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Doveva essere dalle parti del Mercato Ortofrutticolo. Via Cadibona, Abetone, Monte Velino… Non ricordava perfettamente. Erano passati diversi anni. Però ricordava bene la zona: i condomini popolari, gli appartamenti modesti, le strade trafficate… E quella domenica pomeriggio, in particolare, sul finire della primavera, insolitamente calma, quasi silenziosa, perché fin dal mattino molta gente era sciamata per prati e piscine, allontanandosi da una Milano già afosa, opprimente…

Giustino abitava lì. Non fu difficile trovarlo subito. Salendo al suo piano con l’ascensore, i due nuovi arrivati, marito e moglie, furono sempre più colpiti dalle grida di un bambino che piangeva forte e dagli strilli di una donna che lo rimproverava. Giustino li aspettava sul pianerottolo, davanti all’uscio aperto e con un sorriso incerto sulle labbra tirate li salutava scusandosi per quella baraonda: a piangere era suo figlio e a sgridarlo era la madre. La donna e il bambino erano in un’altra stanza, forse in quella da letto. Accomodatisi nel soggiorno, i nuovi arrivati non li vedevano ancora. Giustino era palesemente confuso, mortificato, ma continuava a sorridere sia pure a labbra strette, mentre di là sua moglie un po’ lo interpellava, un po’ continuava a litigare con il piccolo:

«Ma si può sapere chi è… E stai zitto!… Giustino, Giustino, ma chi è? Chi è venuto?… Basta, basta, ho detto! Basta!»

A gesti i due ospiti si domandarono se Giustino avesse preannunciato in casa il loro arrivo, e dallo sguardo della moglie il marito capì che anche lei era attraversata dal medesimo dubbio. Eppure, tutto era stato combinato nei dettagli e riconfermato per telefono anche la sera precedente. Era stato lo stesso Giustino a insistere per quella domenica, perché poi ‒ così aveva detto ‒ non avrebbe potuto, almeno nel breve periodo, approfittare di un’occasione simile. Ciò nonostante, un certo disagio cominciò a prendere i due ospiti, soprattutto lui che di quell’incontro ero stato in parte promotore. Ed ecco, quella situazione lo faceva di colpo ripiombare a Palermo e agli anni passati nell’istituto professionale dove si era a lungo occupato, come educatore, della formazione di numerosi allievi motoristi, meccanici e saldatori.

Non era stato un lavoro facile. E adesso, dopo tanto tempo, non aveva voglia di rivivere le difficoltà e i problemi che ogni giorno si erano presentati stando con quei ragazzi, quasi tutti provenienti da ambienti poverissimi e con situazioni familiari spesso drammatiche se non tragiche.

Giustino, allora, frequentava il corso dei saldatori, veniva da un paese dell’entroterra palermitano, da una famiglia che versava in grandi ristrettezze economiche, soprattutto da quando era venuto a mancare il sostegno del padre, morto in un incidente di lavoro. Quando l’aveva conosciuto, Giustino aveva quindici anni, era molto magro e alto, un vero spilungone con tanta fame arretrata in corpo e tanta voglia di vivere e di apprendere un mestiere. Intelligente e volenteroso, assai maturo per l’età che aveva e sempre pronto a collaborare con gli insegnanti e gli educatori, si distingueva soprattutto nell’organizzazione delle attività sportive extrascolastiche. Qualche momento di gloria personale se l’era addirittura guadagnato quando la sua squadra era riuscita a vincere il torneo di calcio delle Cinque Borgate grazie a una rete decisiva segnata all’ultimo minuto proprio da lui, che oltretutto giocava da terzino. Era stato un trionfo, uno di quegli avvenimenti destinati a essere ricordati da allievi e insegnanti negli anni a venire, ogni volta che per caso si fossero incontrati.

E anche lui, in effetti, incontrandolo per caso una decina d’anni dopo, la prima volta da allora, a più di mille chilometri da Palermo, si ricordò subito del suo vecchio allievo e naturalmente di quella famosa partita. L’incontro era avvenuto solo due settimane prima. Si trovava alla Stazione Centrale di Milano, in attesa di un treno per Como, dove poi da Palermo si era trasferito e dove insegnava in un istituto tecnico.

«Professore, professore!» si era sentito chiamare. E, girandosi di scatto, si era visto davanti, all’altezza del suo, un viso la cui fisionomia stentò per un attimo, un solo attimo, a riconoscere. Ma poi, al galoppo, gli vennero in mente nome e cognome di Giustino, vita e miracoli: «Giustino!» esclamò, «Giustino! Quello del goal!».

