Ruolo di protagonista ha giocato da sempre al mondo, la malizia. Eppure vi sono certi dirupi, cuore di una cittadina di vinti, da cui cadono più vinti di quante se ne contino. E nessuno le saprà mai se non ne viene evocata la memoria.
Presso il Castello dell’entroterra ennese si intrecciano certe nebbie. E resiste ancora un palazzetto dell’Ottocento, obliquo e spiovente sulla roccia, in via della Rinascenza ’89. Un palazzo abitato da generazioni di famiglie, dove gli uomini, schiavi della vigliaccheria e dell’ignoranza, commettevano errori irreversibili; finivano fisicamente le loro gracili silfidi, e le facevano letteralmente morire di parto, al sesto, settimo figlio. Questi giovani vedovi ancora forti e impazienti, non potevano mica star quieti, a curarsi l’orfana prole. Dovevano trovar altra moglie, solo per placare degli istinti immondi. Accadeva perciò che morti inumane di donne onestissime e dolcissime, generassero misere vite, carusiddi, picciliddri, e storie di vedovi ridicoli e rimaritati. Pozzi che inscenavano melodrammi e suicidi. Voci, lettore. Voci che aprivano e chiudevano storie. Di tanto in tanto si sentiva parlare di qualche personaggio un po’ strano. Tale Paulina Torregrossa era una di questi (detta a’ Campalleggia, da “campa leggera”[1]); ella visse tra il ’13 e il ‘33, era moglie di un brigante latitante e non poteva sposare Gaetano Russo – che neppure lei amava- finché non fosse stato rinvenuto il corpo del marito, disperso chissà dove. Nel frattempo, ella si spendeva sempre a far qualcosa, perché non amava chiacchierare come le altre donne. Ed eri solito trovarla alle cucine ai piani alti della casa o magari china a pulire il pavimento. Mai l’avreste veduta assittata, in una di quelle stanze timidamente illuminate e dimenticate dagli uomini, che le timorate di Dio ergevano a templi della sacralità corporale. I fimmini do quartiere credevano di conoscerla, ma non era così. Cosa nascondesse Paulina nessuno lo sapeva. Soltanto Carmela (che per le fattezze piccine e gracili ai tempi, chiameremo Carmelina), l’aveva vista veramente. La piccina osservava la Paulina e non le era chiaro lo scopo di quella donna. Era una bambina troppo ingenua e pura. Indossava, sotto il grembiulino celeste, una pelle bianca di colomba, una fame prepotente e avida, un rifiuto radicato per la fatica. E odiava la matrigna. Lo spirito di Carmelina però era, bisogna dirlo, lindo, inseguiva sempre la verità nuda e cruda. Perciò si poteva dire che Paulina fosse in ottime mani. Appena sentiva i minimi rantolii, – che coincidevano proprio nei momenti in cui Gaetano partiva per le battute di caccia- Carmelina balzava dal davanzale, e giù fino al piano di sotto, tutte le sere, alla stessa ora, appoggiava l’orecchio sopra la porta bruna. E se poteva, spiava dal buco della serratura desiderosa di dare un volto e un corpo alle ombre. Sentiva. Vedeva: un uomo giovane e secco steso su di lei fino a pochi minuti prima, che si rivestiva e scappava dalla finestra. E un verme si insinuava dentro di lei insieme all’inconfutabilità. Quali pensieri , quali strane rivelazioni annebbiavano la sua timida mente. Dei movimenti interiori ed esteriori della ragazzina, Paulina non ne seppe mai nulla per fortuna.
La nebbia che aleggia attorno ai ricordi ha un che di mistico, non è vero lettore? E c’è sempre un dato che completa il quadro; quanto basta per narrare storie che non esisterebbero più. E la sottotrama dolorosa, che si scuce e si ricuce intorno all’Irraggiungibile Verità. Una Carmelina cos’era? Lascio a te la ricerca.
Quello che posso dire, lettore, è che taluni personaggi si distinguono per il loro silenzio, tali altri per la loro melodrammatica comicità. Carmelina era un angelo, ma un angelo un po’ ciarliero perciò incollocabile nelle mute perfezioni letterarie. Ella parlò molto. Raccontò, fino a molti anni dopo, i soprusi e le ingiustizie della matrigna, che la costringeva ngunucchiuna [2], a lustrare i pavimenti puliti della casa padronale per impartirle il valore de pulizì. E avremmo avuto anche noi al suo posto, la solerzia d’obbedire e sottometterci, davanti ad un animo vanesio e capriccioso. La menzogna è per molti uomini, senza che loro lo sappiano, l’altra faccia della sensualità a cui non sanno resistere.
E di donne che non recitassero ad arte ce n’erano poche a quei tempi. Ma Paulina era mossa dai tre momenti della superbia: l’artiglio disinibito della vanità femminile, la teatralità del corpo ammaliatore, e ultima, la mano che irrompe, tutto prende e tutto tiene in suo potere.
Le cattiverie continuarono, per lunghi mesi. Un giorno d’estate del 1932, una donna s’incamminò su una iumenta, senza dar spiegazione né al marito, né ai figliastri e passando per le vie più impervie e montanare . Dopo mezza giornata di cammino, sostò con il suo cavallo dentro un fienile abbandonato di una campagna del Sacchitello, e l’uomo che seguiva dietro di lei, scese. Ella entrò ed ispezionò attentamente.
