Il mio approccio alla figura di Antonio Canepa e alla formazione dell’Evis (esercito volontario per l’indipendenza siciliana) può definirsi assolutamente vergine. Ammetto, infatti, la mia ignoranza: sconoscevo del tutto le azioni di Canepa, non sapevo nemmeno della sua esistenza e avevo solo avuto una piccola infarinatura di tutto il ginepraio di vicende che accompagnarono gli anni che grosso modo vanno dal 1942 al 1945. Infarinatura ottenuta per cultura personale, non certo perché frutto di ricerche accurate effettuate durante l’età scolastica. Avevo sempre associato l’indipendentismo siciliano alla mafia. Sapevo dell’esistenza del movimento ma le mie informazioni terminavano lì. Non avevo mai sentito parlare di correnti interne al movimento indipendentista, ne’ di un gruppo intellettuale e socialista che faceva riferimento a Canepa. Tantomeno avevo sentito parlare dell’Evis. Eppure mi sento di affermare, senza ombra di retorica, che quel triennio è stato cruciale, per non dire essenziale, per le sorti della nostra isola. Quel triennio è forse la vera chiave di lettura per comprendere tutta una serie di vicissitudini che accompagnano ancora la storia contemporanea siciliana. Quel triennio è stato il momento determinante, tolto lo sbarco alleato del 1943, che ha segnato le sorti di questa terra amata e odiata. Studiare a fondo quel triennio è come immergersi nel fango sino alle ginocchia e viene quasi da sorridere se si pensa allo scandalo della cosiddetta trattativa stato-mafia avvenuta negli anni ’90. Già c’era stata, a suo tempo, una prima trattativa stato-mafia, con la gentile garanzia degli alleati, in particolar modo dell’esercito americano, che consentì sostanzialmente di far sbarcare i Marines a Licata senza che nessuno si scomponesse. Fatti efficacemente illustrati dallo storico dimenticato Michele Pantaleone, anche lui vittima di una sorta di ostracismo civile. Ma questa è un’altra storia che non affronteremo oggi. Rimando, per maggior informazioni sulla questione, al saggio di Mario Grasso “Michele Pantaleone personaggio scomodo” e ad un mio modesto articolo apparso sulla rivista Lunarionuovo nel mese di maggio 2015. Per comprendere meglio il tragico destino di questo personaggio, è opportuno iniziare dalle origini del movimento indipendentista. La mia fonte principale è stato il bellissimo e corposo testo dello storico Filippo Gaja, “L’esercito della lupara”, da me recuperato presso il centro studi Feliciano Rossitto di Ragusa. Un testo che non si trova facilmente, probabilmente perché i fatti raccontati, permettetemi l’espressione, fanno le pulci alla cosiddetta storia ufficiale. Avevo anche tentato di googolare il nome “Antonio Canepa” ed “Evis” per cercare di capire cosa dicesse sua maestà internet della questione, ma a parte la solita pagina su Wikipedia che non dice molto e qualche articolo, non è che ci fosse poi molto. Non ero rimasta soddisfatta e per questo motivo, decido di mettermi alla ricerca di una copia del testo di Gaja e la trovo presso il centro studi. Dunque, tutto ha inizio nel 1936, quando c’era stato un primo vagito di quello che sarà poi ribattezzato movimento indipendentista: una retata di studenti dell’Università di Palermo. La cosa però non andrò oltre e non preoccupò nessuno più di tanto. Nel 1941 era arrivato alla polizia fascista un opuscolo dal titolo “Elogio del Latifondo”, di stampo nettamente separatista e reazionario apparso a Palermo e scritto da un personaggio ambiguo e quantomeno nebuloso: Lucio Tasca Barone di Bordonaro. In sostanza, Lucio Tasca sosteneva che il latifondo era l’unica realtà che poteva permettere alla Sicilia di sopravvivere. Aggiungere che Tasca fosse un ricchissimo proprietario di latifondo, agrario è comprovato amico dei mafiosi, mi sembra del tutto superfluo. In ogni caso, l’opuscolo fini’ nelle mani della polizia fascista che però non vi diede nessun peso e rimase negli archivi a far compagnia alla polvere. Di spessore