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Tela di Giovanni Iudice, in mostra al Museo Diocesano di Caltagirone

Conosco persone che solo raramente si sono spinte fuori dal ristretto ambito dei loro affetti: la casa dove sono nate, il quartiere in cui sono cresciute, l’ambiente dimesso del retrobottega. Ne conosco altre, viceversa, che hanno fatto della loro vita un lungo ininterrotto viaggio, che le ha condotte agli angoli più remoti della terra. Due estremi che per una qualche imperscrutabile ragione sono destinati a toccarsi. A ciascuno le proprie angosce: al viaggiatore seriale, quella di rimanere intrappolato per il resto della vita nello stesso luogo, con le stesse persone, le stesse identiche faccende da sbrogliare quotidianamente; al sedentario compulsivo l’angoscia insuperabile che inevitabilmente monta a ogni tentativo, fallito, di recidere il cordone ombelicale che lo lega alle proprie origini. L’angoscia corre sotto forma di flusso elettrolitico, lungo il filo invisibile che mette in relazione queste due categorie di persone. Relazione che unisce ciascun essere umano che tra questi due termini, da qualche parte, trova precaria collocazione. Diciamo precaria, perché la vita è imprevedibile. E così, chi sulle prime sembrerebbe destinato alla sedentarietà si ritrova a viaggiare, e magari a dividere la propria esistenza tra gli affetti e il lavoro, costretto suo malgrado a vivere un’esperienza che percepisce come estranea. Per quanto, probabilmente, non abbia mai inteso confinare in maniera così perentoria la propria esistenza in due o anche tre vani di perfetta solitudine. E che dire dell’angoscia causata da una vita che si profila inaspettatamente rinchiusa entro il ristretto ambito domestico, tra quanti, invece, stimano se stessi proverbiali viaggiatori? Nulla, in effetti. Perché le vicissitudini cui si va inevitabilmente incontro per il semplice fatto di appartenere alla specie umana conducono ognuno — come si dice in questi casi, e con perfetta cognizione di causa — a fare di necessità virtù. Ma non sempre con le buone. E allora si finisce per scoprire a proprie spese che tutte le volte in cui ci troviamo di fronte a qualcosa che ci è ignoto andiamo per così dire incontro al nostro quarto d’ora di angoscia. E se anche crediamo di trovarci di fronte a fatti noti, è sempre con l’angoscia che in definitiva dobbiamo negoziare. Perché l’angoscia emerge essenzialmente come un dato soggettivo in un mondo in cui tutto è percepito come ugualmente possibile, per dirla alla maniera del filosofo danese Søren Kierkegaard. Il viaggio è pur sempre una metafora: anche quando si viaggia sul serio o magari sono gli altri che viaggiando ci vengono incontro. Ma l’angoscia si supera solo andando oltre il comune modo di intendere le cose, oltre le apparenze, riconoscendo innanzitutto ciò che ci angoscia. È il caso, per fare tra i tanti solo l’esempio illustre della grande poetessa Emily Dickinson, pervicace viaggiatrice in un mondo tutto proprio, la quale così si esprime: «Varco nel mio pensiero / fino a stancarmi — un monte — / più d’un monte — poi un mare — / più d’un mare — ed ancora / mi si scopre un deserto — / (da Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 550)». Eppure non si può certo dire che la poetessa avesse fisicamente affrontato le fatiche fisiche del viaggio durante il corso della sua pur travagliata vita. Era tuttavia disponibile ad accogliere le vastità di pensieri e sentimenti che dentro di lei si agitavano; a farsi carico, sempre con garbo, di tutte le nostalgie e di tutte le angosce da cui un essere umano può ragionevolmente essere abitato. Sublimandole.

