L’Italia, come nessuna nazione europea o mondiale, è stata interessata da una varietà di populismi, che hanno contribuito a farle raggiungere il primato in questa specialità. Infatti l’Italia li ha provati tutti i populismi, da quello del periodo prefascista a quello del ventennio fascista, da quello della prima Repubblica, dominata dallo strapotere della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati, in verità, irrilevanti come peso politico, a quello della seconda Repubblica dal 1994 al 2011, “contrassegnata dalla polarizzazione del centrodestra, tenuto in piedi dal magnate dei media, Silvio Berlusconi, con due periodi di discontinuità, con l’economista Romano Prodi, che non riuscì a tenere unito il centrosinistra”. Ma qual è la caratteristica del populismo italiano? Nessuna peculiarità, è il classico populismo di ogni paese, il cui leitmotiv è sempre lo stesso, “Noi buoni contro loro cattivi”. Insomma il populismo è un’operazione gattopardesca, con cui si fa credere al popolo di voler cambiare tutto, per cui si usano dei termini ad hoc, come rottamare o asfaltare, dal significato inquietante mentre in realtà non cambia nulla. Eppure siamo noi italiani, che forse abbiamo addirittura inventato il populismo! Vittorio Foa, ex segretario della CGIL, disse: “Non dimenticate mai che noi italiani abbiamo inventato il fascismo. E’ stato esportato in Spagna, Portogallo, Grecia, Germania, nei Balcani e in Europa centrale, perfino in Scandinavia e in Gran Bretagna, ma lo abbiamo inventato noi”. Ed il fascismo è la formula più riuscita del populismo. Ma se vogliamo ricostruire “il codice genetico” del populismo italiano dobbiamo andare indietro nel tempo di circa un secolo prima del fascismo e cioè alla fine del Settecento, proprio quando i giacobini democratici di Napoli, ispirandosi alla Rivoluzione francese del 1789, crearono la Repubblica Partenopea. Vincenzo Cuoco, scrittore molisano di Campomarano, che partecipò direttamente alla rivoluzione napoletana del 1799 e che fu membro della Repubblica Partenopea, nel 1801 pubblicò il famoso “ Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, pieno di duro realismo politico, in cui dà anche uno spaccato della “vivace ed avanzata cultura filosofica e politica d’inizio ‘800, nella capitale del sud d’Italia”, degli intellettuali illuministi napoletani, Pagano, Genovesi, Filangieri, Lomonaco, Caracciolo. Molto esemplificativa è la seguente precisazione di Cuoco sul popolo: “Tutte le volte che in quest’opera si parla di nome, di opinione, di grado, s’intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.
Ma nonostante questo lusinghiero giudizio sul popolo, Cuoco ne dà un’immagine raccapricciante, quando racconta con amarezza la fine di Eleonora Fonseca Pimentel, la prima donna direttrice di un giornale in Europa, “il Monitore napoletano”, un’intellettuale napoletana, che aveva partecipato alla rivoluzione. Questa coraggiosa donna, portoghese di nascita e napoletana d’adozione, fu mandata al patibolo da Ferdinando IV di Borbone, al suo ritorno a Napoli, dopo l’ignominiosa fuga in Sicilia al primo sentore rivoluzionario. Infatti Cuoco descrive il popolo, che Eleonora Fonseca, come tutti gli intellettuali partecipanti alla rivoluzione, avrebbe voluto riscattare, da secoli di feudalesimo, di ignoranza e di oppressione, per dargli finalmente una sua dignità. Proprio questo popolo, invece, oltraggia Eleonora Fonseca e si dimostra soddisfatto e felice, quando vede impiccata colei, che gli aveva parlato di emancipazione e gode nel vederla pendere dalla forca in mezzo a piazza Mercato. Antonella Orefice, scrittrice e studiosa del XVIII secolo napoletano e particolarmente della Repubblica del 1799, in un suo libro pubblicato nel 2019 dal titolo “Eleonora Pimentel Fonseca. L’eroina della Repubblica napoletana del 1799”, dice: “Siamo antimonarchici e sosteniamo l’Italia repubblicana unita. Che siano Borboni o Savoia, per noi