completamente diverso fu l’opuscolo apparso a Catania dal titolo: “La Sicilia ai Siciliani”, firmato Mario Turri che altro non era che lo pseudonimo di Antonio Canepa. La polizia fascista non riuscì ad identificarlo ma il testo non solo circolò clandestinamente anche a Messina e a Palermo, ma divenne la base ideologica della corrente progressista dell’indipendentismo siciliano. All’epoca dell’opuscolo, Canepa era un giovane professore universitario di economia, antifascista di orientamento sociale che nel 1933 assieme al fratello Luigi aveva tentato di prendere San Marino con le armi solo per dimostrare che l’anti fascismo era vivo. In quell’occasione venne arrestato, dichiarato pazzo e spedito in manicomio per qualche tempo. Dunque, già nel 1941 cominciarono a formarmi alcuni gruppi di stampo separatista, anche se ancora erano isolati e non avevano una precisa organizzazione. A Palermo si riunivano a casa di Lucio Tasca. A Catania, invece, il gruppo era composto dai duchi Fra cresco e Guglielmo Carcaci, Santi Rindone, Bruno di Belmonte, Gallo Poggi e Giovanni Patti. A Nicosia dal barone Stefano La Motta, a Mistretta da Gioacchino Salomone e a Caltagirone dall’ex deputato La Rosa. E sin dalle origini, cominciano a delinearsi le fazioni, le stesse fazioni che alla lunga hanno ucciso il movimento e permesso alla mafia di conquistare, sostanzialmente, l’Isola. La corrente separatista di destra, a Catania, rifiutava qualsiasi apporto alla causa separatista proveniente da altre forze antifasciste. Sostenevano, infatti, che alla lunga si sarebbero rivelate sostenitrici dello stato centrale. Le altre forze potevano essere rappresentate dai comunisti che avevano condotto azioni antifasciste e che potevano apportare un valido contributo alla causa. A Palermo, invece, il leader incontrastato era Andrea Finocchiaro Aprile su cui non mi soffermerò a parlare oggi perché non abbiamo a disposizione tre vite. Finocchiaro Aprile, invece, sosteneva un’alleanza con gli antifascisti e diceva, inoltre, di avere contatti con i servizi segreti alleati, in particolar modo con gli americani che volevano fare della Sicilia la Svizzera del Mediterraneo. La figura di Finocchiaro Aprile diventa cruciale in questo periodo. Diventa in qualche modo garante delle varie correnti del separatismo: da una parte, dunque, i reazionari amici dei baroni mafiosi e dall’altra gli intellettuali di Antonio Canepa e Antonino Varvaro. Per questo motivo, Finocchiaro Aprile viene eletto presidente dei gruppi Sicilia e Libertà, nuclei democratici sparsi un po’ dappertutto. Bisogna specificare, però, che Antonio Canepa non partecipò alle discussioni di quel periodo. Nel 1943, infatti, stava conducendo un’azione di sabotaggio all’aeroporto di Gerbini, munito di esplosivo fornito dai servizi segreti inglesi, per ostacolare le incursioni aeree tedesche. Probabilmente, se si fosse trovato a Catania, avrebbe cercato in tutti i modi di far alleare le forze comuniste con quelle separatiste, anche se già all’epoca era molto malvisto dall’ala aristocratica e agraria rappresentata a Catania dai Carcaci. Ma, in ogni caso, grazie alle trattative di Finocchiaro Aprile che cercava l’appoggio di mafia, aristocrazia e clero, la cosa sembrava fatta. Una volta avvenuto lo sbarco degli alleati, avrebbero presentato loro un atto ufficiale in cui tutto il popolo siciliano si dichiarava favorevole al separatismo. E in effetti la frattura fra esercito e popolazione era avvenuta tanto tempo fa e non era difficile intuire che la gente li avrebbe seguiti. Per maggiori informazioni su questo argomento, però, rimando al testo di Gaja.
