È lì, a cinquanta chilometri da Racalmuto, suo paese di nascita, che Ettore Messana, a trentadue anni, comincia a far parlare di sé. La sua sarà una lunga, discutibile carriera nella polizia che lo vedrà impegnato durante il fascismo sul Fronte Orientale e, tornato in Sicilia, nella repressione del banditismo stragista e nell’inchiesta sull’omicidio del sindacalista saccense Accursio Miraglia. Nelle sue mani quell’inchiesta fece pochi passi avanti. E si ebbe l’impressione – l’ebbe chi stava più in alto di lui – che quei passi Messana li avesse rallentati di proposito. Tanto che l’inchiesta gli fu tolta e affidata a Cataldo Tandoy. Anche sull’impegno contro la banda Giuliano c’è molto da ridire, come vedremo.
A Riesi, chiamato a riportare l’ordine nel paese in rivolta, l’allora vicecommissario fece piazzare una mitragliatrice su un campanile. Provocatoriamente puntata contro le sedi dove si riunivano i più accesi protagonisti delle agitazioni e del malcontento popolare di quei giorni. E cioè: contadini e zolfatari. Era l’autunno del 1919. E i contadini avevano occupato le terre dichiarate incolte seguendo il decreto del presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti che li autorizzava a coltivarle.
Porre una mitragliatrice sul campanile era il miglior segnale per impedire comizi e manifestazioni di protesta e per riscaldare ulteriormente gli animi. Ma proprio questo si voleva. Ed è quanto lascia intendere senza mezzi termini lo storico Gero Difrancesco nel suo libro Riesi 1919. La guerra non è ancora finita (Paruzzo editore), una fedele ricostruzione di quei fatti lontani più di un secolo. E che, rispetto alle precedenti, può contare su inediti documenti d’archivio. I rapporti cioè dell’ispettore generale di polizia Vincenzo Trani che ribaltano le false versioni della tragica rivolta subito circolate, tese ad assolvere le forze dell’ordine da ogni responsabilità riguardo all’eccidio dell’8 di ottobre 1919 e ad attribuirle ai contadini e ai dirigenti socialisti che li guidavano. Tra questi c’erano i fratelli Giuseppe e Salvatore Butera, accusati di incitamento alla ribellione. E per questo arrestati.
I contadini avevano occupato i terreni del feudo Palladio ponendovi una bandiera rossa. Erano terre incolte e quindi in armonia con il decreto del presidente del consiglio. Ma la polizia e l’esercito, venuto a darle manforte, non riconoscono alcun valore alle loro pur legittime rivendicazioni. Si capisce subito da che parte stanno: dalla parte dei proprietari e dei gabellotti. Si capisce subito, per l’autore di questo libro, da che parte sta il vicecommissario Messana che dirige le operazioni. Nello scontro a fuoco tra forze dell’ordine e manifestanti restano sul terreno undici (ma c’è chi dice venti) morti, tra contadini, zolfatari e studenti, e una cinquantina di feriti.
Lo scontro era stato cercato. Dai balconi del paese vengono sparati dei colpi da parte dei gabellotti per indurre i contadini alla reazione e l’esercito a intervenire brutalmente. Messana sapeva tutto e giustificò ogni brutalità come farà venticinque anni dopo – questore a Lubiana e a Gorizia – contro gli slavi che non volevano essere italianizzati. E quando sul Fronte Orientale la misura fu colma, venne trasferito e messo at disposizione Ministero. Uomo del fascismo e poi del ministro Scelba, dei monarchici e dei separatisti, Ettore Messana svolse in questa nuova esperienza in Sicilia un ruolo non privo di ombre e di ambiguità in specie per certi suoi disinvolti rapporti con alcuni confidenti dell’Ispettorato di pubblica sicurezza dai quali avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga. Orazio Barrese scrive che nulla fece per impedire la strage di Portella della Ginestra.
Quanto accadde a Riesi nel 1919 lasciò per anni traumatizzata la sua popolazione. Che si chiudeva in casa, per paura, ogniqualvolta vedeva un uomo in divisa. Dopo l’arresto dei fratelli Butera a guidare la rivolta fu l’avvocato mazzarinese Carmelo Calì che si avvalse della collaborazione del dirigente socialista Alfredo Angeletti. E fu lui a tenere il comizio in piazza al rientro dei contadini dal feudo Palladio. Il vicecommissario Messana ne intimò l’interruzione e l’immediato scioglimento della manifestazione. A quel punto la situazione precipita: tra lanci di sassi da parte della folla e un colpo di pistola – sparato da chi?– che ferisce un soldato. “La mitragliatrice cominciò a crepitare – racconta Difrancesco – mietendo vittime tra la gente, indiscriminatamente… Sebbene atterrita, la folla si rivoltò contro la forza pubblica e tentò di accerchiare i militari, che fuggirono per la campagna abbandonando anche le armi. L’ingegnere Giuseppe Accardi, consigliere provinciale, che si era frapposto tra la folla e la truppa per sedare gli animi, fu accoltellato da un dimostrante”. Come i fratelli Butera, anche Angeletti e Calì vengono arrestati. E un sottotenente, Michele Di Caro, viene trovato ucciso in circostanze non chiarite fuori dal centro abitato.
A Riesi si ripeteva in pratica l’eccidio di Santa Caterina Villarmosa. Dove l’esercito sparò contro i manifestanti inermi durante la rivolta dei fasci siciliani. Pirandello ne parla nel romanzo I vecchi e i giovani: “Undici morti, innumerevoli feriti, tra cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero. Solo, qua e là, il grido dei parenti che piangevano gli uccisi, e i gemiti dei feriti”. Era stato l’aumento del prezzo del pane a scatenarla. Insieme alla depressione agricola, alla guerra doganale con la Francia (che aveva danneggiato i prodotti d’esportazione dell’isola: vino, frutta, zolfo) e alla chiusura delle zolfare. Una rivolta della fame cui il presidente del consiglio di allora Francesco Crispi, siciliano anche lui peraltro, rispose con la repressione militare e lo stato d’assedio.
La conclusione cui arriva Difrancesco riguardo alla strage di Riesi, rimasta senza colpevoli come l’omicidio del sottotenente Di Caro, è che questa ormai lontana vicenda della storia nazionale, ha avuto “una regia occulta non lasciata al caso e che si era completata, con estrema probabilità, con l’assassinio del sottotenente, ritenuto testimone scomodo contro chi avrebbe potuto impedire l’uso criminale della mitragliatrice e non lo fece”.
Gero Difrancesco – si legge nelle note biografiche – è stato impegnato in politica sin da giovane: nel Psiup e nel Pci di Berlinguer contestandone però, e fino all’uscita dal partito, il sostegno al governo Andreotti. Prima di diventare sindaco del suo paese, Sutera, ne ha diretti la biblioteca e l’archivio comunale. E ha ricoperto, eletto con il Pds, la carica di consigliere provinciale a Caltanissetta. Nel 2006 il presidente Napolitano l’ha nominato cavaliere della Repubblica. Riesi 1919. La guerra non è ancora finita è preceduto da altri suoi libri di contenuto storico: Storie scordate (2015) e Sutera-Milocca. Un comune del latifondo siciliano dalla grande guerra al fascismo (2007).
Gaetano Cellura