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da una rappresentazione de' I Civitoti in Pretura- foto di Dino Stornello
Foto tratta da una rappresentazione teatrale de’ I Civitoti in Pretura per la regia di Turi Giordano. Da sinistra: Fabio Costanzo nel ruolo di Marsillara, Guia Jelo in Cicca Stonchiti ed Enzo Tringale nell’avvocato Pappalucerna. Foto di Dino Stornello.

Cicca Stonchiti balza subito alla simpatia della gente, perché possiede una personalità estemporanea e pirotecnica e poi perché Cicca Stonchiti è una di quelle che decisamente lascia il segno: è la parte istintiva, inconsapevole, irriverente che ciascuno di noi vorrebbe nascondere magari sotto il tappeto, lontano agli sguardi indiscreti della gente. Ma Cicca Stonchiti è allo stesso tempo quella parte irrinunciabile di noi, che ciascuno confina nelle segrete stanze della propria anima. Perché oltre a essere irriverente, è anche inconsapevole. E chissà quale divertimento avrà originato agli occhi del suo padre letterario, Nino Martoglio, dalla cui penna questo personaggio è sgattaiolato fuori. Cicca Stonchiti si legge con piacere, si ascolta e si osserva con meraviglia a teatro e trova sempre il modo per sorprendere il proprio pubblico, la stessa gente a cui appartiene, con l’estro di cui Martoglio l’ha appunto munita ovvero con la stravaganza di cui si è autonomamente dotata, essendo lei sfuggita alla sorveglianza del commediografo. Cosa sarebbero I civitoti in pretura senza l’estro e il brio che contraddistinguono Cicca Stonchiti. Tutt’altro che una colpa, sono quindi, per il maestro catanese, le fughe solitarie che contraddistinguono questa straordinaria popolana, poiché solo i personaggi che sfuggono ai loro ideatori sono indimenticabili, ancorché sia questo il caso della protagonista di una farsa. Cicca Stonchiti è infatti una venere sconclusionata, che emerge dal mare magnum ribollente e travolgente del gruppo sociale a cui appartiene, letteralmente sgomitando e facendosi strada a fatica. Il confronto con l’atteggiamento flemmatico, formale del pretore, in tribunale, non potrebbe essere più stridente. Nelle anguste sale della pretura dove è stata convocata a testimoniare quello che avrebbe visto quel giorno nel lavatoio pubblico — la lite tra due sue vecchie conoscenze —, Cicca Stonchiti diventa una scheggia impazzita, assolutamente priva per natura di quei freni inibitori che impediscono a ciascuno di tradire la propria buona educazione. In pretura Cicca Stonchiti non ha neppure il benché minimo dubbio su quale maschera indossare; indosserà senz’altro quella che indossa ogni giorno e che perciò la contraddistingue, finendo così per rendere testimonianza solo a se stessa, alla propria indole e al mondo di cui lei è parte integrante, poiché solo quello lei conosce, identifica come proprio e sia pure con tutte le cautele del caso, di quello solo si fida. Cicca è nata e cresciuta nel quartiere della Civita, a Catania. La Civita è la sua sola patria; il resto della città di Catania le è pertanto estraneo e precluso, quando non ostile e del tutto indecifrabile. Modi di fare, modi di essere maturati fuori dal ristretto ambito delle conoscenze e delle amicizie del quartiere della Civita sono per Cicca Stonchiti, che di mestiere fa la lavandaia, del tutto sconosciuti e perciò anche incomprensibili. Ciò che, poi, Cicca proprio non riesce a comprendere è la lingua utilizzata dal pretore, che perciò viene definito fuori regno, straniero. Fuori regno il pretore, fuori regno Cicca Stonchiti, perché a dire il vero ciascuno dei due non comprende la lingua dell’altro. Di nessun aiuto, la mediazione linguistica dell’avvocato prima e dell’uscere poi, perché l’avvocato capisce ma non comprende, mentre l’uscere trasforma le parole di Cicca in una poltiglia maleodorante: le espressioni dialettali vengono cioè tradotte in una lingua maccheronica di cui si perde facilmente il senso e la misura. Non sono più quel dialetto vivo e palpitante della parlata catanese, non sono ancora (e non lo saranno mai) quell’italiano che unifica e in qualche modo anche consola. La sostanziale e reciproca incomprensione diviene perciò un ostacolo insormontabile, non tanto e non solo perché a essere fraintese siano parole, frasi, espressioni idiomatiche, cosa questa che di per sé impedisce il pacifico instaurarsi di una qualche forma di relazione tra il pretore in quanto rappresentante dello Stato e la testimone, ma soprattutto perché a scontrarsi sono proprio due mondi. E la debordante vitalità della popolana Stonchiti — che è tipica della sua gente e pertanto la rende tutt’uno con essa —, non fa che estendere il baratro che la separa da quel mondo altro, lo Stato, che il pretore rappresenta; uno Stato che può essere contiguo fisicamente, ma che è culturalmente lontanissimo e sembra non curarsi dei suoi cittadini più fragili. Cicca si esprime con il corpo e con il ritmo accelerato del respiro, a cui le parole fanno eco. La sua parlata trabocca poesia, perché le sue parole sono musica. Il quartiere Civita è vicino alla città di Catania, anzi è parte integrante della città; e tuttavia, è integrante ma non è integrato. Per i civitoti convocati in pretura semplicemente lo Stato non esiste, perché non si prende cura della sua gente, ma è anzi uno Stato che convoca, ammonisce, punisce e parla una lingua incomprensibile. E si badi che le lingue siano differenti vuol dire anche che i ritmi di vita siano essi stessi differenti: nella vita come nella comunicazione è sempre una questione di tempi. E poiché non v’è alcun dubbio che sia la lingua a stabilire quali siano i limiti invalicabili del mondo in cui gli esseri umani vivono, allora è altrettanto indubbio che il pretore viva (eticamente!) soltanto nel suo ristretto ambito fatto di regole, leggi, prescrizioni, decreti; mondo dal quale non è mai venuto fuori, perché troppo compreso nel proprio ruolo. In quanto alla testimone Cicca Stonchiti, cos’altro le si potrebbe chiedere: Cicca con la sua dabbenaggine ci fa ridere e ci fa riflettere. Le risate grasse, che certo ci mettono di buonumore, ci lasciano tuttavia in bocca un retrogusto amarognolo, appena percepibile.

Massimiliano Magnano