Dunque, i separatisti fra il 20 e il 22 luglio del 1943, prima dell’arrivo degli americani a Palermo, i separatisti si erano riuniti per formare un governo provvisorio. L’opinione pubblica sembrava appoggiare la soluzione separatista e anche la stampa dell’epoca: dal giornale di Sicilia a l’ora. Il 28 luglio i separatisti chiesero un plebiscito agli alleati e il primo atto amministrativo effettuato da costoro fu quello di nominare il barone Lucio Tasca sindaco di Palermo, con una giunta fatta di agrari e nobili. Questo fatto, di per sé indicativo ma non per le ragioni che si crederono all’epoca, rafforzò la convinzione che il separatismo godesse del l’appoggio degli alleati. Da questo momento inizia una vera e propria opera di proselitismo da parte dell’ala reazionaria del movimento separatista che tenta di impadronirsi della pubblica amministrazione e costituire una repubblica di fatto, appoggiati dal colonnello Charles Poletti. Ma gli antifascisti e i comunisti, rimasero sdegnati da quello che si stava profilando all’orizzonte: il 90% dei 362 comuni della Sicilia erano stati affidati a sindaci separatisti reazionari, in pratica all’onorata società che da quel momento si sentì parte integrante del movimento separatista. Già il 6 dicembre del 1943, quando si svolse s Palermo una riunione con tutti i capi separatisti dell’isola, partecipò don Calogero Vizzini, quale capo riconosciuto della mafia isolana. E il giorno dopo furono distribuiti i distintivi separatisti con il numero 49 ad indicare la Sicilia come quarantanovesima stella degli Stati Uniti.
Com’è stato possibile, dunque, nonostante tutte le premesse favorevoli, che non si è arrivati alla formazione della Repubblica separata di Sicilia? Per rispondere a questa domanda, bisogna immergersi nella seconda parte di questa mia breve e per forza di cose, sintetica narrazione. Il fatto di essersi consegnati mani e piedi agli alleati, costituendo addirittura un esercito di volontari che vennero denominati cavalieri della libertà, non venne minimamente tenuto in conto dagli americani. Questo pseudo esercito, infatti, era accampato alla meno peggio, doveva sopravvivere da solo e senza nessun aiuto. Si costituì anche una segreteria del movimento affidata ad Antonino Varvaro, uomo noto per le sue idee progressiste ma che fu sostanzialmente una carica puramente onorifica. Il vero sviluppo del movimento, infatti, era da ricercare a destra e in particolare nelle azioni sotterranee affidate a Finocchiaro Aprile, uomo molto apprezzato dalla diplomazia britannica in quanto dotato di acume politico e soprattutto aveva illustrato in maniera esatta la situazione politica dell’isola. Il problema principale degli alleati, infatti, era che in Sicilia avevano riscontrato nel comunismo una forza capace di organizzarsi, pronta ad inserirsi in quella situazione precaria. Anche dal nord dell’Italia, dal punto di vista degli alleati, giungevano notizie preoccupanti. Per loro, infatti, il comunismo era la vera forza di opposizione al fascismo e stava lottando sul campo con azioni concrete. Probabilmente, sarebbe stata l’unica forza a sopravvivere dopo la guerra. Per questo motivo, nel caso in cui l’Italia fosse diventata dopo la guerra una repubblica di orientamento socialista, agli alleati premeva che la Sicilia diventasse separata, anticomunista e alleata con le forze occidentali. Avrebbe assunto, dunque, un’importanza strategica. Per questo motivo, premevano sulle forze agrarie, mafiose, aristocratiche e cattoliche. Ma gli alleati non avevano fatto il conto con un dato incontrovertibile: le masse, infatti, non si infiammavano. La piccola borghesia, non sembrava rispondere al sollecito dei grandi baroni feudatari. Anche la classe media, i funzionari siciliani legati allo stato italiano, non s’impegnarono nella causa del separatismo di destra. Scontavano così, i loro macroscopici errori storici. Probabilmente per questo motivo, e anche perché i comunisti siciliani cominciarono a prendere contatto con alcune delegazioni sovietiche, l’ appoggio degli alleati in Sicilia si fece meno aperto. Sorvolerò su tutti gli illustri personaggi che a torto o ragione dissero la propria sulla questione dell’indipendenza siciliana, da Churchill a Togliatti fino a Badoglio. Sta di fatto che, alla