Al momento stai visualizzando Come cambia l’editoria libraria

 

Il titolo sarebbe esatto se al posto del presente il verbo fosse scritto al passato prossimo: “ come è cambiata l’editoria libraria”. Per dirla nei termini più approssimati alla realtà si dovrebbe dare sufficiente spazio a un cenno esaustivo alla storia dell’editoria italiana a mo’ di premessa indispensabile al resoconto che promette il titolo del tema. Chi scrive ha avuto il privilegio proprio della generazione cui appartiene, di seguire con interesse l’esperienza del settore in questione almeno fin dal 1952, cioè da quando aveva venti anni. Curiosità giovanile di un lettore assiduo, quasi una ricerca segretissima, in anni in cui l’Italia si scuoteva dalle macerie, e proprio l’editoria libraria dava un suo contributo morale non da poco.    Forse una spontanea collaborazione, una concorrenza di intenti che, si può dire senza timore di essere contestati, per certi suoi aspetti dimostrava lo spirito di un gareggiare. Ci si doveva lasciare alle spalle un mondo di tragedie, di ansie e tutto quanto aveva avuto per denominatore persino a morte, da quella che si cominciava a conoscere dei lager a quella traumatizzante di Hiroshima e Nagasaki. Si voltava pagina. Era un dopoguerra, almeno in Italia, nel quale proprio con la narrativa veniva ripetuta l’esperienza di trenta anni prima, quella dei “Nipotini di padre Bresciani”. Ma non c’era più né un nonno né uno zio prete, questa volta i nipotini erano cresciutelli e tutt’altro che disposti a farsi catalogare nipotini di qualcuno, perché erano giovani scrittori che erano stati “in montagna” da partigiani a rischiare la vita, reduci di imprese anche eroriche e si chiamavano Fenoglio, oppure, per Cassola, si chiamavano infatti anche Bube e raccontavano, appunto “La ragazza di Bube”. Insomma un altro mondo e tipo di testimoni rispetto a quello degli anni venti del dei trenta anni prima E non solo. Infatti si dovrà aspettare ancora qualche paio d’anni per leggere le testimoniane di Primo Levi. Insomma, avevano altro da narrare e far conoscere gli autori, e per loro editori di quella volta che ne diffondeva gli scritti permettendo, questi ultimi, che da Siracusa a Trento l’informazione e la “civiltà del libro” fossero presenti se non altro almeno a parità di tempi di diffusione nelle librerie e edicole, anticipando stimoli per quella sconfitta dell’analfabetismo che da lì a pochi anni sarebbe stata quasi perfezionata. Frattanto sarebbe stata appianata la strada alla conquista dell’unità linguistica d’Italia con l’arrivo della televisione in tutte le case, la progressiva scomparsa dei dialetti l’arrivo dell’italiese di Mike Bongiorno, etc.

Progresso e sue conseguenze. Qualcosa si perderà per sempre, (i dialetti, per esepio) ma è la vita ed è la dura legge del progresso di ogni civiltà, etc. Un “etc” indispensabile se si vuol proseguire con uno sguardo a volo di rondine sul cammino dell’editoria italiana, forte dei suoi crescenti colossi: Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli, Edtori riuniti, Garzanti, Rusconi. Una più forte concentrazione tra Milano e Torino che non aveva concorrenti nel resto del Paese.

In Sicilia sorgevano le scommesse di Salvatore Sciascia a Caltanissetta, e quella di Salvatore Fausto Flaccovio nella Palermo del governo regionale, governo che non poco darà a Flaccovio e poi, decenni dopo, alla Sellerio. Ma non facciamo passi avanti bruschi. Adesso riconosciamo che tra Sciascia e Flaccovio c’è una presenza editoriale in Sicilia di stampo diverso rispetto a quello che era stata la pregressa e antesignana esperienza storica di Giannotta a Catania per i tempi di Luigi Capuana, Federico De Roberto e negli anni in cui Catania era anche la città di Giovanni Verga.

La Flaccovio di Salvatore Fausto si destinava a trionfare con “I mosaici di Monreale” di cui veniva caricato qualche piroscafo di copie con destinazione USA. Ma c’è stato anche un romanzo “Sette e mezzo” di Giuseppe Maggiore, di cui lo stesso Flaccovio ha prodotto ben sette edizioni. Salvatore Sciascia si era dato ai fiori all’occhiello, della letteratura anche internazionale, sicuramente meno commerciali ma si distingueva anche perché lontano dagli uffici della Palermo del governo regionale, che di quattrini all’editoria ne ha elargiti. E non pochi se ha consentito a qualche libraio di razza di impiantare imprese editrici che magari non raggiungeranno alcuna meta o merito, ma partiranno con la solida base di somme cospicue di pubblico denaro a fondo perduto elargito, appunto, dalla politica regionale siciliana.

