Al momento stai visualizzando Poesia dialettale a casa di Sciascia. Nemesi storica

Un mese fa ho visitato la casa di Sciascia a Racalmuto, di recente acquistata da Pippo Di Falco, un colto collezionista racalmutese di opere letterarie siciliane, per sistemarla come casa-museo e centro studi. La casa è gestita da un’associazione costituita ad hoc ed è dotata di una parte della collezione libraria di Di Falco, in corso di catalogazione, comprendente una sezione di testi di poesia dialettale.

Vi ho passato quasi due giorni, abbandonandomi al piacere di trovare nuovi autori e opere che confermano come molta poesia dialettale siciliana del novecento non sia legata solo a contenuti vernacolari, all’elogio di una piccola patria di atavica arretratezza, chiusa in un circo di pupi, carretti e cianciane di sola valenza etnografica. Si tratta di una piccola ma significativa raccolta (tanti altri testi promettono di venire alla luce), comprendente autori che vanno dai classici (da quelli trecenteschi a Veneziano, Tempio, Meli) ai novecenteschi, passando per i novatori del fine ‘800, nonché alcuni poeti racalmutesi (Giuseppe Pedalino di Rosa, Alfonso Scimè, Biagio Messana…).

La situazione mi suonava alquanti bizzarra (molti libri mi erano stati squadernati sul suo letto, tutto l’appartamento essendo coperto da una marea di volumi in via di ordinamento) perché pensavo alla posizione distaccata, se non diffidente, assunta da Sciascia nei confronti della poesia dialettale siciliana. Infatti da promotore, prefatore e guida di una legione di letterati siciliani, solo nel caso di Buttitta sviluppò una partecipe attenzione critica.

Altrettanto limitato appare il suo coinvolgimento nei confronti della poesia in lingua, limitato (per quanto finora sappiamo) alle sue due prime opere, le Favole della dittatura (1950), prose in forma poetica, e le poesie di La Sicilia, il suo cuore (1952), o alla cura con cui accompagnò gli esordi del suo amico e poeta Stefano Vilardo.

Io non so quanto il suo giudizio sulla poesia dialettale sia riducibile soltanto a quanto scritto in Fuoco all’anima: conversazioni con Domenico Porzio (1992), laddove afferma che «la differenza sostanziale tra dialetto e lingua sta nel fatto che nessuna opera di pensiero può essere scritta in dialetto», precisando inoltre che «Sì (la poesia è un’opera di pensiero, ndr), ma il pensiero metodico, sistematico non può servirsi del dialetto. Questo è certo». Appare tuttavia evidente come per Sciascia la poesia dialettale fosse condannata a crescere entro limiti ad essa intrinseci, che le impedivano (in quanto dialettale) di aprirsi a una visione del mondo che andasse oltre i limiti del suo contesto fisico, sociale, storico; l’annunciata fine della strutturale diglossia dei siciliani (e degli italiani più in generale), che già mostrava segni inequivocabili, non ammetteva misure di contenimento. Ne consegue che egli seguirà da lontano il rinnovamento della poesia dialettale dal secondo dopoguerra restando sostanzialmente scettico sulla sua capacità di incidere nel discorso letterario, in linea con il giudizio di coloro che, prima in epoca risorgimentale e poi post-unitaria, considerarono i dialetti come un fenomeno storico che andava concluso per andare incontro alla modernità sulle ali della lingua nazionale, per rafforzare l’interdipendenza tra lingua e nazione, per superarne le residue valenze reazionarie.

Tuttavia, almeno due fatti entrano in contraddizione con questa posizione, riconducibili al suo rapporto con Pasolini e Dell’Arco. Il primo: egli è il referente di Pasolini nella scelta dei poeti siciliani da inserire nel suo Poesia dialettale del Novecento (1952). Ma nell’interagire con Pasolini egli doveva essere consapevole di aver a che fare con colui che stava rivoluzionando il modo di vedere i dialetti nel contesto del bilinguismo nazionale, trovando in essi valori capaci di aprire scenari nuovi nel campo della produzione poetica e contro il declino della lingua nazionale nel contesto della dilagante cultura di massa. Doveva aver presente che lo stesso, nell’affermare che nel suo Poesie a Casarsa (1942) «Le versioni in italiano a piè di pagina […] fanno parte insieme, e qualche volta parte integrante, del testo poetico : le ho perciò stese con cura e quasi, idealmente, contemporaneamente al friulano» (Pasolini, 1954), postulava un ritorno alla poesia dialettale come componente attiva della cultura letteraria nazionale. Ebbene, le linee di azione che si liberavano da questa esplosiva fusione a freddo, che per Pasolini erano un’arma puntata contro la quella che definirà “la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà” (Pasolini, 1975), non facevano scattare in Sciascia un qualche interesse sulla loro traducibilità nel contesto siciliano. Un contesto dove il dialetto non era solo parlato, come a Casarsa, ma era quello affermatosi come prima lingua volgare sette secoli prima, dotato di una tradizione letteraria senza eguali nel paese.

