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(…) sopra l’uscio  era dipinto da tutt’e due le parti
un sole raggiante; ma la voce pubblica, che talvolta ripete
i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo,
non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.

A.Manzoni, I promessi sposi. Cap. XX.

 

Sappiamo come le parole vengono accolte nei vocabolari, e sappiamo che è l’uso di esse a venir preso in considerazione nel momento della selezione. Selezionano infatti i compilatori dei dizionari al momento di promuovere un voce alla dignità di significante, di parola in corso nella lingua della comunicazione nazionale, scegliendo tra quelle che si presentano ben acquisite attraverso l’uso ordinario della comunicazione e con un significato che le distingue. Ed è da tale momento che inizia quella che definiamo storia della parola. Quella storia lungo la quale la stessa voce che era stata inserita nel vocabolario in un certo momento, potrà venire assumendo, nel tempo, nuovi significati a integrazione di quello o quelli originari o distaccandosene fino a dare adito alla opportunità di trovarla destinata a far parte di una nuova famiglia di parole. Superfluo insistere su questo particolare che è patrimonio di informazione comune e altrettanto ordinario. Si potrebbe affermare però che è il popolo a creare il vocabolario della lingua di comunicazione nazionale, come per il vocabolario dei dialetti, quello delle contrade, come per i mestieri quello del gergo.

Manzoni ne I Promessi sposi ha lasciato un esempio molto efficace, che può servire come modello per chiave di lettura di questo nostro discorso elementare: cosa di più palese di due soli raggianti dipinti su una insegna? Eppure la gente aveva battezzato il luogo rappresentato da quel dipinto col nome di Malanotte. E avrà avuto le sue ragioni. Tuttavia non capita con frequenza di trovare denominazioni ossimore rispetto al riferimento, infatti il significante (la parola) armonizza sempre col significato e una locuzione latina che capita di sentire ripetere, tradotta in italiano ci aiuta a ricordare che “i nomi sono conseguenza delle cose”. Con altre parole si potrà confermare che sarà sempre la sensibilità popolare a decretare quale significato o significati attribuire a una parola. Manzoni ci ha suggerito l’esempio de la Malanotte a pendant dell’immagine del doppio sole; in Sicilia la realtà batte un suo primato con il nome della città etnea di Belpasso, che in dialetto è “Malpassu” (Malo passo). Scava-scava si finirà per approvare la scelta istintiva e ossimorica del detto popolare:“Voce di popolo è voce di Dio!”

Ricordo che frequentavo la prima media quando un mio cuginetto mi chiese se potevo procurargli un pezzo di spago (lazzu, in siciliano) perché doveva giocare con i suoi compagnetti nella parte dell’intrallazzista. Mi confidava che era riuscito a procurare presso il padre una vecchia valigia, ma adesso aveva bisogno del laccio (‘u lazzu) per passarlo orizzontalmente sulla valigia, fermarne il coperchio e predisporla ad apparire zeppa di qualcosa al punto da non potere essere chiusa con il proprio congegno, come esigeva la parte del gioco. E che fosse attraversata da un “lazzu” rappresentando la figura di un contenuto celato e tenuto insieme “intra un lazzu” = ‘ntrallazzu, parola nuova di quei giorni tra le prime crisi del regime fascista e lo sbarco degli Alleati in Sicilia, quando per il “contrabbando” di generi sottoposti al razionamento codificata da una tessera (pane, frumento, farina, carni macellate clandestinamente, zucchero, etc.) venne inventato la denominazione di intrallazzu. I bambini avevano colto uno stimolo ludico particolare da quella parola nuova, dal suono un poco aspro e dal riferimento un poco di trasgressione.

2. Anche la parola inciucio comincia con la medesima preposizione in, come intrallazzo. E anche questa volta trova riscontro nel vocabolario del siciliano, come vedremo. La differenza consiste nella storia delle due parole, che è totalmente diversa e comincia in secoli diversi tra loro distanti. Inciucio la troviamo adoperata in scritture dialettali siciliane del Settecento e la ritroviamo accolta, tra l’altro, nel “Dizionario Siciliano-Italiano di Giuseppe Biundi, edito a Palermo nel 1857. Ma, attenzione: quella che nei nostri giorni del linguaggio politico è una sola parola, in origine è stata frase significante composta da tre elementi, due dei quali ripetuti a ricreare onomatopeicamente la pratica del significato: in ciù-ciù, che significa sussurrato con circospezione (ciuciuliannu) all’orecchio, detto in un farfugliare circospetto, in ciuciulìu, da ciuciuliari (parlare a bassa voce e con circospezione in confidenza con qualcuno su un argomento che non sia il caso di far sentire ad altri). I dizionari della lingua italiana non ci mettono molta chiarezza nel classificare napoletana (??) la voce inciucio e nel precisare (esatto) che il linguaggio giornalistico dagli anni Novanta del secolo scorso assegna il significante al linguaggio caro ai pateracchi politici. Nulla da eccepire? Forse si, salvo la minima osservazione che potrebbe ridare al dialetto siciliano la primazia e alla evoluzione del significato assunto dalla voce passata del dialetto siciliano e dal semplice in ciù-ciù della sua origine allusiva di estrema riservatezza privata, a rappresentare una bastardata pubblica, un mal’ibridare, un accoppiarsi osceno, “innaturale” di partiti politici con programmi e ideologie diverse. La stessa parola, in origine allusiva di un sussurrare circospetto, riservato e spesso persino pudico, è divenuta voce pubblica, manifestazione d’incoerenza politica, strumentalismo, disdicevole machiavelleria, voce però praticata da quelli stessi che la pronunciano con atteggiamento di nausea.