivo nei confronti della costruzione di grandi ideali si preferisce quello individuale verso il piccolo orto, ovvero di uno spazio dentro al quale sviluppare poche relazioni al riparo dalle pressanti e contraddittorie sollecitazioni sociali. Orto o rifugio se ci si riferisce alla costruzione di spazi interni alla mente dell’individuo dove ripararsi nel caso dello scoppio di un conflitto, che non si vuole sostenere, che non si può sostenere. Spostando le nostre riflessioni dal mondo fuori al mondo dentro, non possiamo non soffermarci sulla tendenza attuale alla costruzione di isole mentali, ovvero a una specifica dinamica mentale dell’individuo tendente all’incapsulamento di un fatto a cui non si vuole, per necessità e difesa, attribuire significato.  Isole di esperienze, tracce, traumi, spesso, rigorosamente custodite e   separate le une dalle altre nella mente che hanno il potente limite di soffocare lo sviluppo di un Sé autoriflessivo, cioè di una sorta di regia interna che muova i sensi, orienti la conoscenza in modo ordinato, che leghi persona, ambiente e realtà.

L’esperienza, in tal modo, viene circoscritta in porzioni di coscienza al servizio dell’isola che a loro volta promuovono un tipo di conoscenza fondata sulla parzialità. Si crea così un circuito di conoscenze parziali e dissociate che ritroviamo nel frequente disconoscimento della relazione circolare e sistemica esistente tra mente-soma, individuo-società.

“Il vivere separato da” è diventato un must. La dissociazione, una strategia.

La separazione tra dentro e fuori impedisce quell’avvio di scambi, di impasti pulsionali, prima ipotizzati da Freud, poi dalla Klein fino ad arrivare a Kernberg (1993), per i quali libido e aggressività diventano nel tempo, e nel loro intrecciarsi con l’esperienza, sistemi motivazionali gerarchicamente strutturati che, in base ai contesti e alle circostanze, possono costituirsi in molteplici disposizioni affettive e differenti. La complessità delle esperienze, e soprattutto l’affetto dominante che le contraddistingue, potrà dare vita a una serie di rapporti intrisi di amore, gratitudine o, di converso, fatti di rabbia e odio.

[continua nel prossimo numero…]

Anna La Rosa, dirigente psicologa ASP CT3
Barbara Farina, tirocinante psicologa
Mattia Mammone, tirocinante psicologo