Ora, ciascuno è come il caso, la fortuna, l’ambiente, il genotipo, la volontà ha voluto che fosse. Propenso ad andare oppure a restare; angosciato quanto basta o anche molto angosciato. Si potrebbe persino indugiare sul fatto che tutti abbiano il diritto ad essere sempre se stessi, che anzi abbiano il diritto — benché non ancora il dovere — di manifestare le proprie rispettabili opinioni. Ma c’è dell’altro: anzitutto il rispetto delle opinioni altrui, di tutte le altre opinioni. E c’è il dovere che ha ciascuno di edificare le proprie argomentazioni su solidi principi, che certo non possono essere inventati al bisogno, ma vanno ricercati, voluti, appresi. Ci sono le comunità, piccole o grandi che siano, che hanno il dovere e il diritto di favorire al proprio interno la discussione. E più in generale c’è l’Umanità, in perenne fermento e in perenne movimento. Va da sé, quindi, che le relazioni tra gli uomini siano sempre improntate all’equilibrio, che è instabile e anzi sempre da ricomporre, tra le opposte tendenze della migrazione e della stanzialità.  Diciamo pure che si tratta di una vera e propria categoria dello spirito. Migrano persone, gruppi familiari, popoli. Da sempre. E lungo e articolato è l’elenco dei popoli che nel corso dei secoli si sono stabiliti altrove. Da ultimo i cinesi— e certo non per caso — sono trai meglio organizzati. Dalla “Culla ancestrale” in avanti è tutto un andare e un venire di gente che si sposta per i motivi più diversi: dalle glaciazioni alle carestie; per spirito di conquista e per spirito di rapina. Qualcuno si muove persino per desiderio di sapere. Si viaggia perché afflitti dalla fame e dalle guerre oppure perché desiderosi di sfruttare le disgrazie altrui a proprio profitto e vantaggio. Se però le migrazioni sono un dato di fatto oggettivo, storicamente inoppugnabile, è vero anche che le problematiche che sollevano sono di grande rilievo e di difficile soluzione. La questione non può che essere posta pubblicamente: in maniera oggettiva, consapevole, concreta. È necessario e opportuno andare ben oltre lo stadio delle angosce personali, che ciascuno farebbe bene a coltivare esclusivamente per sé.

Ragionevole allora fare qualche passo indietro, e compiere uno sforzo per comprendere. Se le migrazioni a cui assistiamo quotidianamente sono largamente ascrivibili alla più generale tendenza migratoria dell’Umanità, le modalità con le quali queste avvengono sono invece il portato delle più pragmatiche, disinvolte e deteriori politiche messe in atto da governi e parlamenti. E se da una parte è impossibile ricostruire tutti i nessi esistenti, e tutto sommato anche poco utile, occorre comprendere che se si esportano bombe, se si interviene sugli scenari internazionali solo a tutela degli interessi economici di pochi, se le persone contano sempre meno; se, ancora, la comunità internazionale non interviene per ristabilire la pace nei paesi più poveri, le conseguenze sul piano umanitario saranno le più drammatiche.

Le migrazioni sono da ascrivere nel numero dei fenomeni che con affettato neologismo potremmo definire glocal: interessano la comunità internazionale, che però se ne disinteressa; i governi nazionali, i quali non fanno che alzare mura. Interessano le angosciate esistenze di ognuno. E qui la diatriba subisce un inevitabile inasprimento, tra quanti, a fondamento della loro insuperabile contrarietà nei confronti dei migranti, sono pronti a giurare sugli effetti deteriori che questo fenomeno inevitabilmente genererebbe, sia sul piano economico sia sul piano della sicurezza; e quanti, invece, premono sul sesquipedale della generosa accettazione e della solidarietà. Senza riflettere, sia gli uni che gli altri, che così facendo tengono conto più delle loro personali visioni che della reale portata delle problematiche che sono in gioco. Sfugge agli strenui oppositori dell’accoglienza che le precarie condizioni dell’economia nostrana abbia profonde radici etiche, che nulla hanno a che vedere con i migranti. Basti pensare ai tantissimi sprechi nelle amministrazioni locali, alle cattedrali nel deserto, alle auto blu, agli insopportabili privilegi. Ciò che invece gli empatici fautori della solidarietà talvolta a buon mercato sembrano ignorare ovvero sembrano non tenere nella dovuta considerazione è che occorre mantenere sempre diritta la barra  dell’impegno politico. L’alto compito dell’opinione pubblica è infatti sorvegliare le Istituzioni e sanzionare attraverso il proprio impegno gli errori e le storture, che certo sono sempre dietro l’angolo. Attraverso l’esercizio consapevole del voto; dimostrando senso di responsabilità riguardo alle proprie abitudini di acquisto e di consumo.

 

Tela del pittore gelese Giovanni Iudice, in mostra al Museo Diocesano di Caltagirone (CT)