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Alfio Scandura

 

Nella gelida mattinata del 14 gennaio 1903, la neve, sciolta dalle leggere folate di vento, si attaccava ai vetri delle finestre, impedendo la vista del paesaggio, lievemente imbiancato, a chi era all’interno di una casa di Pozzillo Superiore. Lì nasceva Alfio.La casa era riscaldata da una conca, con il carbone posta al centro della stanza principale e tutti erano in attesa.
La madre, Venera Raciti, il padre Giuseppe Scandura, con una R soltanto, accolsero Alfio a braccia aperte così come poi accolsero a distanza di quattro anni la seconda figlia, Angela.
Alfio, nacque bello grande e mantenne anche in età adulta questa sua statura imponente al di fuori della media, quasi un metro e novanta. Questi suoi geni dell’altezza furono trasmessi alla prima figlia, che per forza di cose si chiamava Venera, come la nonna e si trasmise anche ai nipoti e pronipoti tutti alti più meno come il nonno.
Il padre di Alfio svolgeva l’attività di fattore e gestiva le proprietà di padre don’Ignazio Strano, , che abitava in un sontuoso palazzo accanto al collegio S.Antonio di Scillichenti. Il prete, conduceva una vita libera per quei tempi e in assenza di banche chi aveva risparmi glieli affidava, ricevendo un piccolo interesse in cambio. Risparmi che il sacerdote investiva comprando terreni, che allora, creavano un buon reddito. Possedeva diversi appezzamenti di terreni per lo più vigneti e Giuseppe suo fattore glieli gestiva, occupandosi dei lavoratori che costituivano le cosidette “Ciurme”, squadre di operai agricoli che prestavano la loro opera sotto la guida del fattore.
La madre di Alfio, Venera, si occupava della casa e con un marito molto impegnato, di lavoro ne aveva da vendere, allora non esistevano gli elettrodomestici, ma esistevano le donne che con le loro braccia ottemperavano a tutte le esigenze, oltre Al far crescere due bambini.
Alfio, crebbe e andò a scuola, i primi tre anni delle elementari a Pozzillo e gli ultimi due li completò a Guardia, in quanto a Pozzillo si poteva arrivare solo alla terza elementare. Nei paesi i bambini non venivano mandati a scuola e il prima possibile si cercava di farli lavorare per sopravvivere. Alfio era un ragazzo privilegiato a frequentare tutte e cinque le classi elementari e questo accadeva perché il padre aveva un buon lavoro e di conseguenza un buon reddito e poteva mantenerlo a scuola.
Ma quando Alfio aveva 16 anni, il padre, Giuseppe, si ammalò e nessuno dei medici locali consultati capiva di che cosa si trattasse, si chiamò un professorone, il quale diagnosticando un caso di malaria, somministrò il chinino che lo condusse alla morte, ancora giovanissimo, poco più che cinquantenne.

Alfio Scandura

Ad Alfio, crollò il mondo addosso, ancora era poco più che un ragazzino, si recò da padre don Ignazio e gli chiese, sconfortato, cosa potesse fare… .
Padre don Ignazio gli rispose: “Quello che faceva tuo padre adesso lo fai tu!”, rincuorandolo che ce l’avrebbe fatta.
Alfio finite le scuole elementari, aveva seguito il padre nel suo incarico e conosceva per sommi capi quello che doveva fare e dietro la guida di padre don Ignazio si avviò verso un lavoro che appena conosceva ma di cui doveva assumersene le responsabilità.
Amministrava tutti i terreni del sacerdote, anche quelli in località “Risciala”, sull’Etna, sopra Zafferana Etnea, dove si coltivavano per lo più nocciole. Dirigeva gli stessi operai che aveva il padre, operai che vedendo un ragazzo ancora giovane e per il buon ricordo che avevano del padre, lo aiutavano a far bella figura ed avere buoni risultatati sulle coltivazioni e sulla produzione del vino. Con la direzione di don Ignazio, uomo dal carattere spiccatamente imprenditoriale, Alfio acquisì ben presto una certa autonomia nella gestione dei terreni e divenne un uomo distinto molto presto.
