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Sciascia non è comprensibile — e difatti spesso non è stato compreso —, se non è visto nel contesto generale della vita politica e morale del suo e di quello che fu il nostro tempo e se non è visto nel suo rapporto con la storia.

Non si può non riconoscere, alla luce della conoscenza che l’oggi ci fornisce, la straordina­ria lucidità delle sue analisi, e si può dire delle sue previsioni, cioè della sua capacità di rivelamento o disvelamento anticipatore delle direzioni e dei significati dei nuclei temporali presente-prossimo futuro che le ge­nerazioni della nostra epoca hanno vissuto. Il suo scrivere e il suo pensare furono segnati da una capacità di comprensione della realtà di tale profondità da poterne antivedere gli svolgimenti, gli effetti palesi delle premesse nascoste. Come lui stesso sa­peva, allorché annotava in una pagina di Cruciverba: «bisogna sempre sa­pere aspettare, tra realtà e poesia, che l’equa­zione si compia». Non apparirà singolare allora che lui stesso affermasse di credere nella capacità della letteratura di presentire la realtà. Si tratta veramente, come lui stesso sapeva e dichiarava, dell’attitudine conoscitiva del letterato o, direi, di un certo letterato (o del letterato in assoluto, di quello che davvero è tale): «E in conclusione: alla domanda di Pilato — «Che cosa è la verità?» — si sarebbe tentati di rispondere che è la letteratura». Così affermava nella Corda pazza. Un processo di interna chiarificazione di chi, nelle Parrocchie di Regalpetra, aveva definito la letteratura «un sistema di “og­getti eterni” […] un sistema solare». È un sapere metastorico che vuol servire alla storia. Tanto che si definiva «veggente», an­che se per correggere subito il termine con quello di «fantasma»: «Mi da il senso di aggi­rarmi nella realtà italiana non come un veg­gente, ma come un fantasma». È una confessione di Nero su nero.

Ma il mito classico non voleva sempre inascoltati i veggenti? E qui cadrebbe una riflessione sull’efficacia e l’utilità per la pratica del sapere dei veggenti. Quindi di quello dello stesso Sciascia. E il suo definirsi fantasma in profondo vuol dire della evanescenza del messaggio dell’intellettuale in un mondo che appariva sempre più notturno e irrazionale.

L’opera di Sciascia si dispiegò nella con­tinuità di una presenza come coscienza critica, fondata su una costante dì razionalità ed eticità, di fronte a trentacinque anni di storia italiana, dal 1954, quando nasce il primo nu­cleo delle Parrocchie di Regalpetra, come cro­naca di un anno di scuola, con cui si immisero nel panorama letterario italiano la novità del suo stile e la novità dei suoi temi, sino alla fine degli anni Ottanta. Un rappresentare che creò un nuovo orizzonte. Conoscemmo il nuovo modo di dire le cose di quella prosa costruita col suo sorprendente echeggiare una certa sintassi siciliana. E conoscemmo, i più giovani per la prima volta, una Sicilia  in cui, nei paesi di mafia, è impossibile avere giustizia proprio perché è stata chiesta a chi dovrebbe esserne garante.

Fu una storia fatta di grandi attese ed entusiasmi e slanci e di profonde e radicali delusioni. Un tempo che, nuovamente, quello dei nostri giorni ci induce a interrogare, per capire, per riconoscervi le condizioni radicali del guasto contemporaneo. Se questo vale per tutta l’Italia, vale forse ancor più per la Sicilia, di cui Sciascia è effettivamente l’analizzatore, l’inda­gatore, anche nel senso che la Sicilia è il mo­dello per la sua lettura della storia. Sono convinto da tempo che lo sguardo sul mondo angolato dalle periferie, se non smarri­sce il rapporto conoscitivo con la realtà e la cultura dei centri (la Sicilia vista da Parigi, direi, riconoscendo il simbolismo di una pagina dello stesso Sciascia, ancora di Nero su Nero), riesce ad essere il più acuto, perché può riconoscere meglio il tempo e il valore: il futuro a partire da un presente che è insieme passato, e il negativo del positivo o la negatività del positivo. Una cultura del con­fronto insomma. Il che però è consentito solo in tempi di interrelazione economica, come avviene a partire dall’affermazione del capitalismo maturo e dell’industrializ­zazione. E lo sarebbe ancor più nel pieno della globalizzazione. La scoperta del nega­tivo della civiltà nella nostra letteratura muove dal recanatese Leopardi e, passando per il veri­smo, giunge con significativa specificità, per rimanere nell’ambito della narrativa, ai maggiori scrittori siciliani del nostro tempo, da Vittorini a Brancati a Tomasi, Mario Grasso, Addamo, Bufalino e, naturalmente, Sciascia. Qualcosa in tal senso osservava lo stesso Sciascia di Nero su Nero. Non erano rappresentazioni positive le sue, improntate cioè a un prescritto ot­timismo di scuola: costituiscono infatti e lo scriveva lui stesso nella prefa­zione del ’67 alle Parrocchie, «come la storia di una continua sconfitta della ragione e di co­loro che nella scon­fitta furono personalmente travolti e annien­tati». Ma il significato essenziale sta nel fatto che anche nella sconfitta si possono affermare e stabilire principi e ideali. È quello che ci diede Sciascia in ogni suo scritto.