fine, l’interesse alleato ad una Sicilia indipendente veniva rimesso in discussione, in favore magari di una forza politica ancora piccola ma che già cominciava a profilarsi all’orizzonte: la democrazia cristiana, anche se non esisteva ancora ufficialmente e si trattava solo di uno stato embrionale. Per comprendere meglio questi avvenimenti, basta avere in mente ben fermi alcuni punti chiave: gli alleati avevano interesse affinché l’Italia restasse sotto il proprio dominio e temevano come la peste nera l’avvento del comunismo. E i separatisti impararono una lezione fondamentale della storia: nessuna nazione straniera dona così, a caso, l’indipendenza ad un’altra nazione solo per gentile concessione senza pretendere nulla in cambio. Per questo motivo, cominciò a profilarsi sempre più viva l’idea che bisognava forzare il destino e prendere le armi per raggiungere l’indipendenza. Un’idea, questa, che faceva ribrezzo ai latifondisti e alla destra separatista perché avrebbe potuto liberare forze popolari incontrollabili. Il voltafaccia alleato ebbe ripercussioni che influenzarono tutta la politica italiana e siciliana praticamente fino ai giorni nostri. La decisione di consegnare la Sicilia all’Italia giunse inattesa nella popolazione, ormai convinta che la proclamazione di una repubblica indipendente era cosa fatta. Comizi di paese, erano all’ordine del giorno, e cominciarono i primi moti di sdegno. Finocchiaro Aprile a Palermo annunciò il passaggio di poteri al governo Badoglio ma il suo discorso parve decisamente orientato verso il compromesso, tanto che il primo alto commissario per la Sicilia fu Francesco Mussotto che aveva parecchi amici fra i separatisti che nel 1944 fu sostituito con il democristiano Aldisio. E fu quella la nascita di quella che viene definita senza mezzi termini da Gaja di una guerra civile. Era la rivolta delle masse, vessate dalla povertà e dalle tasse. I sindaci separatisti furono tutti destituiti. Anche Finocchiaro Aprile denunciò apertamente le angherie che venivano subite e si parlava sempre più apertamente di prendere le armi, certo comunque che gli alleati giocavano su due tavoli: da un lato, infatti, continuavano a guardare di buon occhio il movimento separatista. Si cercò di forzare la mano al governo centrale affinché concedesse l’indipendenza e per tutto il 1944 si tennero riunioni a Catania e a Palermo dagli aristocratici agrari per studiare una complessa manovra militare e politica che cercava di conciliare gli opposti. Ma il problema siciliano venne alla ribalta internazionale nel 1945, durante la conferenza di San Francisco. Fu li che vennero maturate le scelte di fondo del governo americano, inglese, italiano e della mafia, collocata incredibilmente, sullo stesso piano delle forze istituzionali. Era l’onorata società ad essere considerata potere dagli stranieri e che ci piaccia o no il separatismo per gli americani era identificato con essa. Il resto non esisteva. Ma due giorni dopo la fine del congresso, la situazione precipitò. Roma diramò un comunicato in cui definiva intollerabile che una regione si separasse dal resto della nazione. E bollò come sentimento popolare tutta la questione. Ma in realtà, il vero sentimento separatista, non era morto nelle masse che continuavano a manifestare sentimenti anti italiani. Ma gli aristocratici e gli agrari avevano mire più oscure. Ed è a questo punto che entra in gioco l’evis e l’azione di Antonio Canepa.
