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Joan Mirò, Woman and bird in the moonlight, 1949

 

Joan Mirò, Woman and bird in the moonlight, 1949
Joan Mirò, Woman and bird in the moonlight, 1949

 

Spiegare un filo all’eterno ritorno. Piegarlo al significato primo di concentrazione. Concentrare in un umile cerchio l’avviso di reiterazione, circolarità delle contingenze. E non solo. Tingere d’un ramato oro le squame o stelle, pulviscolo d’un non ben identificato, globo. La globalità dell’individualità, la finitezza, unica dello stesso. Globo. O individuo. Un Uroboro si plasma in cerchio. È plasmato. Un Uroboro divora la propria coda, rigenerandosi. Alchemico simbolo della ripetizione, dell’auto-generazione. Dal solido al liquido, all’aereo. E ritorno. L’Uroboro come monito, protezione. Avviso d’un ciclo che su più piani, livelli, manifesta la sua ingerenza, come l’avvento d’una goccia celeste, traversante strati di diverse consistenze / volatili e non / incidente solchi, plasmante strutture, per poi congiungersi, forse, al contesto acquatico, di ulteriore forza, imponenza. E ricominciare, ancora, verso.

L’impossibile

Potrebbe avere fattezze cangianti secondo il concetto stesso di assenza d’occasione, un concetto variabile con le convinzioni. Potremmo dunque chiederci, “è forse concepibile ammettere il volo d’un rosa ippogrifo per i trasporti terra-luna?” In diritto no. Se contenuto in delibera, di fatti, la renderebbe inapplicabile. Per chi pratica il frutto, maturo sempre, dell’immaginifica visione, può essere invece ordinaria amministrazione. E ancora, “è forse plausibile ammettere la netta separazione tra ius e iustitia?” Per quanto verosimile adynaton, sia il citato divoratore di immaginazione che le restanti parti ammetterebbero il vigore dell’antico summum ius, summa iniuria. Ogni Luna se pur mirabile in pozzo manterrà, per pacifico amor di scienza, dimensioni celesti e, al tempo stesso, pur mutando la sua, terrestre, percezione in fase, permarrà  in sé piena. È dunque proteiforme il concetto di impossibilità, Caligola[1] lo cerca ai confini del mondo e di se stesso. L’impossibile. Ha teso le mani. Incontrando la sua specchiata effige. L’odiato riflesso “come uno sputo sul viso”. Nella ricerca dell’irrealizzabile, la fredda superficie, portale di inconsce verità incontra la propria rifrazione. Immanente ippogrifo, desiderante la Luna. E per quanto in vita si manifestasse l’acredine mortifera, con l’approssimarsi della Nera Dama ecco, in lui, Caligola, esplodere l’esclamazione “alla storia! Sono ancora vivo![2]”.

L’Uroboro ha divorato se stesso per rigenerarsi, ha divorato il circostante e la precedente immagine di sé. Ha mutato pelle. È. In divenire. Nel prossimo decesso la squama stellata ritrova splendore. Il black hole non è dunque finale termine. È, esso stesso sole, richiamante energie, inverso meccanismo di concentrazione, avverso all’ordinaria dispersione. Ma se ogni cosa è destinata alla ciclicità, se tutto tende ad un comune fine, sarebbe allora possibile ammettere, all’interno di ciascuno, la presenza “di un qualcosa” dotato di maggiore forza rispetto l’individuo ospitante. Uno o più elementi che potrebbero comportare l’autoaffermazione inside of me, there’s something stronger, even than myself.

Ma se dovessimo, come colpevole ammissione, accettare l’estranea fortifica presenza rischieremmo, da un lato, di legittimare teorie fataliste, o peggio, dottrine depennanti l’autodeterminazione e quindi avallanti l’irresponsabilità di ciascuno, un’irresponsabilità che per osmosi si trasmetterebbe ad ogni contesto o contenitore.

Una osmosi che renderebbe impraticabile, a sua volta, consapevoli ammissioni poiché si smarrirebbe la certezza della derivazione della determinazione. Se provassimo ad individuare il concetto dell’intima altra presenza da una diversa angolazione, un’angolazione meno incline al tragico, potrebbe essere, forse, intesa (l’intima presenza) come propensione, dono, scintilla la cui contemplazione, ricerca e conoscenza comporterebbe, magari, possibilità precedentemente considerate non contemplabili. Di certo simili esplorazioni non sono facilmente realizzabili, e probabilmente tali difficoltà potremmo paragonarle all’erculea fatica con Atlante e Ladone, quello stesso Ladone, serpente dai mille occhi, protettore dell’albero ebbro di splendenti pomi, difensore delle custodi astrali. Quello stesso albero identificabile a sua volta con l’arcanum alchemico, essenza vitale, eterea, volatile, insieme di teneri, preziosi elementi, celati ad ognuno in un eterno vespro, o tramonto, avvezzo alle mitiche, ritualità dell’occulto.

 

[1] Albert Camus, Caligola, Tascabili Bompiani, 2011;

[2] Ivi.