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I cruciverbisti del dialetto siciliano e l’orina dei gatti nel sacco del pane

Al mio amico Roberto Crimì, che il dialetto siciliano ben conosce e pratica.

 

NON DIRI QUATTRU SI NON L’HAI N’U SACCU

(Non dire quattro se non l’hai nel sacco)

Solo i morti non possono difendersi da chi ne calunnia o falsa la memoria. Il dialetto siciliano è scomparso da tempo, è morto, dunque gli è già stata assegnata la sorte di poter essere falsato. Certo è un rischio che può non verificarsi né lasciare danni. Il dubbio sovrasta perché i cultori del dialetto de l’Isola del fuoco e delle arance, per dirla con Luigi Capuana saltando all’indietro di quasi due secoli nel tempo, sono solo nella stessa Sicilia legioni in ogni capoluogo di provincia. Il che è anche un bene e un buon auspicio. Salvo a censire quanti tra i legionari del dialetto siciliano abbiano avuto l’umiltà di un esame di coscienza prima di ergersi a paladini di una lingua morta. Purtroppo il dialetto non c’è più. E non si dice grattandosi a sangue per la sua perdita, sia perché si farebbe la figura del fuoco quando si lamenta per l’acqua che bollendo aumenta di volume e tracima dai bordi della pentola, sia perché se sono morte lingue come quelle delle scritture di autori come Eschilo, Sofocle ed Euripide, o quell’altro tale Platone, etc. e senza nominare necessariamente i lirici greci dei frammenti, che ci sono rimasti per poterli citare e persino maldestramente copiare, non resta che la rassegnazione a fronte delle leggi non scritte dell’ordine e del disordine delle cose del mondo. Quindi niente lacrime per la scomparsa del dialetto siciliano, come di tutte e le tante parlate regionali nell’epoca dell’usa e getta, dei rottamatori e delle velocità che gareggiano con quella dello stesso pensiero umano. Leggasi internet.

2 – Non dire quattro se non l’hai nel sacco, avverte il proverbio nella lingua della comunicazione nazionale che traduce quella del siciliano. Ma non solo del siciliano, che anzi stando alle informazioni che i cultori domenicali dei dialetti dovrebbero conoscere o cercare di conoscere prima di alzare pierinescamente il dito o l’intera mano per contrapporvi un falso maleodorante di piscio di gatto nel sacco della loro presunzione o in quello della loro disinformazione che esso sia, perché in extrema ratio di sacco si tratta e di piscio di gatto, quando mischiando i cavoli con i cardi fanno germinare i cardoni, che sono verdura commestibile ma hanno le spine, come tutti sappiamo. Orbene, il fatto giace incolume, come avrebbe detto quel tale dalla locuzione difficile, ma nella sua realtà paremiologica altro è dire “Non dire quattro se non lo hai nel sacco” altro sia l’affermare che la versione esatta possa essere quella del “Non dire gatto se non lo hai nel sacco”. Per carità, non ne faremo una querelle contro chi può avere sbagliato, cristiani come siamo daremo orecchio e parola a chi ci direbbe “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”. La questione non ci sembra possa o debba essere questa. Essa infatti non raggiungerà mai la sartriana nobiltà di una question. Non sarà ridicolo, insomma il poter fare esibizione di protervia col negare l’evidenza fino a insultare nella stessa misura del teorema di quella volta del bue, che non si era peritato di dare del cornuto all’asino.

