L’emissario del Califfo, inaspettatamente solo, ma sfarzosamente vestito di kandurah chiara, bisht di colore scuro, sfrangiato in oro, e kufia a scacchi azzurro e cenere, attraversò il breve tratto ardente tra l’auto blindata e la torre di cristallo, un pezzo di ghiaccio piantato nel bel mezzo del deserto, con passo lungo e svelto.
Oltre la porta a giro, nella grande hall, il direttore dell’hotel gli si fece incontro con un brivido: presentendo in quella apparizione solitaria una visione di esplosione e di morte.
Ma l’emissario, palme aperte, maliziosamente, ostentò un sorriso di pace, accompagnato da un rapido “Salam aleicum”, cui il direttore rese, con sollievo, un “Aleicum salam”.
Salirono, dalla hall all’ultimo piano, su per l’ascensore di servizio, uno di fianco all’altro, il direttore con il capo prima in giù e poi in su, l’emissario con il naso quasi sulla porta a specchio, nel ristoro della frescura artificiale dell’hotel.
All’apertura della porta, il direttore si portò impercettibilmente un passo indietro, e l’emissario, con lo stesso passo di prima, si diresse verso l’ampia sala a vista sul deserto con al centro una grande tavola rotonda, contornata da uomini tutti in giacca e cravatta, ma dai tratti del viso e dalla forma del corpo e dalla statura, quasi tutti diversi tra loro.
I corvini, più bassi, dai volti affilati e stanchi erano gli interpreti, gli altri, di carnagione uguale, solo meno toccata dal sole, erano i funzionari locali, gli ultimi tre, pelle chiara e capelli dal castano al biondo, europei.
L’inviato di monsier Pesc (barocco nome per designare la donna che in quel momento era al vertice dell’istituzione deputata a trattare gli affari esteri e la politica di sicurezza della Comunità europea) si riconosceva subito tra i tre: per il tratto rigido del viso, e le braccia incollate al corpo.
L’emissario raggiunse la sedia del tavolo che gli venne indicata, incassò la stretta di mano dell’inviato di monsier Pesc, attese che egli si sedesse alla sedia opposta del tavolo, e rimase a guardarlo, muto, in attesa che fosse lui a muovere parola.
L’incontro era stato preparato con infinite precauzioni, di sicurezza, di riservatezza, e non v’erano da temere sorprese, ma nemmeno troppe speranze da nutrire, da entrambe le parti.
“Lei capisce la mia lingua?”, chiese per prima cosa l’inviato, alzando gli occhi da una cartella nera gonfia di fogli stampati e di carte geografiche colorate.
L’emissario del Califfo rispose nella sua lingua, scandendo lentamente, tanto lentamente da riuscire caricaturale, le parole, all’indirizzo degli interpreti.
“Dite all’Illustre messaggero che accetto voi come interpreti”.
Dei due corvini, uno prese carta e penna, l’altro tradusse a beneficio dell’inviato di monsier Pesc.
“L’emissario del Califfo dichiara di accettare gli interpreti”.
L’inviato non si aspettava che l’emissario accettasse di giocare la partita sul terreno di una lingua ostile, anche se era certo che l’emissario sapesse parlarla, e passò avanti con il protocollo.
Spiegò che l’incontro, per come si era convenuto, non sarebbe stato filmato né registrato, e che unica traccia sarebbe stata il resoconto scritto di pugno dell’interprete con la penna in mano.
L’emissario piegò in giù il capo, per assenso, e lasciò cadere parole di approvazione che non fu necessario tradurre, ma solo di trascrivere con un netto: “l’emissario approva”.
Per il resto del tempo fu soprattutto l’inviato di monsier Pesc a parlare: in estenuante attesa di una controproposta alle spicciole riserve territoriali offerte per evitare una guerra sul campo.
Ma ad ogni offerta, ad ogni proposta, in effetti sempre la stessa, un’offerta di resa e di smobilitazione quasi incondizionata, l’emissario del Califfo sorrideva e rispondeva: “Questo né il Califfo, né Dio potrebbero mai accettarlo”.
Nella sua sottigliezza, l’emissario voleva lasciar capire che neppure aveva avuto istruzione per trattare una simile proposta di resa o di smobilitazione, e che però altre istruzioni certamente aveva avuto.
Dopo tanto girarci intorno, all’inviato di monsier Pesc toccò di dire quel che aveva sperato di non dover dire.
“Così non ci resterà che far mettere gli stivali sul campo”.
Lo disse ben chiaro, per due volte, con tono fermo e sguardo fisso e severo sull’interlocutore.
Che non se ne lasciò turbare, e rispose.
“Dio guarderà e giudicherà”, il tasbeeh, il rosario arabo, gli si mosse tra le dita.
E l’interprete tradusse: “Allah guarderà e giudicherà”.
Nella stanchezza di un negoziato che neppure prometteva di cominciare, l’inviato di monsier Pesc affrettò la conclusione: “… E cosa crede che vedrà?”.
“Vedrà tante sue creature calpestate nel fango”.
“E lei crede che questo Allah possa davvero volerlo?”
L’emissario del Califfo allora rispose: “Non sarà stato Dio a volerlo, ma soltanto voi”.
L’inviato di monsier Pesc levò in alte le spalle: inutile continuare a discutere con quel fanatico votato al martirio.
E così l’incontro si concluse: senza che ad alcuno dei presenti venisse in mente che, nella lingua dell’emissario, Allah e Dio erano la stessa precisa e identica cosa.