Nell’ottobre del 1931, si sposò con Santina Murabito, la quale proveniva da una buona famiglia di Pozzillo, il nonno, Giuseppe, era stato barone di Monteleone, l’odierna Vibo Valenzia, che in un periodo storico di contrasti politici, era stato esiliato dalla Calabria, in Sicilia. Egli non si perse d’animo, aveva abbastanza denaro da potersi comprare terre alla piana di Catania e armenti e iniziare una nuova vita e ridivenire ricco. Ma, disgraziatamente, vi fu un periodo, circa sette anni, di “mala pianeta” , una specie di carestia, dovuta alle continue piogge che allagavano i terreni della piana di Catania, non essendoci ancora opere di bonifica per cui il frumento marciva.
In seguito le cose cambiarono e si avviò un periodo più prospero per le coltivazioni e tutto andò per il meglio e riuscì a stabilizzare la sua posizione economica.
Giuseppe aveva quattro figli: il grande, di nome Rosario, due gemelli, identici, Angelo e Paolo, che neanche le mogli distinguevano se non fosse stato per il fatto che portavano la cravatta di colore diverso e dalla cravatta si facevano riconoscere. Angelo, ebbe dalla moglie una figlia di nome Santa e Paolo, una figlia di nome Lucia, madre della mia madrina di cresima, Margherita. E per ultimo Giovanni, il padre di Santina, mio bisnonno, che dalla moglie ebbe cinque figli: Giuseppe, Rosario, mia nonna Santina, Rosaria e Graziella,
Quando finirono i contrasti politici, Giuseppe, fu richiamato a Monteleone, ma Lui orgoglioso, non vi tornò più e i suoi beni furono confiscati e fu eretta una chiesa in suo ricordo. Quando morì, passò del tempo e la moglie, Santa, nonostante avesse quattro figli, si risposò con un altro figlio di barone. Questi, avevano tante terre alla piana di Catania, in località Monacella, verso Zafferana e sulla strada provinciale per Riposto all’altezza di Pozzillo Superiore. Avevano una splendida   carrozza trainata da due cavalli, che utilizzavano per gli spostamenti, un lusso che solo pochi potevano permettersi. Avevano il monsù, infatti l’aristocrazia dell’epoca, si serviva di cuochi professionisti. Andavano per la maggiore i “monzù” di Napoli con la z e i “monsù” siciliani, con la s, ai quali era riconosciuto un ruolo diverso dagli altri servitori e alla francese “Signori” i monsù erano considerati come veri e propri artisti, i quali si sbizzarrivano a creare piatti raffinati e soddisfare i palati di chi aveva una buona posizione economica, da poterselo permettere.
Quando Giovanni si sposò con Nedda, la mia bisnonna, il monsù preparò per loro, oltre al pranzo, le cosidette “mandorle Ghiassate” , ossia, mandorle glassate con lo zucchero, precursori dei moderni confetti. Tradizione che ha voluto ripetere la mia primogenita per il suo sposalizio.
Nedda, imparava le raffinatezze della cucina, dal monsù che aveva la suocera e ricreava piatti, che poi sono rimasti nella nostra tradizione di famiglia e che anch’io mi diletto a ricreare pensando a questa bella tradizione e per certi versi quasi una favola. Quando scrivo di questi ricordi, di tradizioni e storie della nostra famiglia, anche i miei figli, pensano che si tratti di favole, stentano a credere che sono eventi realmente vissuti dai nostri avi e di cui rimane traccia. Nonna Nedda, anche lei, come la suocera una donna bella e raffinata, amava vestirsi con cura e i figli li vestiva come “baronetti” lasciandoci foto di famiglia che ci stupiscono, per i meravigliosi abiti che indossavano. Corredi splendidi, scialli di pizzo, orologio svizzero a spilla con doppia catena d’oro, gioielli, mobili e oggetti di pregio, che esprimono il gusto raffinato di chi li possedeva.
Allora, I figli si rivolgevano ai genitori dando del Voi e il saluto alle persone anziane, bisnonni, nonni e zii fino agli anni 70 era “Ssabbenerica” che tradotto “Sia benedetto”. Si invocava la benedizione degli anziani, ed era il saluto più importante, che veniva dato in segno di rispetto.
Santina aveva queste radici e a volte ad Alfio, quando la deludeva, glielo faceva pesare con una frase che Lei gli riferiva per le occasioni .“Ti fici cristianu e tu…..”, frase che infastidiva non poco Alfio.