Il secondo fatto: dieci anni dopo Sciascia dava alle stampe, come curatore, Il fiore della poesia romanesca (1952). Il testo era un affondo nella tradizione poetica dialettale romanesca che si concludeva con un raffinato assist al poeta Mario Dell’Arco, laureandolo sia come degno erede dei tre grandi (Belli, Pascarelli e Trilussa) che come autore la cui poesia egli iscrive di petto nella letteratura italiana alta, senza aggettivazioni che ne perimetrano l’orizzonte estetico; ma è singolare il fatto che nel saggio introduttivo che lo riguarda, discutendone il contenuto a fronte della critica e della produzione poetica nazionale e non solo, egli non usa mai la parola dialetto o dialettale, come se il dialetto di Dell’Arco non sia per lui un elemento caratterizzante di quella poesia, in quanto ritenuta capace di assumere piena espressione al di là dell’idioma adottato.

In Sicilia queste aperture di credito non troveranno riscontro. Egli rimase distante in primo luogo dal Di Giovanni, della cui opera apprezzò non secondari aspetti ma valutandone con diffidenza la sua istanza rifondatrice e sposando di fatto la qualificazione di ‘ritardato romanticismo’ attribuitagli da Pasolini. Lo rimase dai successivi grandi autori come Santo Calì e Salvatore Camilleri, nonché dai numerosi altri neo-dialettali, la cui capacità di «impastare pane siciliano con farina siciliana»  con lo sguardo elevato a temi e poetiche di valenza universale saltava agli occhi di qualsiasi lettore. Lo rimase anche dai tanti ‘minori’ che in modo piò o meno organico si erano ritrovati a far parte di quel movimento e dai non irrilevanti poeti della sua Racalmuto.

Non importa se le loro istanze erano meno francescane e più realistiche di quello del loro maestro Di Giovanni e ovviamente si adattavano senza problemi a vivere con l’italiano dominante; se i neoteroi, come li chiamava Vann’Antò, volevano liberare le energie delle culture dialettali fino ad allora represse per contribuire alla complessiva crescita culturale del paese. Questi furono orizzonti letterari che non conquistarono il suo interesse. Il dialetto appariva allora, mi chiedo, così impantanato in una funzione meramente memoriale e vernacolare da non rendere credibili neanche coloro che ne praticavano il superamento? O era una questione di ‘dimensione’, date le centinaia di poeti vernacolari che riempivano i canzonieri e le ‘strenne’ di poesia anche in piena epoca fascista e facevano ombra ai (relativamente) pochi innovatori?

In più occasioni Sciascia espresse apprezzamento per la poesia di Calì ma ne criticò, non a torto, la sua maniera di presentarla, dicendogli con franchezza “ … quello che tu fai con le cose tue mi pare un modo di non farle leggere, poiché praticamente le seppellisci sotto le traduzioni letterali e poetiche, sotto le prefazioni e le contro-prefazioni, le note, i disegni”. E alla fine si rifiutò di scrivere una prefazione a un suo testo. Come se i dati di realismo, espressionismo, visionarietà, furore politico, cosmopolitismo, rilevati in Calì dalla critica più attenta (Brevini, 1990) non riuscissero a emergere dal ‘troppo pieno’ di alcune delle sue composizioni testuali ed editoriali.

Ma di Calì criticò altresì la lingua, a suo avviso troppo a ridosso dell’idioletto di Linguaglossa, di difficile comprensione, ottenendone la nota risentita reazione («Io scrivo in siciliano, nel siciliano ‘turco’ dei braccianti e dei pastori, … dei pescatori di San Marco …che a volte è più aspro di una sorba acerba, a volte più dolce di un dattero maturo. Il dialetto imborghesito, pianificato, sterilizzato lo lascio a te e a Ignazio Buttitta»).