non fa differenza. Gli assassini sono tutti uguali… Stavano unificando l’Italia quegli eroi, ma non come monarchia bensì come Repubblica. Ma il cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo dei duchi di Bagnara e Baranello Ruffo, l’uomo mandato da Dio, che usò il suo Dio per spargere sangue”, chiamato dal borbone Ferdinando IV, guidò l’esercito sanfedista, formato da ben 25000 contadini poveri, che costituivano il popolino dei “bassi napoletani”, riuscì a fermare le riforme, che la Repubblica napoletana aveva cominciato a realizzare, naturalmente “giocando la carta populista”. Infatti il governo democratico-riformista della Repubblica napoletana del 1799, aveva già abolito, come afferma Vincenzo Cuoco, il medievale testatico della gabella, della farina e del pesce e si accingeva a fare altre riforme utili, quando il cardinale Ruffo, strumentalizzando il popolo mite e bonario e sfruttando anche la sua fede (fu la guida dei sanfedisti), seminò stragi dalla Calabria fin al Molise. Egli riuscì ad inoculare l’odio popolare contro le élites intellettuali che volevano riscattare il popolo, con lo slogan tipicamente populista “Meglio il mal che conoscete del ben a venire”, facendo fallire il governo democratico-riformatore della Repubblica napoletana. E’ incredibile che a distanza di più di duecento anni dal fallimento della rivoluzione napoletana del 1799, ci sia in Italia ancora una certa similarità di vedute nel rapporto tra élites intellettuali e popolo, riguardo a un domani che si ritiene non migliore dell’oggi, per cui si opta per “un ieri usato, un po’ ammaccato, ma rassicurante” che in fin dei conti, è il messaggio del cardinale Ruffo e del populismo gattopardesco italiano. Lo constata, tra gli altri, anche il grande sociologo Zygmunt Bauman, il quale in un articolo pubblicato su “Espresso”, dal titolo “Perché i demagoghi hanno successo”, afferma: “Ecco, penso che la fiducia nella bontà del futuro stia svanendo, gradualmente ma impietosamente. E’ cambiato il segno. Oggi il progresso evoca più paura che speranza… Il progresso si associa al timore di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica. Vorrei richiamare l’Angelus Novus”. L’Angelus Novus è il titolo di un dipinto di Paul Klee, il cui soggetto è un angelo, che sembra allontanarsi da qualcosa, che rappresenta il passato. Ma una tempesta che spira dal paradiso, cade così abbondante che non gli permette di chiudere le ali distese. La tempesta vorrebbe spingerlo nel futuro, ma l’angelo gli volge le spalle. Chiaramente la tempesta è la metaforica rappresentazione del progresso, per cui Bauman continua: “Ecco, questo angelo oggi è rovesciato dalla forza degli incubi della decadenza, di cui è foriero l’avvenire minaccioso. Le esperienze del passato, imperfette ma sperimentate e quindi ben conosciute, ci appaiono molto più sopportabili delle invenzioni imprevedibili del futuro”. Quindi la paura dell’avvenire ha segnato in parte il fallimento della rivoluzione napoletana del 1799, ma la causa predominante è stata anche e soprattutto l’applicazione del modello francese alla realtà napoletana, che ha coinvolto solo una élite molto limitata numericamente ed impreparata alla difficile arte del GOVERNO senza tener in alcun conto le peculiarità, le tradizioni e soprattutto le necessità reali e le aspirazioni più autentiche, che caratterizzavano il popolo napoletano. Purtroppo s’individua già all’alba del XIX secolo nella frattura tra classi dirigenti e istanze popolari quello che sarà il vero dramma, che peserà nella storia dell’Italia sino ai nostri giorni. Anche Antonio Gramsci nei suoi “Quaderni dal carcere” riflette su questa endemica debolezza della cultura democratica italiana, dicendo che le classi dirigenti innovatrici, come gli intellettuali della Repubblica napoletana del 1799, non hanno saputo dialogare con il popolo, isolandolo e lasciandolo in balia dei burattinai populisti.
Carmelo Nicosia