Comparazioni e omologie nel Tao filosofico-poetico di Massimo Mori
“La poesia è chiara e oscura: tra una parola scritta e l’altra vi sono spazi vuoti nell’alternanza nera e bianca di Yin e Yang” (M. Mori).
“Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” scrive Wittgenstein nella settima e ultima proposizione del suo Tractatus logico-philosophicus (1921). Tale frase, che segnala un limite delle possibilità del linguaggio ed esorta a ‘stare ai fatti’, non significa ‘Non parlare’ ma invita a non pretendere d’identificare quanto trascenda il linguaggio.
Anche dell’illimitato, incommensurabile, immateriale Tao non c’è, secondo Lao Tzu, modo di parlare. Causa e custode dell’universo, l’eterno, sconosciuto, preverbale Tao, abissale, assoluto e senza forma, resta una questione metafisica intorno all’origine delle cose: “C’è qualcosa di caoticamente completo in sé / nato prima del cielo e della terra. / … / Non conoscendone il nome, lo chiamo Tao” (Lao-tzu). Secondo René Guénon, se “il Tao ‘senza nome’ è il Non Essere, […] il Tao con un nome è l’Essere”. Volendo dare, sia pure in astratto, un nome all’intraducibile Tao, “lo si chiamerà (come equivalente approssimativo) la Grande Unità” (La Grande Triade, 1946). Nel dettato dell’antica tradizione, Tao è vivere in armonia con le leggi e i flussi della Natura: chi vi riesce, trova se stesso.
Ciò premesso, risultano praticabili un ‘senso Tao’, un ‘atteggiamento Tao’, un ‘sentiero Tao’ nel percorso artistico testimoniato da Jack Kerouac (Sulla strada, 1953), l’ispirato scrittore americano votato a coniugare Beat con un’agnostica Beatitudine, e il Tao con un eterodosso Underground.
Scrive Kerouac, mettendosi in cammino dopo un periodo d’isolamento nella Desolation Peak sui monti delle Cascades a nordovest di Washington: “Che gioia, il mondo! Vado! […] Stai saldo, amico, riprendi amore per la vita e scendi giù da questa montagna e sii semplicemente, sii, sii le infinite fertilità dell’unica mente dell’infinito, non far commenti, lagnanze, critiche, lodi, ammissioni, chiacchiere, fulminanti stelle di pensiero, ma solo scorri, scorri, sii tutto te stesso, sii ciò che è, e soltanto ciò che sempre è” (Angeli di desolazione, scritto dal 1956 al 1961 e stampato nel 1965)… Sii, dunque; sapendo che si deve andare senza assoggettarsi all’idea fissa della meta. “Dobbiamo andare e non fermarci” raccomanda Robert M. Pirsig nel parafilosofico Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974) incentrato sul pensiero associativo-coordinativo e su una “metafisica della Qualità” che riporterebbero al Tao.
È nell’invito al cammino additato da Lao Tzu l’origine profonda delle cose: col ‘Ritorno’ inteso come ripresa continua dell’andare, “eterno ritorno” secondo Nietzsche che elegge a proprio antesignano Baruch Spinoza la cui filosofia sulle immutabili leggi naturali e sull’essenza d’infinito degli esseri apparirebbe affine al pensiero taoista. Né sembra troppo lontano da Lao Tzu lo Spinoza che, nell’Etica (1677), discetta sulla “Sostanza” autonoma e unitaria (Dio?) come sul viaggio senza approdo dell’esistenza e sulla necessità di non abbandonarsi alle facili emozioni.
Ora è l’esistenzialistico viatico kerouachiano – letterario talismano di libertà e scoperta di sé all’insegna di un percorso on the road – che Massimo Mori, affermato poeta verbovisuale, performer, maestro di Tai Chi e arte marziale (arte con movimenti di misurata lentezza, contrazioni Yin ed espansioni Yang; o “a mano nuda”, oppure con antiche armi, “spada, sciabola, bastone, lancia, ventaglio”), accorda all’incipit del suo Tai Chi (Tàijí). Poematica del principio: un’autobiografica testimonianza di cultura e di vita travasata in un ipertesto globale, un invito al viaggio conoscitivo, un commentario ‘in itinere’ additante la “poeticità dell’andare” e assimilabile alla stessa svincolata allure d’un flâneur postmoderno.
Apparentemente impervio a causa della grande quantità di richiami ancorché pervaso da libere curiosità intrise d’uno spirito di leggerezza Zen, il libro di Mori si fa dapprima leggere come un ‘romanzo di formazione’ scritto senza ricorrere a pretesi sperimentalismi linguistico-lessicali che risulterebbero fuorvianti rispetto alla perseguita chiarezza didattico-informativa.