Santina, come da usanza, nelle buone famiglie, ebbe una buona dote, ventimilalire, che ci si poteva comprare una casa con molto meno, oltre al corredo a dodici, ossia dodici di ogni cosa, tutto in pura seta e le lenzuola in puro lino, ricamati a mano. Inoltre il 20 ottobre del 1931 il padre di Santina, Giovanni, comprava per lei una macchina Singer con tavolo” segretaire” come si può evincere dalla fattura di vendita n.123423 di Lire 1361, custodita, ancora nei cassetti del mobile e passata in eredità a mia figlia primogenita, Graziella, direttamente per volontà della bisnonna Santina, in quanto, secondo lei è la pronipote più creativa e capace di ricamare l’intaglio, come faceva essa stessa fino ad oltre ottant’anni.
Alfio, un po’ per capacità personali, un po’ per l’aiuto di padre don Ignazio che gli faceva da padre e gli dava tanti insegnamenti oltre a gestirgli i suoi beni, cominciò a prendere le” gabelle”, una sorta di affitto di terreni che i nobili, incapaci di coltivare, cedevano a chi aveva la possibilità di pagare anticipatamente l’affitto del terreno che concedevano in gestione . In questi terreni venivano coltivate diverse tipi di granaglie. Nella piana di Catania vi si coltivava il frumento, nelle zona collinare di Acicastello, dal Cavaliere Lavaggi, legumi vari, lenticchie, cicerchia e ceci. All’apice della sua carriera, Alfio, aveva 13 gabelle, un autista che lo conduceva giornalmente in questi terreni, in quanto non guidava e nel contempo con i grossi guadagni acquistava terreni per se, che si aggiungevano a quelli che Santina aveva avuto in eredità.
Si comprò un bel palazzo vicino la stazione di Guardia con annessa terra, il palazzo era stato costruito da don Sabbaturi Marinu di Pozzillo e Alfio, lo pagò quarantamilalire. Si racconta che quando Santina aveva otto anni si recò, con la moglie di Don Sabbaturi Marino, amici di famiglia e vicini di casa ,a vedere questo palazzo, senza sapere che un giorno sarebbe stata la sua casa. Casa che negli anni settanta, per una buona metà fu espropriata e abbattuta dalle Ferrovie, in seguito ad ampliamento della linea e alla costruzione di un sottopassaggio, cosa che addolorò molto Santina, che vide dimezzate le stanze, dove era vissuta per tanti anni.
Alfio, gestiva i vigneti di Passopisciaro che appartenevano alla famosa “Cilistrina”di Guardia,donna emancipata estroversa e intraprendente, che fumava e che in tempi di guerra, Alfio, non fumando, le passava la razione di sigari che lo Stato passava a lui. La “Cilistrina” oltre ai vigneti di Passopisciaro, possedeva, grandi estensioni di terre coltivate a vigneti, nella zona dietro la chiesa di Guardia, che Alfio gestiva con impegno e con grossi introiti per entrambi. Le vendemmie duravano almeno quindici giorni con ciurme che venivano da Messina. Aveva pure in gabella una grande proprietà di don Paolino, grosso proprietario terriero che ad Alfio fece guadagnare molti soldi. Si racconta che don Paolino avesse sposato una delle due figlie della sua amante e tutte e tre vivevano a casa sua, come amanti, d’amore e d’accordo.
Quando don Paolino morì, Alfio era presente e tutti sentirono un forte scampanellio del lampadario che cominciò a muoversi, senza che a nessuno potesse venire in mente che poteva trattarsi di un terremoto, ma tutti pensarono all’anima di don Paolino che si presentava al Padre Eterno. Alfio ebbe tanta paura, rientrò a casa con gran premura e lo raccontò a tutti, sconvolto dall’evento, ritenuto sovrannaturale.
Nel periodo delle vendemmie, Alfio, con la sua famiglia si trasferiva a Passopisciaro in alcune stanze del palazzo, messe a sua disposizione, per l’occasione.
Era un periodo di grande divertimento, mia madre allora ragazzina, lo ricordava con gioia.
Un momento di grande convivialità. Mia nonna con altre donne che l’aiutavano, preparava il pranzo per i vendemmiatori che così si articolava: la mattina, un peperone arrostito a testa, servito su una foglia di vite, (non c’erano i piatti di plastica e i piatti di ceramica molto rustici, appositi, per i vendemmiatori si utilizzavano a pranzo e a cena) A mezzogiorno, pasta con i ceci, alle 15-16 insalata di pomidoro con olive schiacciate, cipolla rossa di Calabria, peperoni e finocchi sott’aceto e acciuga sottosale, preparate da Santina qualche settimana prima.
