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Il cielo è rosso per i ragazzi del CEP di Palermo: la lezione di Giuseppe Berto
nel romanzo “Fiori senza destino” (SEM) di Francesca Maccani,
finalista al Premio Berto 2019

Quando, nella mia adolescenza, lessi per la prima volta “Il cielo è rosso” di Giuseppe Berto, romanzo del dopoguerra italiano che descrive la desolazione di quattro giovani vite rimaste orfane di tutto, anche della speranza, non capii il passo evangelico che l’autore aveva premesso alla storia, né la ragione di quel titolo, apparentemente scollegato con il contenuto del testo. Scoprii poi che questi due elementi erano stati frutto dell’iniziativa dell’editore, e, da adulta, mi resi conto che erano stati in fondo un’illuminazione. Il cielo che si colora di rosso, a sera  come al mattino, è un segno preciso del tempo che ci sarà, ci ricorda l’evangelista Matteo. Ma l’uomo ha perso la capacità di “conoscere i segni dei tempi”, poiché “una generazione ipocrita ed adulta” non sa più riconoscere il disagio e il dolore profondo dei suoi giovani, dei suoi figli più deboli che, come retoricamente si dice in tante occasioni ufficiali, “sono il nostro futuro”. Una generazione appiattita su una prospettiva miope ed angusta che non vede i giovani, non avverte e non si fa carico delle loro esigenze, non crede in loro.

Leggendo il romanzo di Francesca Maccani “Fiori senza destino”, edito da SEM nel 2019 e finalista al premio Berto, ho maturato le stesse riflessioni, più amare, se possibile, perché gravate dalla consapevolezza che gli anni intercorsi tra le due opere (1946-2018) non avevano sanato una ferita profonda nel tessuto sociale di un’ Italia che si credeva in marcia verso il progresso. “Fiori senza destino” racconta l’esperienza di una giovane professoressa trentina, Sara, proveniente da una realtà efficiente e gratificante (il mondo scolastico del Trentino) e giunta per amore a Palermo, dove si trova  alle prese con il difficile ambiente e il sofferto vissuto degli alunni di una scuola periferica del capoluogo siciliano.Il quartiere CEP di Palermo è una delle tante periferie del mondo, segno di contraddizione in un’ epoca  opulenta e rumorosa, di condivisione social, di martellare mediatico,  delle opportunità per tutti, in cui appare  così dissonante parlare di isolamento e povertà  di giovani vite ai margini. Si tratta di ragazzi del ventunesimo secolo, in una parte del mondo comunque baciata dalla fortuna e dallo sviluppo, ma che vivono ancora di espedienti, di violenza e di precarietà.

I giovani protagonisti di entrambi i romanzi in questione sembrano vagare come sopravvissuti, tra le macerie dell’Italia del dopoguerra, ferita, nel romanzo di Berto, tra i palazzoni anonimi e gli spazi inospitali del CEP, privi di servizi e di infrastrutture, separati dal centro di Palermo, quasi un ghetto, nel romanzo della Maccani.I due contesti storico-spaziali sono diversi, ediverse le ragioni storiche che hanno generato il quadro desolato che entrambi gli autori ci propongono, certamente. Ma la solitudine e l’asperità delle vite dei giovani protagonisti, dimenticati o, peggio, sfruttati dal contesto adulto circostante, mi sono parse tristemente simili. Un’Italia spettrale, distrutta nei suoi aspetti materiali come nello spirito, nel romanzo del dopoguerra; un’Italia che ha cercato di reinventarsi e in parte c’è riuscita, ma ha dimenticato (o sacrificato?)  molti, troppi suoi figli nel romanzo dell’autrice dei nostri giorni.

In entrambi i casi, l’arte che coglie, restituisce e, in ultima analisi, sa ancora denunciare.

Gabriella Grasso