Repertorio di riverberanti esperienze filosofico-letterarie, parabole taoiste, racconti che s’intrecciano, rimandi all’attualità sociologico-politica, Tai Chi (Tàijí). Poematica del Principio (2018) è un’‘opera aperta’ o multipla e inclusiva con variegate sequenze di scene trasferite su un immaginario rotolo similcinese redatto in senso ‘orizzontale’ (analogo al famoso rotolo ‘verticale’ sul quale Kerouac dattilografa Sulla strada); nonché un’utile compilazione di conoscenze pratiche sintetizzate come in un trattato pluridisciplinare posto sotto il doppio simbolo cosmologico, combinatorio e relazionale, Yin-Yang (Luna-Sole). È siffatta dualità energetico-complementare, originata dal Wu Chi, a fondare il Tai Chi, suprema funzionalità reciproca fra nero e bianco, oscurità e luce, acqua e fuoco, dolcezza e forza, terra e cielo, femmina e maschio: funzionalità che, senza istituire significati vincolanti, incrocia in comparatistica, empatica sincronia Oriente e un Occidente affrancato dal demiurgo-legislatore della cosmologia creazionistica cristiana (perché, per il Tao, il mondo non fu ‘creato’).
Al principio, il Tai Chi, arte specializzata e non scienza empirica, efficace tecnica di controllo sul corpo e sulla mente, si misura con le ancestrali energie dell’Ombra, le forze ‘nere’ o emozioni negative della personalità (dolore, rabbia, collera, indignazione, frustrazione, insofferenza, odio, impulsività, senso di colpa, ira, lutto, ostilità, umiliazione, rancore…), ingaggiando un confronto (Tui Shou) non contrastivo né quietista ma di riconoscimento, integrazione, rifusione della frattura tra il lato in luce e il lato buio dell’Essere: tra il pensiero ‘destro’ associato al Padre e il pensiero ‘sinistro’ riconducibile a una mitologica Grande Madre cui si rapporta l’animus di poeti – Lucrezio, Dante, Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud, Valéry, Dino Campana… – che non reprimono il mondo profano dell’Ombra (il “sottosuolo” dostoevskiano, il lato sotterraneo dell’Io che Freud chiama Ich per indicare sia l’Io, sia il Sé) bensì lo assorbono portandolo nella sfera di una comunicazione interpersonale che se può inquietare, riesce tuttavia a omeopaticamente energizzare o rinfrancare.
Finché l’imperscrutabile, “l’indefinibile Tao” viene scandito – scrive Mori – nella “poematica essenza” di un “praticabile Tai Chi Chuan”, nominabile traslato del Tao da interpretare e onorare nella vita quotidiana, e del Chi esprimente il respiro calmo, benevolo e soave dell’Essere… “Taologo” di un’aconfessionale “taologia”, paradossale ‘teologo ateo’ cercatore in se stesso e non in cielo del proprio destino, l’autore, trascendendo i canoni ideologici e le conformità di massa indotte nel nostro tempo dall’esoso consumismo dei pochi pagato con la miseria dei molti, prova a farsi esegeta del sottile anticonformismo taoista osteggiatato da Confucio, il paternalistico mentore rappresentante del potere feudale.
Diffusa “nelle cose e solo da cogliere”, una poematica del Tai Chi – illustra Mori – è metaforizzata nel contatto tra i soggetti e nella ‘poesia del corpo’ ossia “nella voce di chi la declama, nella mano di chi la scrive e nello sguardo di chi la legge”. Essa, allo stesso tempo, per la sua dialettica relazionale basata su modi alternativi di guardare la realtà è scevra dai rituali alienanti della new age più trita e alla moda, integralista e antioccidentale, professata da ciarlatani sofistici, tantrici estatici, santoni supponenti e apprendisti stregoni persuasi di ‘sapere tutto’ prima ancora d’avere ‘capito’ ciò che credono di sapere.
Né un riaggiornato Tai Chi – in quanto nuova “poesia gestuale” o “poesia in azione” come sempre teorizza Mori contrario a certe derive superstiziose del Tao di cui, piuttosto, sembra valorizzare illuministicamente gli aspetti eversivi contrari all’autoritaria dottrina confuciana – deve mai vincolarsi a moduli e applicazioni che legano insieme Tai Chi e I Ching con certo pedante neoconfucianesimo in salsa buddhista: un’ibridazione che vorrebbe distorcere il precetto taoista Wu Wey sulla razionalità cognitiva trasformandolo in un arrendevole ‘niente fare’ o ‘lasciar andare’ forieri d’una programmatica, accidiosa sudditanza alle pervasive sopraffazioni di ogni potere.
Procedura d’un agire naturale e non per obbligo induttivo, contro la nostra epoca dell’economia selvaggia di mercanti sfruttatori dei lavoranti, il Wu Wey (“azione senza sforzo”), trasferito dall’usanza estremo-orientale a una sobria logica occidentale, può evocare la nobile atarassia ellenica, stoica e scettica, così prossima al Tao e ora rigenerata da Massimo Mori con la sua inedita, comparatistica fenomenologia filosofico-poetica del Tai Chi.
Stefano Lanuzza