Le grandi crisi, come le grandi guerre, possono concludersi con l’aprirsi di nuove prospettive e di nuovi orizzonti o col ricadere nella ripetizione e quindi nella catastrofe. Sciascia oggi ci avrebbe certo fatto capire. Quasi certamente ci direbbe che un nuovo tempo potrà essere veramente nuovo, se cancellerà ogni legame col passato, anche il più nobile e liberatorio, se saprà guardare veramente al futuro. Come ci disse nel grande romanzo del 1979, Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia.

Sciascia oggi? Forse assieme a lui potremmo sognare un nuovo umanesimo. L’intellettuale di cultura umanistica oggi più che mai deve ritenersi impegnato al recupero di valori propri della più alta tradizione europea e italiana, valori che appaiono minacciati da più parti e per più ragioni. La disgregazione della società e il disorientamento delle coscienze minano l’esistenza e il futuro delle nuove generazioni. È da difendere la stessa tradizione umanistica, anche se questo non deve e non può significare un rifiuto pregiudiziale del mondo moderno e delle prospettive aperte dalla scienza e dalla tecnologia. Anche la scienza d’altronde può essere, ed è stata, ispirata da un progetto umanistico. Il compito appunto è quello di ridare sostanza umanistica al sapere, a tutti i saperi. E anche di ridare sostanza umanistica a tutta la nostra vita, dai comportamenti quotidiani alle grandi scelte.

Non siamo alla fine della storia, come qualche esternatore istituzionale crede di vedere e che non si capisce cosa sia, ma, come si diceva, siamo all’inizio di una nuova storia, che bisogna essere preparati a vivere e a capire. Con la consapevolezza che si debba saper affrontare il problema dell’«altro» e che ci si disponga a una cultura della «pluralità». E oggi si impone restaurare la dimensione autentica dell’uomo nel suo attraversamento del tempo, soggettivo e collettivo. Liberarlo dall’appiattimento nella dimensione disumanizzata di soggetto consumatore a cui potrebbe rischiare di essere ridotto. Anche se rischierà di essere sempre meno in grado di consumare. La cultura umanistica non può essere fuori dal mondo globalizzato, che è divenuto il nostro mondo, ma dentro questo deve cooperare alla maturazione della sua potenzialità progressiva, la crescita qualitativa contro quella quantitativa: l’universalizzazione dei suoi valori, che fu il «progetto della modernità». Anche se sta ai governi trovare e decidere le vie del riorientamento. Lo sapranno fare? Avranno la cultura per farlo?

Esiste poi un problema tipicamente e quasi esclusivamente italiano. Per il fatto stesso che in certi programmi politici è minacciata l’unità del paese, è anche, per immediato riflesso, compromessa la nostra cultura. Quella italiana è una cultura nata nella diversità e insieme unita da matrici e istanze comuni. Quanto di più ricco si possa immaginare. Qualcosa di unico. Ma la minaccia a questa unità nella diversità proviene da istanze che nulla hanno a che fare con la dimensione spirituale dell’uomo e col bisogno di costruire un mondo autenticamente migliore. E ciò si riflette in perdita di identità nazionale, proprio quando l’unificazione europea crea una forma di competizione che, non più politica o militare, è però economica e culturale. Certi fautori di sovranismo d’oggi non capiscono o scelgono di ignorare proprio questo e si fondano su programmi che finirebbero col produrre effetti opposti. In una condizione di debolezza e incertezza l’investimento in risorse umane che la scienza socio-economica di oggi ci dice essere la scommessa del Duemila può risultare insufficiente per noi italiani, inadeguato a guadagnarci, nella libera e aperta e paritetica dialettica delle idee, quello spazio e quel posto a cui la nostra storia e il nostro patrimonio di civiltà ci danno diritto.

Nicola Mineo