In un contesto così complesso come quello che si è appena delineato, come inserire la figura e l’azione di Antonio Canepa? L’evis ( esercito volontario per l’indipendenza siciliana), nacque per una precisa iniziativa personale di Antonio Canepa che dopo i fatti dell’aeroporto di Gerbini del 1943, era scappato da Catania e si era diretto in missione al nord. Alcune notizie, infatti, lo collocano a Firenze nel 1944. Canepa si era unito ai partigiani e pare, secondo quanto riportato da Gaja che i tedeschi avessi messo una taglia su di lui. Tornò a Catania nel 1944 e si mise a capo dell’evis, quando già sostanzialmente i giochi erano fatti. Canepa, infatti, riteneva che l’indipendenza poteva essere conquistata con la forza ed era trattato dai vertici del movimento con una certa freddezza. Era notoriamente un uomo di sinistra e criticata apertamente i latifondisti. Canepa, però, non era soltanto un progressista. Era un comunista con la tessera di partito e aveva relazionato al partito la situazione siciliana: se avesse prevalso la classe agraria, la Sicilia sarebbe diventata una repubblica colerico-aristocratica. Se avesse prevalso la linea dei duchi di Carcaci, sarebbe diventata una monarchia retta da una famiglia nobile. Nonostante fosse un comunista e avesse setto legami con i dirigenti del partito in Sicilia, restava fedele all’idea separatista. Alla sua personalissima idea di separatismo, cioè un movimento con base prettamente popolare che nulla o poco aveva a che vedere con la linea reazionaria predominante. I dirigenti del partito comunista, all’inizio, pensarono di non abbandonarlo e di metterlo sotto la tutela ideologica di Edoardo d’Onofrio. Una lettera di D’Onofrio, infatti, conferma questa linea: pur sostenendo l’incompatibilità fra l’ideale dei comunisti che si opponevano all’indipendenza siciliana, Canepa era ben conscio dell’apparente incompatibilità ma spiegava anche come la sua idea di separatismo avesse come base ideologica la risoluzione di alcuni problemi sociali della popolazione. Pur accennando a queste incompatibilità e arrivando alla conclusione che Canepa più che marxista in realtà fosse anarchico, D’onofrio lo dipinge come “una promessa”, “intelligente” e “coraggioso”. Cose che in Sicilia, lasciatemele dire, non hanno mai significato niente. In ogni caso, il gruppo armato di Canepa si formò e fu Antonino Varvaro a proporre lui come capo militare. Varvaro era entusiasta, i vertici capeggiati da Lucio tasca adottarono il solito compromesso: il comandante supremo sarebbe stato Guglielmo Paternò Carcaci, Canepa avrebbe avuto una sua brigata organizzata utilizzando i metodi dei partigiani jugoslavi. Ma quando un uomo è energico e d’azione, lo dimostra anche con un drappello di uomini e non ha bisogno di cariche pompose. Di Canepa, a Catania, si sapeva poco. Molti non sapevano neanche che fosse separatista. Eppure, aveva assimilato una mentalità cospirativa, avendo lavorato con i servizi segreti inglesi per l’attentato all’aeroporto di Gerbini. Cominciò a costituire la sua brigata riunendoli nei luoghi più insoliti, cambiando spesso il posto è dotandoli di documenti falsi e nomi di battaglia. Inizialmente facevano parte della sua brigata uomini della classe media: studenti, commercianti, giovani professionisti di fede democratica. Canepa conquistava per la sua passione democratica e per la mancanza assoluta di interessi personali. La brigata Canepa, cominciò ad esistere nel 1945. La prima formazione militare si accampò a cesare’, presso il lago bivieri, in una zona della Sicilia orientale montagnosa e boscosa. Un posto tipico per la guerriglia. Avevano armi alleate e tedesche raccolte dallo stesso Canepa e i rifornimenti giungevano direttamente da Palermo. In nucleo iniziale era costituito da 60 uomini, quasi tutti con esperienza militare, avevano un’uniforme color cachi e l’emblema della Trinacria ai baveri, la loro bandiera era a strisce 4 rosse e 5 gialle, con un quadrato azzurro a lato r la raffigurazione della Trinacria. Inoltre, Canepa arruolava anche sul posto: braccianti e artigiani principalmente. La brigata si riforniva nei proprietari terrieri e rilasciava ricevute in nome del popolo siciliano e la popolazione era molto soddisfatta perché la brigata aveva liberato la zona dai banditi. Anche i carabinieri, dunque, li lasciavano fare e non ebbero mai nessun incidente con le forze dell’ordine. Le cose cominciarono a diventare problematiche quando Lucio tasca, da