Giustino era un uomo oramai, vicino ai trent’anni, ma non era cambiato granché: la faccia lunga e scavata, i capelli neri, ricci e folti, gli occhi allegri, come allora; il corpo ancora più magro, più allampanato, l’aspetto più etereo forse. Si raccontarono tutto di ciascuno: le vicende dei rispettivi trasferimenti al Nord, il lavoro, le famiglie. Seppe così che, subito dopo il conseguimento del diploma, aveva trovato lavoro in una fabbrica d’infissi metallici dell’hinterland milanese rispondendo a un annuncio del “Corriere”. Si era trovato bene. Aveva fatto una certa carriera all’interno della ditta. Si era poi sposato con una ragazza meridionale conosciuta in circostanze che, ad aver tempo, gli avrebbe raccontato. Adesso aveva anche un figlio piccolo. Insomma, una vita normale, modesta ma normale. «Dobbiamo vederci ancora,» gli disse nel lasciarsi «desidero tanto che lei conosca la mia famiglia… Ho un sacco di cose da raccontarle…».

 

Tornando a Como, mentre l’accelerato si fermava a ogni stazione intermedia con aria stanca e sonnolenta, lui indugiava senza volerlo sulle modalità dell’incontro con Giustino e ripensava alle sue vicende con una certa curiosità inappagata. Gli aveva promesso che, sì, gli avrebbe telefonato presto per fissare un appuntamento a Milano: una delle domeniche immediatamente successive poteva essere quella giusta. «Prima della fine del mese!» aveva precisato perentoriamente Giustino, chissà per quale motivo, dato che fra una battuta e l’altra gli era sfuggito di chiederglielo. Ciò che lo spingeva a tener fede all’impegno preso era senz’altro un certo interesse verso la sua vita, la sua famiglia, il suo mondo. Ma forse c’era di più. Giustino era stato uno di quegli allievi la cui formazione, in fondo, aveva finito con l’incidere anche su quella di lui. Capiva bene che fra educatore ed educando si stabiliscono sempre rapporti di dare e avere reciproci: quanto più e quanto meglio si lavora con i giovani, tanto più e tanto meglio ci si arricchisce sotto il profilo umano. Su questo semplice ma fondamentale principio aveva impiantato tutta la sua attività di educatore e insegnante. Solo che, una volta finito quel rapporto diretto, difficilmente ci s’incontrava di nuovo: ognuno proseguiva per la propria strada, rivolto ad altri interessi. Dei numerosi allievi avuti in quel periodo, ogni tanto gli arrivava, per caso, qualche notizia imprecisa con qualche ondata di memoria che, ritirandosi nel gran mare delle preoccupazioni quotidiane, lasciava per un po’ nella mente, come i segni di un naufragio perenne, i resti di un nome, di un volto, di un comportamento, di un atteggiamento particolare. Di Giustino non aveva saputo più nulla. Non si era più fatto vivo dopo gli esami finali, anche se nel congedarsi aveva promesso di scrivergli, quantomeno per tenerlo informato del suo collocamento al lavoro. E sì che, durante il triennio di scuola professionale, di attività insieme ne avevano svolte: la stampa di un giornalino, l’organizzazione di un cineclub e di una società polisportiva, il cui gioiello era stato, appunto, la squadra di calcio… Grazie a tante attività, Giustino lo aveva costretto a crescere come educatore, ossia a diventare più disponibile e partecipe… Alla Stazione Centrale era stato colpito dalla familiarità con cui si era visto trattato. Vedendolo, Giustino gli si era avvicinato come a un parente carissimo che non s’incontra da molto tempo eppure niente nel frattempo ha modificato la cordialità dei rapporti, il legame di amicizia. Spontaneo e diretto come un tempo, aveva voluto invitarlo subito a casa sua, dove ‒ finalmente! ‒ si era recato due domeniche dopo, insieme con sua moglie.

 

«Si accomodi, professore, si accomodi… Anche lei, signora, prego…» diceva intanto Giustino indicando ai nuovi arrivati il divano e le poltrone del soggiorno, un po’ smarrito fra i diversi fuochi della sua attenzione, non badando nemmeno alla presentazione che lui gli faceva di sua moglie.