Essendo operai forestieri, la sera si fermavano sul posto, alloggiando nei vari magazzini e dopo la cena cominciavano balli e tarantelle accompagnate dalla fisarmonica, fino a tarda notte. Le ciurme erano costituite da uomini e donne da giovani e da anziani e si viveva come in una grande festa. Nascevano anche fidanzamenti e nuovi amori. Mia madre ci raccontava spesso di questi bei periodi della sua infanzia, che associava al periodo meno belli, della seconda guerra mondiale.
La famiglia abitava in un palazzo vicino alla ferrovia di Guardia un giorno, durante una incursione aerea nemica, si sono visti la casa mitragliata ed un proiettile era entrato in salotto, attraversò le pareti dell’attigua stanza da pranzo traforando la credenza e solo per fortuna nessuno era stato colpito, dopodichè decisero di trasferirsi a Passopisciaro, dove nel palazzo si erano insediati, nel frattempo, truppe Inglesi e quindi avevano anche una certa protezione. Venera, la figlia maggiore, ricordava questi tristi momenti della sua infanzia, che appena decenne, aveva vissuto, associandoli ai momenti belli della vendemmia.
Dopo la produzione del vino avveniva la commercializzazione, si ingaggiava il banditore che con mazza e tamburo girava per i paesi e” vanniava” (Bandizzava) che.”Donn’Affiu d’u parrinu ingignavu ’u vinu” cantelinando con ritmo quasi fosse una canzone.
Alfio e Santina ebbero quattro figlie femmine, Venera, Gaetana, Giuseppa e Angela che si sposarono molto giovani, come era in uso all’epoca e i genitori, ancora giovani rimasero soli.
Le ragazze quando erano ancora in casa riempivano le giornate con le faccende domestiche e ricamando il ciascuna il proprio corredo. Venera, la maggiore andava a scuola ad Acireale al collegio Arcangelo Raffaele, fece le scuole medie e dopo non volle più continuare. Allora bisognava fare tutte le mattine la strada a piedi da Guardia fino ad Acireale, oltrepassando la timpa. Il treno passava troppo presto la mattina e quando, assieme alla cugina Maria, che abitava a Scillichenti, lo prendevano, dovevano aspettare in giro per le chiese di Acireale dove Maria portava Venera a sentirsi un paio di messe almeno, intenzionata a diventare suora, cosa che poi fece, ma che in seguito, pentita, si sposò .Venera era alta un metro e ottanta e pesava 53 chili e la sua salute ne risentiva per cui Alfio fu propenso a non mandarla più a scuola e cominciò ad andare dalla sarta la Signora Angelina “A falignama”, che abitava a Guardia vicino al cinema, sarta molto brava e raffinata, dove Venera imparò a cucire e a confezionare i vestiti per la madre e le sorelle ,oltre che per se stessa.
Ad Alfio piacevano le cose belle e di tanto in tanto portava le figlie ad Acireale in un negozio di tessuti “Ne Tauli di Muraviti” a Piazza Davì vicino la gioelleria Mancini, dove il sig. Murabito, un vecchietto con gli occhiali sul naso e i baffi bianchi e con modi garbati e lenti proponeva alle ragazze, pezze intere di lino e di seta per realizzare il corredo e stoffe, per realizzare abiti, il meglio che si trovava in negozio, sapendo che Alfio li accontentava sempre dicendo: ”Spenni assai e assai trovi!”.Poi Venera, con l’aiuto della sarta tagliava gli abiti che doveva realizzare e li cuciva.
Alfio era un bell’uomo, alto, carnagione chiara, occhi scuri, capelli scuri, si vestiva con buon gusto e d’estate lo ricordo con la “paglietta” in testa, che comprava da Barbisio, in via Etnea a Catania, angolo piazza Stesicoro e che indossava per le sue uscite non lavorative. Metteva qualche goccia di profumo di zagara che teneva nello sportellino dell’armadio liberty, intarsiato, della sua camera da letto. Quando andava ad Acireale, andava in banca, oppure alle terme a farsi i fanghi per i dolori che lo martoriavano. Qualche volta mi portava con sé con l’autobus di linea della Zappalà e Torrisi, a prendere una granita con “la brioscia col tuppo” dalla allora famosa pasticceria “Bonanno” di Acireale ubicata nei pressi del cinema Margherita in via Cavour.