Palermo, comunica a Canepa che un’alleanza con i banditi avrebbe favorito il controllo totale del territorio. Canepa mandò una risposta sdegnata. Inoltre, tre guerriglieri avevano rapinato alcuni contadini e Canepa ordinò che venissero fucilati. La linea di Canepa, era chiara. A maggio, la brigata occupò la caserma della guardia forestale di monte soro. A quel punto le forze dell’ordine cominciarono a temerlo perché Canepa aveva il sostegno della popolazione e ne sarebbe nata una vera e propria guerriglia perché i separatisti erano ovunque, in qualunque forza di polizia, magistratura, ufficio. A maggio, la polizia individuò il covo della brigata, ma per tutta risposta Canepa non fece trovare nulla sul posto. La polizia scovò solo il nascondiglio delle armi. Dopo qualche settimana, si ricostituì nella stessa zona. Nelle intenzioni di Canepa, si sarebbe dovuto passare all’azione non prima dell’autunno del 1945 e aveva intenzione di creare 16 raggruppamenti in tutta la Sicilia che si sarebbero trasformate in altrettante brigate con a capo uomini da lui addestrati. I particolari delle azioni sono stati ritrovati fra le sue carte dopo la sua morte. Particolare interessante: emergeva fra gli appunti l’intenzione di far pagare le spese delle occupazioni ai ricchi possidenti, amici o nemici che fossero. E in effetti, i suoi rapporti con l’ala destra del movimento erano ridotti al minimo. Cercava, infatti, un modo per finanziarsi come colpi in banca o vendita di armi. Il suo esercito era pienamente condiviso dalla popolazione e molti giovani chiedevano di entrarvi volontariamente. Canepa, dunque, voleva fare del suo esercito una forza capace di imporre, una volta ottenuta l’indipendenza, una politica sociale di autentiche riforme. Nel suo la Sicilia ai siciliani aveva scritto chiaramente che o i feudatari daranno le terre o daranno le teste. Nel settembre o ottobre del 1945 pensava di passare all’azione e aveva avuto queste discussioni con qualche dirigente comunista. Era convinto che polizia e carabinieri non avrebbero potuto contenere l’esercito separatista e ciò avrebbe portato alla fine alla costituzione della Sicilia come prima repubblica socialista europea. Uno degli ultimi incontri di Canepa con il partito si svolse a Catania, in via di San Giuliano numero 269 e incontrò resistenze. Questi contatti non sfuggirono nemmeno alla destra separatista, informata da una spia che aveva fra i suoi uomini. E fu così che il 19 giugno del 1945, fra Randazzo e Cesarò , avvenne l’attentato a Canepa che rimase ucciso. Ufficialmente, uno scontro a fuoco con i carabinieri. La Sicilia dell’epoca parlò di un furgoncino con a bordo persone dal fare sospetto. La pattuglia dei carabinieri intimo’ l’alt, il furgoncino si fermò ma gli uomini a bordo hanno cominciato a sparare, lanciando una bomba a mano. I carabinieri risposero al fuoco facendo tre morti e due feriti. I due feriti riuscirono a scappare, i tre morti furono identificati come appartenenti al movimento separatista. Sul furgone armi da guerra e forti somme di denaro. Secondo quando riportato da Gaja, invece, le cose andarono diversamente. Lo storico, ci spiega, ha avuto confidenze da fonti autorevoli che hanno vissuto in quel periodo ma che hanno deciso di restare anonime. I tre morti erano Canepa, Carmelo Rosano e Giuseppe giudice. Il ferito Nando romano. I due fuggiaschi erano Pippo Amato e Nino Velis. Le cose, andarono così. Canepa aveva effettuato quella notte un sequestro ai danni di un proprietario terriero restio a pagare, mandato li da qualcuno di Catania. Non era dunque una sua iniziativa personale. A un chilometro circa di Randazzo fu intimato l’alt. Già di per se era strano perché i carabinieri non l’avevano mai fatto e perché il furgone dell’evis era conosciutissimo. Il motofurgone li oltrepassò e i carabinieri aprirono il fuoco. Velis saltò giù e scappò. Amato li condusse fino in ospedale e poi scomparve. I carabinieri rintracciarono il