3 – I latini non solevano fare sconti, e al momento di fermare una verità sentenziavano: Onus probandi incumbit ei qui dicit!E pipa”, avrebbe risposto un nonno siciliano al nipotino presuntuoso che aveva finito di raccontargli di aver visto le quaglie posarsi sui fili dove la nonna soleva appendere il bucato. Il “fatto” del sacco e del quattro (e mai del gatto!) ha una sua storia, come gli eventi e tutte le cose, parole e locuzioni comprese, proverbi inclusi. Infatti il proverbio del gatto nel sacco, caro agli esorcisti dei truffatori e degli stessi meno azzardosi imbroglioni, è all’origine di quel sacco nel quale si vuole, con proterva violenza costringere il gatto al posto di quella forma di pane casereccio che ha dato a suo tempo origine al proverbio del non dire quattro. L’equivoco dei legionari del dialetto siciliano scaturisce proprio da questa svista, il contaminare il proverbio di chi esorcizza il pericolo del farsi rifilare un gatto nel sacco, gatto spacciato per coniglio, scambiandone forma e significati con il detto “storico” del proverbio che ha per protagonista un monaco e il suo giovane assistente ancora privo di tonaca, cui veniva affidato il sacco per la raccolta delle forme di pane che i signori elargivano a ogni inizio di settimana in forma un po’ di dono e un po’ d’elemosina per sostenere i frati poveri e il loro convento. Il giovane monacando stando in strada reggeva il sacco per i lembi della sua parte aperta, mentre dal balcone del palazzo sovrastante il benefattore vi indirizzava le forme di pane. Consuetudine di ogni lunedì presso le famiglie dei ricchi. Il giovane, dunque portava il sacco con i pani, e il monaco anziano assisteva, per controllare e garantire la regolarità dell’operazione. Avvenne che un giorno il giovane, abituato a contare ad alta voce la quantità di pagnotte che veniva giù dal balcone, pronunciasse la cifra (quattro)nel momento in cui il pane veniva lasciato cadere, e con questa sua abitudine aveva assegnato, appunto, il numero quattro a una ciambella appena lanciata dal benefattore, ma che era finita sul suolo ai suoi piedi e non dentro il sacco. Al che il frate lo aveva redarguito severamente, invitandolo a non dire quattro prima che il pane fosse già dentro il sacco. Tutto questo ce lo ha raccontato anche Giuseppe Pitré, il quale, a sua volta lo aveva confrontato con il “Saggio dei proverbi umbri” che cita l’episodio a pag.17, e arricchendo la citazione con il riportare la formula del proverbio stesso da un testo in dialetto veneziano: ”No se dise quatro co non l’è nel saco”e, per l’onus probandi dei giuristi latini antichi, scomodando il Pasqualigo della “Raccolta di proverbi veneti” (volume III, pag. 27 edito a Venezia nel 1858 dalla Tipografia del Commercio). Sarebbe ora, dunque, di finirla con il Non dire gatto se non lo hai nel sacco, alterando e obliando un bel proverbio che tira in causa il gatto, questo si, ma per mettere sull’avviso chi acquista qualcosa senza prima averne controllato la consistenza, appunto, donde: N’accattati u jattu n’u saccu (Non acquistate il gatto nel sacco) accertate che nel sacco non ci sia un coniglio o, viceversa: accertate perché qualcuno al posto del coniglio vi ha messo nel sacco un gatto!

4 – Curioso che il proverbio che esorcizza l’inganno, l’imbroglio e persino la truffa, con l’invitare a non comprare “il gatto nel sacco”, sia col passare del tempo e del pecoreccio finito per fungere da proposta falsificatrice del proverbio che i legionari dei dialetti ripudiano forse per il suo odore di buon pane casalingo padronale, (guastidduni, lo codifica il Pitré a pagina 127 del quarto volume del suo “Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani”, Edizioni del Vespro, Palermo 1978). Forse persino gli eminenti filologi cruciverbisti che presiedono alle comunicazioni dei programmi della Rai dovrebbero essere più cauti prima di chiudere il gatto nel sacco con quattro per cabala, che invece fa novanta anche per i poveri gatti spaventati, come tocca in sorte al malcapitato felino dei legionari cruciverbanti da “salotto bene”, cui non resta (ai gatti, appunto) che innaffiare per reazione biologica il sacco che era piuttosto destinato a contenere i fragranti guastidduna di grano duro per la mensa dei monaci scalzi. E per questa volta “francescani poveri” del dialetto siciliano.

 

“Non diri quattro si non l’hai n’u saccu” nella interpretazione di Annamaria Squadrito