La questione della traduzione in lingua non era di poco momento. Legioni di poeti hanno scritto per tutto il secolo scorso solo in versione dialettale in quanto non contemplavano altro lettore che il siciliano. Ma quelli che guardavano al di là di questo orizzonte si posero il problema della traduzione.

Sciascia da un lato diffidava della traduzione in lingua, fatto che comportava a suo avviso il rischio di spingere i lettori a dirigersi al testo italiano saltando la versione originale; dall’altro vedeva nell’opera in dialetto il più concreto pericolo dell’isolamento nella sicilitudine. Un dilemma già presentatosi nel suo saggio Pirandello e il dialetto: Liolà (1968), quando da un lato sosteneva la superiorità del testo dialettale di Liolà (1917) rispetto alla versione in lingua, dall’altro temeva che se il testo fosse rimasto dialettale non sarebbe stato accolto al di fuori della Sicilia.

Come risolvere il problema? Per Sciascia il limite nel Liolà di Pirandello, come anche nei poeti neodialettali, è stato quello di non avere adeguatamente italianizzato il dialetto, pretendendo al contrario di approfondirne la sua espressività. Pirandello, e poi gli altri, avrebbero fatto l’errore «di stringere il dialetto là dove poteva aprirlo», soggiacendo poi alla necessità della traduzione. Questo giudizio, rileva Salvatore Sgroi, mostra che «Sciascia … si rifiuta di riconoscere la piena legittimità ed autonomia del dialetto (non-nazionale) rispetto alla lingua (nazionale) e quindi non vuol riconoscere il merito della traduzione (in lingua) che permette ai non-dialettofoni l’accesso a un prodotto artistico, esattamente come nel caso dei capolavori delle varie letterature europee e mondiali in traduzione».

A questa messa in tensione dei due idiomi si dimostra invece sensibile il non siciliano Antonioni che nel suo La terra trema, adottando l’idioletto di Acitrezza contro l’originale italiano de I Malavoglia di Verga, mostra come tradurre in pregnante chiave poetica la potenzialità semantica di questo accoppiamento. Non è d’accordo Sciascia, che non si capacita quale ragione «abbia portato Visconti a rovesciare linguisticamente il Verga… » con un’operazione antistorica.

Chissà cosa penserebbe oggi della seguitissima serie televisiva L’amica geniale, dove con simile giravolta l’originale italiano della Ferrante viene recitato in versione dialettale. In ambedue i film si è reso necessario il ricorso ai sottotitoli italiani, similmente a come avevano fatto quasi tutti gli autori neo-dialettali con le traduzioni a fronte o a piè di pagina, mostrando come la messa a confronto tra i due idiomi sia capace di accrescerne le valenze espressive a livelli imprevedibili.

Diversa la posizione di Sciascia nel caso di Buttitta. Fatto salvo il suo disaccordo sulla traduzione de Lu pani si chiama pani (1954) eseguita da Salvatore Quasimodo, che secondo lui avrebbe monopolizzato l’attenzione di tutti i lettori non siciliani a scapito dell’originale (sarà stato così, ma intanto questo avrà consentito a Buttitta di raggiungere un più vasto pubblico), la scelta della lingua  maturata da Buttitta, non chiusa come quella di Pirandello o dei tanti contemporanei neo-dialettali, trova la sua approvazione. La scrittura di Buttitta non indulge in localismi e anzi presenta lessico e sintagmi riconducibili a una parlata più semplice e parecchio italianizzata. Sciascia ne apprezza il suo elevarsi dalla compassione alla denuncia e alla chiamata in causa degli oppressi, il suo prestarsi al registro dei cantastorie e dei poeti di piazza, aperta anche a un certo populismo, indulgente all’anafora, l’essere insieme colta e popolare; e nota che «Attraverso forme popolari o popolareggianti, Buttitta insinua nel sentimento popolare la propria coscienza civile, la propria ideologia», non attraverso una costruzione mentale ma «con assoluta naturalezza, con precisa necessità». Egli riconosce che le sue poesie «Erano la nuova poesia, di nuovo e diverso poeta; una poesia di rivolta e di speranza… tra le voci più autentiche, nel nuovo realismo italiano». Una poesia che, con le successive prove, e specialmente con La Vera storia di Turiddu Giuliano diviene «ardita nemesi del sentimento e delle forme di espressione del popolo rovesciata in un giudizio … non ancora popolare: ma che può, in forza della poesia di Buttitta, diventare popolare» (Buttitta, 1963). Grazie a questa capacità di modulare il suo messaggio civile egli riesce a separare Giuliano dal suo mito e riportarlo ai dati di fatto e al contesto socio-politico, mettendo il popolo davanti alla responsabilità del proprio giudizio. Insomma è la ricerca della verità, insieme il metodo e il fine che hanno ispirato tutta l’opera di Sciascia, e che ora lo accomuna al poeta.