Ma non durò a lungo quello stato di assoluto disagio, perché come una furia piombò nella stanza un bambino sui tre anni, faticosamente inseguito dalla madre, fra un vociare indistinto e uno strano scalpiccio. Fu allora che i nuovi arrivati notarono la gamba rigida della ragazza. Era inguainata in un apparecchio ortopedico di metallo e, nell’incedere, produceva uno stropicciamento in contrasto con il movimento sciolto della gamba sana.

«Eccoli, eccoli!» aveva intanto detto Giustino. E, fatte le presentazioni, prese in braccio il figlioletto cercando di calmarlo e vezzeggiarlo. La moglie si era scusata subito per il trambusto, ma lo aveva fatto con tanta naturalezza da far pensare che i litigi col figlioletto fossero all’ordine del giorno, un modo come un altro di passare le ore insieme. Il bambino, invece, seduto sulle gambe del padre, cominciò presto a dimenarsi e a frignare senza un’apparente ragione.

«Fa sempre così quando ci sono ospiti» disse la madre, «vuole farsi notare, essere al centro dell’attenzione generale».

«Non solo quando ci sono ospiti» la corresse Giustino. «È una lagna continua… Ma presto ti passerà, non è vero, Gigetto?» aggiunse ridendo, rivolto al piccolo. E continuò a stringerselo al petto, cullandolo e accarezzandolo, mentre la moglie, per niente d’accordo con le parole del marito, cominciò a dire: «Ma quale lagna continua! Il mio Gigetto è così buono! Vieni, bello di mamma, vieni in braccio a mamma tua!».

Si avvicinò allora al figlio per toglierlo a Giustino, ma il bambino scuotendo le gambette grassocce con violenza assestò due calci al petto della madre che, barcollando, fece appena in tempo a cadere seduta sul divano. «Brutto, brutto, brutto!» prese allora a sgridare il figlio. «Non ti voglio più bene, vedi come sei cattivo?»

E scoppiò a piangere: «Non ce la faccio più, non ce la faccio più…».

Il bambino si rendeva perfettamente conto della situazione e, da quanto era dato di capire, dominava con i suoi capricci entrambi i genitori.

La moglie dell’insegnante volle tentare lei di fare qualcosa per calmarlo, e nel prenderlo in braccio riuscì per un attimo a tenerlo a freno. Ma non c’era verso di farlo star buono: Gigetto piangeva, strillava, si divincolava furiosamente. La signora allora pensò bene di metterlo a terra, ma quando il bambino fu libero si scagliò di nuovo contro la madre, picchiandola con i suoi piccoli pugni.

«Dai, Gigetto, adesso basta!» intervenne il padre senza successo.

Il bambino continuava a mulinare le mani e a dare calci alla cieca sul corpo della madre che, in preda ancora a un pianto dirotto, tentava di ripararsi dai colpi con le braccia. «Basta, adesso basta!» insisté il padre, trattenendo Gigetto con le mani e sollevandolo di peso per allontanarlo dalla madre.

«Facciamo un gioco, Gigetto?» propose allora l’insegnante.

Il bambino si fermò di colpo. Si girò a guardarlo con curiosità e interesse. «Gioco? Che gioco?» domandò con una vocetta graziosa, improvvisamente pacificato con tutti.

«Il gioco al braccio di ferro!» disse lui.

«Il gioco al braccio di ferro?» domandò. «E cos’è?»

«Il gioco a chi è il più forte!».

«Il più forte sono io!» disse Gigetto risoluto.

«Certo che sei tu,» incalzò l’insegnante «però voglio vedere se è vero!».

«Bello, bellissimo!» venne in suo aiuto Giustino. «Sì, sì! Il braccio di ferro, il braccio di ferro!» cantilenò. «Vince il più forte! E chi è qui il più forte? Il mio Gigetto è il più forte!»

Mentre la moglie dell’insegnante cercava di consolare la madre del piccolo sedendole accanto sul divano e commentando le difficoltà che s’incontrano nell’educare i figli, Gigetto, Giustino e il suo antico educatore si sistemarono attorno alla tavola circolare della zona pranzo e intrapresero il loro gioco. Tra mille smorfie di finta sofferenza e divertite imprecazioni, i due adulti lasciarono vincere a turno il piccolo, al quale non pareva vero di sbatacchiare sulla tavola i loro bracci. «Hai il braccio di ricotta, hai il braccio di ricotta!» gridava all’indirizzo dell’uno o dell’altro appena conseguita la vittoria. Ma quello stato di rilassamento non durò a lungo. O che avesse capito che lo facevano vincere apposta, o che si fosse stancato del gioco, ben presto Gigetto cominciò a dare segni d’insofferenza. Giustino e il suo ospite si guardarono come d’intesa e senza perder tempo proposero insieme la medesima cosa: uscire, andare a zonzo da qualche parte, distrarre il bambino e tranquillizzare la madre: svagarsi tutti in qualche modo.