Salta chi può, si dice in Sicilia. Poi il tempo e la scarsa memoria faranno il resto per chi dirà “giudicami per chi sono e non per chi fui”, potendo esibire una spocchia in ambito di sicurezza economica, la cui remota sorgente aveva attinto a palate di pubblico denaro. Così poi per Sellerio, il primo Sellerio fino agli scontri con manifesti di reciproche accuse affissi in tutta Palermo, quando una nuova iniziativa editoriale, la Novecento, ancora una volta palermitana si era affacciata nell’agone delle provvidenze legali disponibili nei bilanci della Regione. In altri settori della Penisola frattanto stavano per sopraggiungere i tempi cari ai “Furbetti del quartierino”.

Chissà, nel futuro di qualche cattedra universitaria siciliana non si attui l’improbabile iniziativa di assegnazioni di tesi di laurea che includano la necessità di ricerche di documenti su questo periodo della provvidenza a favore degli editori siciliani, che in grazia del “miraggio”di tali leggi avevano raggiunto la impressionante cifra di diverse centinaia. Questa è storia. Purtroppo la legge al momento della sua applicazione era fatalmente (e opportunamente) destinata a senso unico. E i nuovi duecento e passa“editori”dovevano accontentarsi di “leccare la sarda”di qualche occasione loro offerta in forza di momenti elettorali e di piccole occasioni, a volte persino squallide a fronte della indiscutibile qualità e diffusione delle oculatissime scelte prodotte dalla Sellerio.

Certo, “buon tempo e malo tempo non dura sempre un tempo”, e a provarlo si sarebbe stagliato l’imprevisto baluardo dell’effetto che i progressi dell’elettronica avrebbero consentito a una nuova “classe” imprenditoriale in materia di editoria:la stampa digitale.

I vantaggi del progresso sono sempre vantaggi per tutti. E fanno ridere quanti parlano dei tempi passati come di epoche d’oro. È il ridicolo che non sappiamo evitare nei momenti in cui ci scopriamo con l’orologio fermo in una stagione che esige altri abiti e altre cautele. Una volta nelle campagne non solo siciliane certi malanni venivano curati con l’applicazione di “cappate” cioè cataplasmi, impiastri, subito superati e ridicolizzati dopo l’arrivo degli antibiotici. Ed ecco che è quasi ridicolo oggi, nel primo ventennio del nuovo secolo, pretendere di risuscitare metodi ed esiti dei tempi dell’editoria italiana degli anni di Treves, o di Arnoldo Mondadori che dichiarava orgoglioso, negli anni 1970 “Ho iniziato con D’Annunzio e vado a concludere con D’Arrigo”. Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo risolve a modo suo il significato di certe mutazioni generazionali con la metafora del far rinunciare al principe la carica di senatore, per consigliare che la si affidasse all’ex campiere, al don Calogero Sedara. Ma è una battuta che non fa ridere e nemmeno piangere, perché non è sempre peggiore il futuro. Il futuro è ciò che noi del presente abbiamo saputo predisporre; è nostro figlio. E gli editori che oggi stampano con mezzi moderni che consentono di “far casa editrice”, mettendone su insegne e attrezzi con un bel gruzzolo di fondo perduto in denaro dei fondi europei e una macchinetta fotocopiatrice collegata a un computer, sono anche loro editori a pieno titolo, colleghi dei Treves degli Arnoldo Mondadori, degli Einaudi e dei Rizzoli, dei Livio Garzanti, dei Valentino Bompiani di quella volta, come, tornando per un attimo in Sicilia, dei Salvatore Sciascia e dei Salvatore Fausto Flaccovio di una stagione i cui esiti appartengono ormai a quell’archivio della storia che somiglia a una tomba su cui va bene una lapide con una data senza parole di elogio o di rimpianto.

La residua presenza dei colossi dell’editoria non sappiamo a quale destino potrà andare incontro, ma una cosa sembra certa: sopravviverà se saprà adeguarsi ai tempi nuovi. Non sarà solo prestigio e quantità di vendite a fare scuola. I tempi sono mutati e con essi il genere delle domande dei pochi utenti in numero sempre più esiguo. Oggi l’editoria nuova produce tirature anche di solo dieci copie di un’opera, dicesi dieci copie, specialmente per i casi di cui fruisce l’editore furbo, per dimostrare pezze d’appoggio quando stampa per conto dell’Università di Vattelappesca o di Campobabbàu, titoli di ricerca scientifica per i quali l’Europa ha sborsato duemila euro, di cui sono stati spesi un centinaio. E i millenocevento restanti? No, non maligneremo, lo sappiamo che non andranno tutti nelle tasche dell’editore furbo. Saranno divisi e non sia da escludere che tra i fruitori del dividendo non vi sia chi si impone con il solito e classico “Ego prim tollo quoniam nominor leo”. La gente deve pur vivere e poiché non si può ignorare che a dover vivere si è in tanti anche nei luoghi dove non parrebbe o “Non dovrebbe” la torta deve pur essere divisa. E anche questa è una realtà sotto gli occhi di tutti. Questa è l’editoria nuova dei nuovi editori, anche in Sicilia, editori che tali sono a pieno titolo, grazie alla minuscola fotocopiatrice che può essere allogata persino nello spazio di una latrina di famiglia.