Una mano ingrigita emergeva da un lenzuolo bianco che rivelava chiazze rosso brune, di sangue raggrumato. Sangue freddato da colpi di pistola ad altezza del torace. Ricomponendosi un ricciolo di capelli che le ricadde sulla spallina, insidiò il sospetto del ragazzo taciturno accanto a lei nella stalla, il quale dovette di buon grado, essendo l’ultimo arrivato nella banda, far ricadere su di sé ogni errore e indiscrezione, restando in silenzio. Nel frattempo, i pensieri più improbabili le affollavano la mente e per fortuna le impedirono di parlare, o le orecchie attorno avrebbero udito una voce di donna sotto il cappello color nocciola. Resistette alle calde lame di luce, madide di polvere. Allora scese dal cavallo ansimante e ben nutrito e gli stivali che portava sfiorarono per un attimo l’immobili membra dure e lei diventò impenetrabile, mentre tutto l’interno le ribolliva di emozione. Cosa le dava emozione? La libertà? La morte? Forse che dovessero sgretolarsi le pareti in un attimo, e lei sarebbe stata una donna finalmente libera? Ma non successe nulla. La donna misteriosa – che noi conosciamo – fece semplicemente segno laterale col capo d’aver riconosciuto e se ne andò, muta, rimontando sulla iumenta.
Giunta a Enna, si lavò per prima cosa i capelli ispidi come la paglia, si raschiò lentamente la sporcizia più profonda, scalpitando con le mani sul corpo, per non tralasciare neanche una macchia di colpevolezza. Neanche una colpa doveva avere una donna all’epoca. Benché meno un tale segreto. Qualcosa, però, risuonò in Paulina. Era ora di andarsene. Nei mesi a venire, Gaetano morì di peritonite malcurata, ed ella tentò di lasciare la casa padronale – non si ritenne e non fu mai ritenuta una della famiglia-. Era una sera di nebbia del 1933. La Carmelina era ormai ventunenne e Nardino[3] suo fratello, padre di mio padre, aveva sedici anni. Su di loro vegliava una donna lungimirante e dall’orecchio avvezzo al rumore più fine: Zia Bianca. Ella sentiva, vedeva veramente nell’animo umano, e meriterebbe che se ne parlasse un po’. Ma forse lo faremo in seguito lettore. Per il momento, ti basti la sua mano santa in questa storia. Perché i carusi furono salvati da dei rumori, presagi di sventura. Mentre gli altri dormivano, ignari, lei udì uno schianto sordo sul pavimento, che non le lasciò alcun dubbio. Qualcuno stava muovendosi un po’ troppo e stava rovistando freneticamente le cantine. Bianca corse subito dal più giovane, Nardino, e gli disse: “Vai a San Tommaso e chiama u’ Ze’ Giuvanninu. Dicci d’arricamparisi di cursa! Spicciati! Dicci ca cu sapimu nuatri ni sta arrubbannu n’casa”. Nardino corse in fretta, che quasi negli scalini inciampava, e scomparve, correndo nei vialetti. Ritornarono, in meno di venti minuti, lui e u’ ze’ Giuvanninu Amaradiu, allora una delle personalità più influenti del quartiere, e altri due compari, noti per essere poco pacifici e diplomatici. Paulina si guardò intorno sorpresa. Accanto a lei, un uomo dal volto segreto e stanco. Carmela sentì come un lampo al cuore.
“Chi statu facinnu vuautri?”- disse u Ze’ Giuvanninu, rivolto alla Campalleggia.
“Nenti, ni stamu pigghiannu i nosci cosi e ninni stamu innu”
“Chisti sunu i cosi de’ carusi. I lassassi stari.”
“Chisti cosi m’aiu guadagnatu na me vita” , disse la Campalleggia, con voce tremante e colpevole.
“Vossìa nun sa guadagnatu nenti di sta casa.” Rispose u’ Ze’ Giuvanninu. “Chisti sunu cosi de carusi. I vosci cosi sunu sulamenti a’ iumenta e stu carusu, ca è di sangu disgraziatu cumu u’ vosciu. Vossìa di cca nun si pigghia nenti. E sinn’a da gghiri. Ora.”
Celando malamente uno sguardo sconfitto, i due non osarono ribattere, nascosero il volto nell’ombra e s’incamminarono, lenti, come due iumente ormai alla deriva.
Carmela apprese qualcosa quella notte, che andava oltre la sua purezza. Apprese che prima dei due amanti, prima di loro, c’era stato il Desiderio, l’abbietta costruzione umana intorno all’agire. “La superbia” recita il proverbio “andò a cavallo ma tornò a piedi” . E qui la testimonianza è stata letterale!
Quanto a Carmelina, quel che si celava dietro la sua impressionabile moralità era poca cosa, superabile. Ciò che la impauriva davvero erano gli uomini che costruivano… Edificavano passioni terrene, trame ed intrighi, che obbedivano alla propria libido. A Enna, no quartiri de sbintuliati aleggiano ancora le parole della Campalleggia, al suo amante, alla sua ombra: “Ppi tia, putissi macari arrubbari ddi carusiddi di tutti i so’ ricchizzi. Ppi tia, ppi nuatri, ppi farini cuntenti. Ppi lu to’ amuri. Ci arriverò. Tu, aspettami.”
Note
[1] Donna di facili costumi probabilmente.
[2] * in ginocchio
[3] Diminutivo di Leonardo