«All’Idroscalo!» suggerì Giustino.

«All’Idroscalo!» fecero eco gli altri, anche Gigetto che probabilmente era abituato a quelle uscite estemporanee.

 

Montarono tutti sull’automobile di Giustino, un’utilitaria quasi nuova, molto curata e lustra, e si diressero verso Viale Forlanini. Lo percorsero abbastanza in fretta, mentre l’attenzione del bambino veniva attirata dagli aerei che volavano a bassa quota nei pressi dell’aeroporto. Non c’era molto traffico, fu facile raggiungere la riviera e, una volta parcheggiata la vettura, mettersi a curiosare qua e là, passeggiando in mezzo ai vialetti lungo il bordo del lago artificiale, vicino ai pescatori della domenica con la lenza in acqua. Un po’ più avanti notarono un certo assembramento. Un signore anziano faticava a tirar su con la canna una grossissima carpa, e un uomo più giovane cercava di aiutarlo con un grande retino dal lungo manico per sorprendere la preda, una carpa, che si dibatteva a pelo dell’acqua, guizzava su e giù, avrebbe potuto spezzare la lenza e sfuggire alla cattura.

«Non spaventatela, non spaventatela» mormorava qualcuno in mezzo alla piccola folla di curiosi alle spalle dei due pescatori, dove subito si trovò anche la nuova comitiva per seguirne ogni mossa. Il pescatore più giovane faceva scorrere il retino sotto il pesce con ogni precauzione, ma quando sembrava che dovesse imprigionarlo, quello spiccava un balzo disperato e lo scavalcava. Passarono così dieci minuti buoni, ma alla fine la carpa, spossata dalla gran lotta, fu tirata su con l’applauso liberatorio dei presenti. Era un esemplare di smisurate proporzioni. Tutti erano concordi nel dire che una bestia simile non si era mai vista all’Idroscalo. Poteva essere grande quanto due, tre carpe di normali proporzioni messe assieme. Una volta offerta all’ammirazione generale mentre ancora si dibatteva, ne notarono la consistenza, ma notarono anche, in entrambi i fianchi, due cicatrici irregolari che la percorrevano per quasi tutta la lunghezza del corpo.

«Ne ha fatte, di battaglie…» disse il pescatore anziano, rigirandola sull’erba un po’ qua e un po’ là. «Visto che taglia? Questa non è una carpa ma la regina delle carpe!» La risata generale che accolse queste parole servì a far sciogliere il capannello di gente e a spingere anche la comitiva di Giustino verso le luci multicolori e i suoni confusi che provenivano da uno spiazzo oltre il recinto di un vasto prato.

Era un immenso luna park un po’ a ridosso del Parco Forlanini.

Quando vi giunsero, trovarono la solita animazione pomeridiana dei giorni festivi. Serpentoni di gente sfaccendata si muovevano lungo i corridoi fra le bancarelle dei venditori e i capannoni dei giochi e delle attrazioni.

Gigetto e la madre, nella tregua dell’intera passeggiata, camminavano tenendosi per mano, l’uno adeguando i passetti rapidi all’andatura faticosa dell’altra, mentre la moglie dell’insegnante si spartiva il percorso in mezzo alla calca ora attardandosi con il marito e Giustino, ora raggiungendo la madre e il bambino. L’ora meridiana non dava al luna park la magia della sera: le luci colorate diffondevano un chiarore opaco che andava a confondersi con la luminosità velata dell’aria calda e umida. La musica proveniente dai tendoni delle attrazioni acuiva lo stato di disordine generale. Voci, richiami, grida, rumori indistinguibili alimentavano una babele sonora di grande effetto. Il bambino, dopo i primi momenti di trepida perlustrazione, cominciò a muoversi come in un ambiente naturalissimo, senza nessuna difficoltà. Sotto gli occhi compiaciuti del padre e della madre, prese a correre da una bancarella all’altra chiedendo di tutto e costringendo Giustino a inseguirlo col portafogli in mano, pronto a pagare di volta in volta lo zucchero filato, il palloncino a forma di papero, il popcorn, le patatine fritte, l’aranciata e cosi via. Tutte cose che Gigetto teneva in mano per tre secondi e poi porgeva alla madre o lasciava cadere per terra. Anche la madre, però, cominciò presto a imitare il figlio, interessandosi alle medesime cose: presa nella sua scia ed eccitata non meno di lui, arrancava di qua e di là consumando ciò che il bambino aveva appena assaggiato, e comperando dal canto suo un mucchio incredibile di roba da mangiare e da bere.

