L’idea più comune di popolo, senza riferimento politico-sociologico, è quella dell’insieme dei cittadini di uno Stato, di cui essi sono la base. Si rischia un’esagerazione di peculiarità o di vaghezza, se il concetto di popolo si usa con estrema rigidità. In effetti il concetto di popolo è fra i più controversi, anche perché il suo significato cambia in base al quadro situazionale.
Popolo non è un sostantivo, che di per sé porta già implicito alcunché di progressismo, per cui è enfatica l’espressione “largo al popolo” di Jean Luc Melenchòn, fondatore in Francia nel 2008, del Partito di Sinistra. Non possiamo nemmeno affermare che popolo sia un termine fascista, per il collegamento con il populismo. Nella “Dichiarazione Universale dei Diritti collettivi dei Popoli”, la CONSEU, cioè la Conferenza delle Nazioni d’Europa senza Stato, che è un forum di dibattito e di riflessione con l’obiettivo di promuovere un’Europa rispettosa delle diversità nazionali, linguistiche e culturali afferma: “Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e ad una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato, costituisce un popolo.
L’immensa polisemia del concetto di popolo, quindi, esige un’analisi scrupolosa ma obiettiva dei suoi presunti significati. Bisogna anche considerare che nella nostra cultura c’è come un retaggio d’influenza del pensiero di Aristotele, l’identificazione del popolo con la “classe media”, riflesso della teoria del “giusto mezzo”, espressa nell’Etica a Nicomaco, dal filosofo stagirita. Infatti Aristotele, che sembra essere intervenuto a correggere il pensiero aristocratico di Platone, sostiene che per costituire una società democratica bisogna innanzitutto creare una classe media. In una società è un fattore negativo, se il popolo si riconosce per la sua identità razziale.
E’, invece, molto positivo, quando si prospetta la costituzione di un popolo, al quale, fino a quel momento, era stata negata dalla “dominazione coloniale ed imperiale o da un invasore”. In questo caso la nascita di un vero popolo comporta politicamente l’esautoramento dello Stato tirannico, di cui esso desiderava il dissolvimento. L’auspicio della scomparsa dello Stato è chiaramente riferito al periodo delle guerre coloniali e dei conseguenti imperialismi, in cui si usavano termini dispregiativi, come tribù o addirittura selvaggi, per coloro che venivano colonizzati e schiavizzati, mentre il termine popolo veniva utilizzato per nobilitare gli invasori, decantati come popoli conquistatori. L’altalenante mutevolezza del concetto di popolo si nota, in particolar modo, nell’epoca delle guerre di liberazione nazionale, che “hanno consacrato l’espressione popolo + aggettivo nazionale”, imponendo l’uso della parola popolo a coloro, ai quali ne era stato prima proibito l’uso dai colonizzatori, che si ritenevano arbitrariamente gli unici veri popoli. Quando lo Stato si costituisce e si inserisce nel novero internazionale, il popolo, a cui era stato assegnato il nobile compito della liberazione nazionale, portata a termine orgogliosamente, non ha più un ruolo politico ma sociologico.
Un’impostazione prettamente sociologica è la considerazione del popolo come classe sociale, con cui ci si riferisce all’insieme dei cittadini di condizioni più modeste rispetto a coloro che hanno “privilegi di ricchezza, di cultura e uno status sociale elevato”. Ufficialmente il concetto di popolo compare al tempo della democrazia di Pericle in Grecia e poi con il binomio Senatus populusque romanus nel periodo della Roma repubblicana. Purtroppo i latini, per non cambiare qualcosa al termine populus, forse una vocale, l’hanno lasciato con lo stesso significato di pioppo. Ma il popolo romano è una parte fondamentale ed insostituibile, perché assume un ruolo civico e politico nella società. Comunque la Repubblica romana è legittimata dal popolo e dal senato aristocratico, che stanno in “un raffinato equilibrio istituzionale”, celebrato da storici classici come Polibio e Livio e diventato modello per i secoli successivi. Chissà cosa avrebbe detto Nietzsche, che considerava il popolo un male purtroppo necessario, se fosse vissuto nel periodo della Roma repubblicana!
Purtroppo il “raffinato equilibrio istituzionale” tra il popolo e il senato, nel medioevo, si rompe determinando la mortificazione del populus latino, a tutto vantaggio del clero e dell’aristocrazia. La situazione non cambia neanche con la formazione degli stati territoriali nel 1500, quando il popolo diventa “un corpo sociale di sudditi, la cui sovranità viene quasi estorta dal principe, che la utilizza in modo assolutistico.
La Rivoluzione francese, poi, permette finalmente al popolo di sottrarsi al pesante gioco, a cui era stato sottoposto nei secoli precedenti. Questa rivoluzione copernicana di riconsiderazione del popolo è stata il frutto della studiata ideologia, portata avanti dall’Illuminismo, che si prefisse di ridare ad ogni singolo cittadino la dignità di uguaglianza giuridica, una volta ripristinato il principio di sovranità popolare, che dava al popolo una caratura politica.
Alla fine del Settecento, la cultura romantica e l’emergere degli Stati nazionali tendono ad identificare il popolo con la Nazione. In effetti nella “Enciclopedie” degli illuministi francesi compare la parola nazione, che viene definita come “il nome collettivo di cui si fa uso per designare una quantità considerevole di popolo, che abita in un determinato territorio chiuso entro certi limiti e che obbedisce ad un medesimo governo”. Ma il concetto di popolo riacquista grande importanza con “Il contratto sociale”, in cui Jean Jacques Rousseau dice: “Il popolo non viene mai corrotto, ma spesso ingannato, e solo allora sembra volere ciò che è male”. E distinguendo tra la volontà di tutti e la volontà generale, continua: “Spesso c’è una differenza notevole tra la volontà di tutti e la volontà generale: quest’ultima considera soltanto l’interesse comune, quell’altra considera l’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari”.
Durante il Romanticismo il concetto di popolo è centrale e costituisce “il punto di riferimento della rivendicazione di un territorio ad esso corrispondente, cioè di una nazione”. Nonostante la connessione del popolo con la nazione, vista dai romantici nell’Ottocento, in Italia l’identità del popolo non è ancora perfettamente delineata, se il Manzoni nell’ode “Marzo 1821” auspica: “Una gente che libera tutta/ O fia serva tra l’Alpe ed il mare;/ una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor.” Nel Novecento, infine, con il termine popolo si allude, nel senso democratico, alla sovranità popolare e in senso sociologico, alla cittadinanza.
Appare ormai chiaro che il concetto di popolo ha una varietà di significati, che riflette gli ambiti, in cui il termine è stato usato ed abusato. Non è, quindi, così semplice definire il popolo, perché esso può significare anche, nazione, cittadinanza, sovranità o classi subalterne. Inoltre il significato del termine popolo, in Europa, cambia se lo riferiamo al pleupe francese, o all’inglese people, o al tedesco volk. Da tutta la varietà d’uso e d’abuso del termine si arriva, infine, a quelli che sono i suoi due pilastri concettuali e cioè popolo “a significato estensivo” e popolo “a significato intensivo”. Il primo comporta “una comunanza di territorio, di storia complessiva, di lingua d’uso, di istituzioni politiche”, che sono i connotati del demos; il secondo implica, invece, “la comunanza di una particolare razza, stirpe, religione, tradizione e i suoi relativi diritti particolari”, che sono le prerogative dell’ethos. Purtroppo questi indicatori di democrazia e di reazionarismo con tendenza verso il razzismo, hanno fatto la storia del Novecento, dando luogo a due diverse ideologie: la democrazia e il totalitarismo.
Carmelo Nicosia