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Per convenzione chiamerò “contemporaneo” tutto ciò che non è antico, e per antico intendo entità che cronologicamente hanno almeno 5-6000 anni, come quel vino recentemente scoperto in una grotta dell’agrigentino, che sebbene sia antesignano rispetto al nazzareno, porta con se il sapore, o meglio risuona di ecumene e comunione. La poesia scritta è contemporanea, la neurofisiologia è contemporanea, la psicologia è contemporanea, la critica letteraria è contemporanea insieme all’arte contemporanea .

La musica è antica; tra gli studi meno recenti sulla struttura della melodia potremmo considerare le riflessioni sul tetracordo pitagorico datate 495 a.C. e ampiamente documentate da Guenon e Fabre D’Olivet. Siamo sicuri tuttavia che fino a quel momento esisteva già una molteplicità di culture poliritmiche nel mondo, con il proprio corredo di strumenti musicali  codici e repertori, dove la scrittura era assente o relegata a semplici simboli per il calcolo quantitativo.

Gran parte di questi ingredienti ha a che fare con una relazione irrisolta nel rapporto estetico tra ciò che è umano e ciò che è divino, laddove l’umano contemporaneo occidentale cerca di trascendere evocando il divino, esternalizzandolo, ponendolo cioè al di fuori di sé. Se accettiamo che umano e divino siano complementari, contenuti l’uno nell’altro, possiamo a ritroso prendere in considerazione lo  sfondo narrativo che supporti questa visione nella memoria collettiva, quel vocabolario del corpo che si articola in movimenti e produzione musicale, la danza, il ritmo.

Io danzo, noi danziamo, io suono, noi suoniamo, e qui il vino non manca mai.

Musica e danza ci raccolgono in comunione, la poesia lo fa agli albori attraverso la preghiera e il proverbio. Della prima non possiamo escludere un origine musicale anzi mi sembra ovvio, il secondo ha un carattere individuale per la sua funzione di formula sapienziale per il trasferimento di conoscenza pratica, quindi slegato dalla trascendenza e dal momento collettivo.

La parola scritta in forma di poesia ha un carattere particolare perché il motivo è: io scrivo e voi leggete. Dove è la relazione? Lo spleen Baudleriano, nasce in solitudine cosi come l’immenso di Ungaretti e grazie alla invenzione della stampa sono stati socializzati, grazie alla invenzione della critica letteraria sono stati magnificati. Forse, con l’imposizione del web, poesia e proverbio potrebbero trovare posto tra chat e profili social come disperati tentativi di condivisione, in una società arida che si consuma nella solitudine telematica, che non suona e che non danza. Giorgio Colli  ragionando sui fenomeni della spettacolarizzazione contemporanea scrive: “Oggi anche gli uomini d’azione guardano, più che non agiscano”. Ma davvero musica e poesia sono in conflitto? Ma davvero il web è la soluzione? Potremmo dire che poesia e web hanno in comune l’assenza di un sapore collettivo di una esperienza che possa simultaneamente e partecipativamente legare degli esseri umani nella espressione di significati e nella loro condivisione. La danza e la musica sono scaturite dal bisogno umano di condivisione sia esso legato alla morte, o alla gioia della vita o ancora alla condivisione del senso del divino. Come recita un antico testo cinese dal titolo I-Ching evocando l’archetipo del fervore: “la musica ha il potere di sciogliere la tensione del cuore, la violenza degli oscuri sentimenti, il fervore del cuore si manifesta spontaneamente nel canto improvviso, in danze e ritmici movimenti del corpo. Fin dall’antichità l’azione inebriante del suono invisibile, fu sentita come un mistero”. Lo stesso Confucio commentava: “chi comprendesse questo mistero potrebbe governare il mondo come questo ruotasse nella sua mano”. E parliamo della Cina dove l’ideogramma che descrive la musica e quello che descrive la medicina sono pressoché identici.

E allora quale è la radice di questo conflitto tra musica e poesia?

Qualsiasi risposta a questo interrogativo può essere solo di carattere soggettivo perché il quesito stesso è alieno da qualsiasi soluzione estetico oggettiva poiché, parafrasando Schopenhauer, il soggetto creativo realizza il conflitto nell’arte solo quando è animato dai suoi scopi egoistici. Ma se vogliamo dare senso alle nostre radici cattoliche, volendo porre in essere un conflitto dovremmo chiederci: chi ha scagliato la prima pietra?

Procediamo in questa direzione sebbene non sia di grande interesse, nella misura in cui individuare un colpevole non migliora certo la nostra disposizione animica, il cui vigore dipende da ben altri fattori, assai lontani dalla scrittura e maggiormente contigui ai mondi dell’ azione creativa ed espressiva, compresa effettivamente l’arte del tantra, dell’amore, della musica della danza e della meditazione.

Il quesito del Prof. Leotta suscita diverse riflessioni perché riprende un tema molto importante e ampiamente dibattuto alla fine dell’800 in un momento storico di profonda regressione dell’umanità, il culmine della rivoluzione industriale, in cui le forze dell’accumulazione e dello sfruttamento producevano inquietanti curvature sociologiche sfociate nelle guerre mondiali e nella produzione delle virtualizzazioni contemporanee (il 900). E’ qui che nel vortice del mutamento della società e sull’onda delle profonde trasformazioni dei costumi della comunicazione, Friedrich Nietzsche erompe sulla scena e sceglie come campo di battaglia la storia della nascita della tragedia. Un territorio altipiano da cui poter osservare ed esprimere una serie di considerazioni sull’arte, con un effetto riverberante sugli aspetti del molteplice. E allora analizzando il rapporto tra testo poetico (nell’alveo del canto popolare) e musica, il filosofo tedesco ci ricorda che “Il canto popolare rappresenta per noi uno specchio musicale del mondo, che cerca poi per se una apparenza di sogno parallela e la esprime nella poesia (…)  nella poesia del canto popolare vediamo dunque il linguaggio teso al massimo per imitare la musica, (…) (ma) la musica non ha bisogno dell’immagine e del concetto, solo li tollera accanto a se (perché) il simbolismo cosmico della musica non può essere realizzato dal linguaggio, (quindi) la parola, l’immagine, il concetto creano una immagine della musica e subiscono poi in sé la violenza della musica”. Sebbene questa idea avesse le radici nel pensiero di Schiller (“Presiede in me una certa disposizione d’animo musicale e solo a questa segue l’idea poetica”) è comunque una espressione soggettiva che va relativizzata al contesto contingente. La risposta alla domanda del Prof. Leotta a mio avviso non è nascosta tra le righe di una teoria del tempo e dello spazio ma tra le ragioni storiche ed epistemologiche che hanno influenzato i crismi della comunicazione nel contemporaneo. Non è escluso però che in questa epoca di profonda regressione intellettuale, di estrema confusione semantica nascano riflessioni come stratagemmi per stimolare il ritorno all’essere umano in sè, sempre più consapevole del senso della terra e del cielo, sempre più presente nelle dinamiche del suo proprio conflitto interiore in prospettiva maieutica e creativa. Tra queste riflessioni trova posto anche una teoria del  possibile che cerchi di rinvigorire gli aspetti migliori dell’umano attraverso usi creativi di forme espressive come la poesia in modalità relazionale e partecipativa.