Mi portava pure a macinare il grano presso il mulino di S. Maria la Scala, che sorge vicino al fiume Aci, sotto la timpa di Acireale, lo accompagnava mio padre con la “giardinetta”grigia e le mie zie più piccole .Era una specie di rito. Ricordo le lunghe e fredde serate invernali ad aspettare il turno per macinare e il rumore delle pulegge che si confondeva con il rumore dell’infrangersi delle onde del mare sugli scogli vicini. E poi quei grandi sacchi chiari di farina che odorava di ”appena macinata ”e di cui mia nonna Santina avrebbe ricavato del buon pane e tante “cudduredde” per noi bambini.
Mi portava pure, verso novembre a macinare le olive, in uno dei numerosi frantoi di S. Maria degli Ammalati, quello di Messina, padre di Salvatore, attuale proprietario, anche questo, veniva vissuto come un evento, un rito e un divertimento.
Da pensionato Alfio passava le sue giornate disteso su un lettino, in una stanza, apposita per fumare la pipa con i toscanelli. La stanza aveva anche un bellissimo canterano ereditato dalla madre, dove appoggiava i toscanelli, le pipe, fiammiferi, portacenere e oggetti vari. Al centro del canterano un bellissimo sopramobile color bronzo scuro. La stanza aveva una grande cassapanca, e alle pareti un robusto appendiabiti in legno dove teneva le ”bunache” come amava chiamare le giacche. D’inverno invece trascorreva molto del suo tempo in cucina, dove Santina cucinava nei focolari a legna e dove anche a me piaceva stare in loro compagnia, specie nelle serate invernali, fredde e piovose, affascinata dallo scoppiettare del fuoco che consumava tronchi e foglie di limoni secchi e riempiva la stanza di odore di fumo misto all’odore di limone
Nelle mattinate fredde, mia nonna Santina, cucinava una gallina e poi verso le dieci era in uso mangiarne un pezzo, accompagnata da un profumato e saporito brodo, e con l’aggiunta di qualche pezzetto di pane raffermo.
Alfio si era ingegnato pure, a costruire un allarme per gli uccelli che andavano a beccare le albicocche di un maestoso albero nella sua campagna di fronte , con un campanaccio posto in alto al centro dell’albero, legato ad una lunga fune che finiva legata al balcone della casa .Di tanto in tanto si affacciava dal balcone sotto il portico, sul retro della casa e tirava a strattoni la fune .Per i poveri uccelli, a centinaia appollaiati sull’albicocco, succedeva un parapiglia, si davano ad un volo sfrenato in tutte le direzioni , poi tornava nella sua stanza a fumarsi un odoroso toscanello sminuzzato dentro una pipa.
Noi bambini, prendevamo come gioco, l’allarme rudimentale, che mio nonno aveva costruito e appena si allontanava, anche noi tiravamo la fune, per sentire il suono del grande campanaccio e vedere gli uccelli scappare come una nuvola, il nonno ci riprendeva e ci invitava alla moderazione.
Alfio, Aveva un carattere abbastanza autorevole, a volte anche autoritario, come era costume dell’epoca e quando andava in escandescenza cominciava a gridare da sembrare che spaccasse il mondo…poi tutto tornava come prima, come se nulla fosse successo.
Era generoso, troppo! E per questa sua natura molti amici e parenti ne approfittarono, non restituendo prestiti, anche molto consistenti, evidentemente dava scarsa importanza al denaro.
Alfio era una figura di riferimento per i figli e in seguito per i generi che con lui si consigliavano quando dovevano attivarsi per qualsiasi iniziativa o impresa commerciale.
I nipoti poi lo adoravamo per la sua accattivante forma di raccontare le favole di giufà, che ci faceva sbellicare dalle risate e richiedere in continuazione… “Nu cunti ’n autru”…
Le favole di Giufà erano sempre le solite ma ogni volta assumevano qualcosa di nuovo. La favola di Giufà “Cu ciciruzzu” quella di Giufà che, anziché chiudere la porta, la staccava, perché la madre le lasciava detto di “tirarsela” quando sarebbe uscito di casa. Tutto un gioco di equivoci che, quando ancora non c’era la tv dei ragazzi ci intratteneva piacevolmente specie nelle lunghe serate invernali.
Il nonno Alfio resta nel nostro immaginario come un uomo forte e coraggioso che, grazie alla fortuna di aver incontrato persone importanti, come quella volta padre don Ignazio, e alla sua intraprendenza, è riuscito a costruirsi un futuro economicamente sereno per sé e per la sua famiglia.