Ma quello che Buttitta è riuscito a risvegliare in Sciascia è un interesse per Buttitta poeta, non per la poesia dialettale. Restava in secondo piano che il combustibile della sua poesia era in primo luogo il dialetto, quello capace di incendiare gli animi, se ben usato e recitato. C’era il fattore dialetto alla base del fattore Buttitta, che poneva ancora una volta una istanza di futuro.

Un futuro assente dalla prospettiva, non solo letteraria, di Sciascia, anche se oltre a parlarlo quotidianamente lo aveva trattato in diverse occasioni, come nell’antologia Delle cose di Sicilia (1980).  Di fatto non si è posto il problema di una qualche strategia per il mantenimento di un bilinguismo con i dialetti subordinati alla lingua nazionale e ne ha accettato senza rimpianti la ritirata. Perché?

Come letterato egli si è trovato a condurre una battaglia civile che solo l’italiano gli permetteva di portare avanti con incisività. Peraltro l’italiano non si dava come uno strumento di comunicazione compiuto e pronto all’uso, ma al contrario come uno strumento linguistico carente, da mettere a punto con un impegnativo lavoro di affinamento per farne un’arma appropriata ai suoi fini. Se da un lato c’era chi si preoccupava della rinascita dei dialetti, dall’altro occorreva curare anche l’italiano.

In conclusione egli è rimasto fedele al suo ideale di monolinguismo nazionale, condiviso con quei siciliani che fin dall’Unità avevano accolto l’italiano come uno strumento di emancipazione culturale e politica: «In Sicilia c’è sempre stata l’aspirazione a un mondo almeno più giusto. […]. È anche un sogno a contenuto linguistico, l’idea di un’unica lingua a vocazione unificante, capace di rendere tutti uguali: se si parlasse tutti uno stesso italiano, le differenze sociali e culturali sarebbero abolite, si sogna. L’italiano, la lingua italiana, come sogno di giustizia» (Sgroi, 2012). L’avere sposato questo ideale all’interno della sua opera, come ‘sogno di giustizia’, può spiegare molto della sua distanza dalla grande questione del dialetto.

Ma grazie alla crescita culturale di Racalmuto cui Sciascia ha grandemente contribuito, il dialetto è rientrato dalla finestra ed ora occupa alcuni scaffali della biblioteca di casa sua.

Giuseppe Cinà

Bibliografia

F. Brevini, Le parole perdute, Einaudi, Torino, 1990
I. Buttitta, Lu trenu di lu suli / Il treno del sole, Edizioni Avanti!, 1963 (“Introduzione polemica di Leonardo Sciascia”)
P.P. Pasolini, M. Dell’Arco, Poesia dialettale del Novecento, Guarda, Parma, 1952
P.P. Pasolini, La meglio gioventù, Sansoni, Firenze, 1954
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975
L. Sciascia, Favole della dittatura, Borsi, Roma, 1950
L. Sciascia, La Sicilia, il suo cuore, Bardi, Roma, 1952
L. Sciascia, a cura di, Il fiore della poesia romanesca, Sciascia ed., Caltanissetta,1952
L. Sciascia, Lu pani si chiama pani, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1954
L.Sciascia, Delle cose di Sicilia: testi inediti o rari, Sellerio, 1980
L. Sciascia, D. Porzio, Fuoco all’anima: conversazioni con Domenico Porzio. Mondadori, Milano, 1992
S. C. Sgroi, Leonardo Sciascia ‘scrittore di cose’ o ‘di parole’? Ovvero la sua eredità linguistica (e metalinguistica). In: De Caprio, Caterina, and Carlo Vecce, eds. L’eredità di Leonardo Sciascia: atti dell’incontro di studi, Napoli 6-7 maggio 2012, Università degli studi di Napoli, 2012.