veicolo in ospedale. Canepa, Rosano e giudice morirono dissanguati qualche ora dopo. Romano venne dato per morto e messo in una bara e trasportato insieme agli altri al cimitero di Giarre, a circa 30 chilometri di distanza da Randazzo. Il custode venne svegliato nel cuore della notte e i carabinieri gli chiesero di seppellire i corpi. Ma sulle prime rifiutò e chiese di vedere i certificati di morte. I carabinieri dissero di avere ordini superiori e così acconsentì a patto di vede il contenuto delle bare. Uno degli uomini respirava ancora, era Nando romano e il custode non l’avrebbe sotterrato per nessun motivo. Gli fu detto che si rateava di banditi uccisi in conflitto anche se era strano venirli a seppellire a Giarre e non dove era avvenuto lo scontro a fuoco e senza autorizzazione del procuratore del re. Il giorno dopo il custode informò qualcuno a Catania, perché era separatista ed è per questo motivo che la storia si è tramandata. Nando romano sopravvisse abbastanza per arruolarsi nella legione straniera. Questi, i fatti.
La domanda da un milione di dollari è: chi ha veramente voluto la morte di Canepa? Strano, infatti, che i carabinieri li abbiamo scambiati per banditi, visto che i colori dell’evis erano ben riconoscibili e tutti sapevano chi fossero. Le armi, inoltre, erano ben nascoste e non risultavano visibili, quindi nessuno dal furgoncino poteva far partire alcun colpo. Canepa stesso, inoltre, aveva sempre evitato di avere scontri con i carabinieri e non era per lui arrivato il momento di entrare in azione. L’impressione di Gaja è che qualcuno avesse passato informazioni tendenziose su Canepa, qualcuno che voleva farlo fuori, in quanto con se quella sera, aveva oltre alla somma di denaro anche documenti. Ma i documenti non sono mai stati recuperati. Solo Canepa, in realtà, fra i maggiori responsabili dell’evis ci lasciò la vita. Concetto gallo e Guglielmo di Carcaci, infatti, si ritirarono prima a Bronte e poi furono scortati dagli americani fino a Palermo. Un episodio che gallo stesso racconterà 30 anni dopo all’Europeo. I vertici del movimento, dunque, non erano invisi agli alleati. Sta di fatto che la morte di Canepa determinò la fine dell’evis. La brigata si sciolse dopo pochi giorni e la sua morte servì molto alla propaganda separatista, per il quale divenne un martire. La mia opinione prudente è che forse l’esercito di Canepa non era gradito molto dai vertici separatisti, costituito dagli agrari e dai latifondisti che, appena un mese prima della sua morte, avevano avuto contatti con il bandito Giuliano per indurlo a combattere la loro causa. Ma questo Antonio Canepa non lo sapeva. Anche se qualcuno glielo aveva accennato. La mia conclusione prudente è che Canepa sia morto in un’imboscata tesa dagli stessi vertici del movimento, riconducibili all’ala destra e conservatrice. Canepa era uomo d’azione, poco incline alle riunioni di salotto e aveva espresso sdegno nell’allearsi coi banditi. Nonostante i funerali pomposi, la prova di quanto fosse odiato resta nella storia: dimenticato da tutti, praticamente sopravvive nelle opere di qualche storico coraggioso. Ma con la sua scomparsa è scomparsa anche l’unica concreta possibilità di creare una Sicilia indipendente che no fosse però regnum mafiorum, ma quantomeno poggiata su solide basi democratiche. Dopo poco, con l’avvallo anche di don Calogero Vizzini, nonostante le proteste di Antonino Varvaro, l’unico ormai a cercare la sollevazione popolare per portare avanti la causa indipendentista, la mafia e i banditi entrano prepotentemente in gioco, insieme ai cosiddetti baroni rivoluzionari. Anche se l’unico vero vincitore, al tavolo da gioco, è sempre chi dà le carte. In questo caso, spiace dirlo, ma è Cosa Nostra, con la connivenza esplicita o implicita dei feudatari, dell’allora già inesistente stato italiano e degli alleati inglesi e americani. Il bandito Giuliano alla fine finirà come tutti sanno. Il sogno indipendentista pure.