«Ci veniamo quasi tutte le domeniche» disse Giustino ai suoi ospiti che stavano a osservare con una certa apprensione tutto quello sgranocchiare, ingurgitare, masticare, sorseggiare…

«È un modo come un altro per non pensare ai guai della vita» aggiunse poi quasi con noncuranza.

Dette da lui, che era sempre parso un ottimista di natura e che proprio durante quella giornata aveva saputo affrontare ogni difficoltà con pazienza e dolcezza, quelle parole colpirono il suo vecchio educatore come se fossero state pronunciate da un disperato. Guai della vita? Che guai in particolare? Non certo i guai di tutti: non gli sarebbe venuto in mente di accennarvi. Non certo i guai di ogni giorno: li viveva quasi senza accorgersene. Che guai, dunque? Aspettò che la madre e il figlio si allontanassero lungo il viale delle attrazioni più spettacolari per provare sotto gli occhi divertiti della moglie, che cercava di accompagnare entrambi, l’ebbrezza dell’autoscontro, il terrore del castello stregato, l’abilità nel tiro a segno. Prese Giustino per un braccio e gli domandò a bruciapelo: «Cosa mi nascondi?».

Forse si aspettava quella domanda, o forse prima o poi gli avrebbe raccontato tutto spontaneamente. Fatto sta che, con un sorriso incredibilmente sereno, gli disse: «Caro professore, la settimana entrante sarò ricoverato in ospedale per un’operazione al cuore, e non so come andrà a finire». L’altro lo guardò esterrefatto, farfugliò qualcosa, cercò di minimizzare tutto. Ma Giustino sapeva quel che diceva e non indugiò oltre a metterlo al corrente dei suoi malanni: viveva già da tre anni senza un rene, doveva sottoporsi a dialisi tutte le settimane; poi anche l’altro rene si era ammalato e da sei mesi era addirittura in lista d’attesa per un trapianto. Ultimamente, anche il cuore non pompava più come avrebbe dovuto, e occorreva intervenire con una certa urgenza.

Restarono in silenzio per un buon tratto, lo sguardo dell’insegnante non osava fermarsi sul suo vecchio allievo, si sentivo molto a disagio. Nel crepuscolo della sera che ormai incombeva, lo strepito rutilante delle montagne russe e delle auto volanti si perdeva in una caligine che non era solo esterna.

«Toglimi una curiosità,» gli disse poi, quasi per sviare il discorso, ancora appartati e tuttavia sul punto di riunirsi al resto della comitiva per poter ritornare ognuno a casa propria, «com’è che hai sposato questa ragazza, con quella gamba così?».

«Ma come, professore,» sorrise Giustino «non era lei che a Palermo ci diceva di non fermarsi alla facciata, di guardare dentro, alle persone, non fuori?».

Lui accusò il colpo: «Sei un uomo forte, più forte del tuo vecchio educatore… Io non avrei avuto il tuo stesso coraggio…». Poi, mentre le loro mogli e Gigetto si avvicinavano, volle buttarla sul positivo: «Vedrai che anche questa volta ce la farai… Andrà tutto bene… Però tu, mi raccomando, tienimi informato!».

«Le telefonerò appena dimesso dall’ospedale… Dobbiamo rivederci presto… Anzi subito dopo…» promise lui, ancora una volta, mentre si congedavano davanti alla Stazione Centrale dove, con grande amabilità, aveva voluto infine accompagnare i due ospiti.

«Mi raccomando, Giustino, telefonami appena puoi!» gli gridò allontanandosi il vecchio educatore.

«Non dubiti, professore, non dubiti!»

 

***

 

Sono passati, ormai, diversi anni. Il pensiero di Giustino lo ha sempre accompagnato, sia pure a intermittenza… Le solite ondate della memoria… Il solito, ineluttabile naufragio… Avrebbe potuto chiamarlo al telefono, potrebbe farlo ancora. Ma gli è sempre mancato il coraggio. Il fatto è che, da quella sera, non ha più saputo nulla di Giustino.

 

Angelo Maugeri