Giovanni Formisano è considerato il vero poeta dell’amore sin dal suo esordio con “Mennula amara” nel 1905, ma anche il cantore del mondo affettivo dei siciliani. Fu autore di canzoni, scritte in dialetto siciliano, come “E vui durmiti ancora”, “Luntananza”, “Taurmina”, “Varcuzza abbannunata”, “Lavannara”, “A me matri”, ecc. Luigi Pirandello lo definisce “… un poeta appassionato, malinconico, amaro, un vero schietto e personalissimo poeta…”. La poesia di Formisano , chiara e limpida, è dettata dal canto sincero dell’anima.
Marco Scalabrino, nel cinquantesimo anniversario della morte di Formisano, gli ha dedicato un libro dal titolo “Giovanni Formisano. Poeta e commediografo”. I giudizi dei suoi critici sono più o meno lusinghieri e vanno dal tono “monocorde, sovrabbondante, ripetitivo” per quanto riguarda i contenuti, alla “versificazione scorrevole e musicale, e ad un periodare con voli non particolarmente brillanti”, dal punto di vista dello stile.
Catania ha dedicato al suo illustre concittadino, in piazza Majorana, un monumento a forma di libro aperto, su cui campeggiano il busto bronzeo del poeta e alcuni dei suoi versi immortali, in particolare i versi della canzonetta-serenata, che qualcuno definisce mattinata “E vui durmiti ancora”, musicata in una sola notte dal catanese Gaetano Emanuele Calì.
Generalmente come canzoni siciliane si ricordano “Ciuri, ciuri” e “Vitti ‘na crozza” , ma una delle più belle canzoni d’amore è senz’altro “E vui durmiti ancora”, un’antica serenata siciliana, considerata l’autentico inno di Catania, alla quale Giovanni Formisano è indissolubilmente legato e su cui è giusto riferire il singolare fatto, citato dal prof. Santi Correnti, risalente al 1916 proprio mentre si fronteggiavano sulla Carnia, gli eserciti austriaci e italiani: “Sul fronte della Carnia, durante la prima guerra mondiale, una sera, al chiaro di luna, un giovane soldato siciliano intonò la canzone “E vui durmiti ancora”. Il silenzio che aleggiava dava voce solo alle note della “mattinata”. Al termine dell’esecuzione si sentirono le espressioni di apprezzamento degli avversari austriaci: non arrivarono a capire il senso, ma rimasero incantati dalla bellezza della musica”.
Ma Giovanni Formisano non si rivelò sempre un poeta sentimentale ed appassionato perchè fu anche amaro ed ironico e perfino sarcastico, per cui la bellissima e musicale canzonetta-serenata, “E vui durmiti ancora” non può essere vista esclusivamente “un trobadorico deferente rispetto della signora amata”, come pensano alcuni, ma un’allusione all’inazione ed alla rassegnazione, cioè una metafora del disimpegno dei Siciliani, considerata anche la storia triste del loro comportamento, che ha generato la condizione di cui hanno parlato Verga ed altri intellettuali isolani. La realtà della Sicilia è il prodotto del comportamento caratteriale del popolo siciliano, che ha sopportato sempre le angherie e lo sfruttamento fatti da tutti gli invasori. Per esempio la complessità della novella verghiana “Rosso Malpelo”, è un esempio di come il popolo sfruttato sta dalla parte degli sfruttatori, condividendone “la mentalità grettamente utilitaristica”. Infatti Rosso Malpelo accetta la violenza del sistema sociale e non s’oppone ad essa, ma ne svela con lucidità i meccanismi e l’ipocrisia. Egli non è un debole e neppure un ingenuo, non appartiene alla numerosa schiera delle creature verghiane miti e inerti, “ha saltato il fossato della consapevolezza della situazione ma si arresta dinanzi all’altro della protesta e della ribellione”.
Il popolo siciliano faceva soltanto festa ogni volta che un vicerè lasciava la Sicilia, perché pensava che il nuovo sarebbe stato migliore e avrebbe apportato il cambiamento. Nessuno, però, ha pensato mai di rovesciare l’istituzione costituita, perché il popolo ha avuto fatalisticamente sempre l’idea che il mutamento dovesse arrivare dall’alto. Tuona su questa avvilente mentalità dei Siciliani il poeta Ignazio Buttitta, quando, in una sua poesia della raccolta “Lu pani si chiama pani”, dal titolo “Parru cu tia”, dice ironicamente, rivolgendosi al popolo: “Parru cu tia, / to è la curpa; / cu tia, mmenzu sta fudda/ chi fai l’indifferenti/ ntra na fumata e n’autra di pipa/ chi pari ciminera/ sutta di sta pampera( visiera)/ di la coppula vecchia e cinnirusa( cenerosa)”, e alla terza strofa rincara la dose: “Parru cu tia/ to è la curpa/ si porti lu sidduni( il basto) / e un ti lamenti”, e alla fine della lirica sembra aprire alla speranza nel ricordo di Cristo: “Genti, vinni lu jornu a li diuni( Gente è venuto il vostro giorno) / Sfarda (straccia) sta cammisazza arripizzata, / tingila e fanni un pezzu di bannera/ russa comu la tonaca di Cristu, / pi torcia lu to vrazzu e lu to pusu: / unniala(ondeggiala) a li venti a pugnu chiusu: / russa era la tonaca di Cristu!”
Per questo atteggiamento rinunciatario dei Siciliani, la Sicilia è stata tagliata fuori dalla storia dei grandi popoli e dalle grandi culture. Dice Leonardo Sciascia in “La Sicilia come metafora”: “Quest’isola non ha conosciuto il nuovo, portato dagli eserciti napoleonici, non più della resistenza al fascismo, come invece il resto del Mezzogiorno e soprattutto il Norditalia. Qui non ci si è accorti della caduta di Mussolini come non ci si è accorti chiaramente della sua ascesa al potere, e siamo passati dall’amministrazione mussoliniana a quella dell’AMGOT (Governo militare alleato dei territori occupati), senza traccia alcuna di inquietudine. Questi momenti di transizione, e dunque di rottura, ci mancano terribilmente ancora oggi”.
Ci si interroga sempre del perché la Sicilia sembra abbia voluto sottrarsi alla storia. Don Fabrizio Salina risponde così su una sollecitazione sull’argomento, ne “Il Gattopardo”: “Credete davvero, Chevalley, di essere il primo a cercar di immettere la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti iman, venuti da terre musulmane, quanti cavalieri del re Ruggero, quanti scrivani degli Svevi, quanti baroni del re d’Angiò, hanno concepito la stessa nobile follia; e quanti viceré spagnoli, funzionari riformatori di Carlo III? E chi sa ormai che ne è stato? La Sicilia ha voluto dormire nonostante le loro innovazioni.”
Alla luce di questo eterno sonno dei Siciliani, ben venga l’interpretazione come metafora del disimpegno della canzone “E vui durmiti ancora”, in cui dopo l’immagine, piena di poesia e di musicalità “Lu suli è già spuntatu di lu mari”, bisogna attenzionare il verso “E vui bidduzza mia durmiti ancora“, che indica l’incessabile sonno del popolo ma soprattutto quello che è il verso cruciale, l’unico ripetuto due volte, per il significato attribuito alla lirica “Lassati stari nun durmiti cchiui”, che è uno sprone verso l’azione e contro l’indifferenza. Bisogna essere attivi, in quanto membri della società, per realizzare lo sviluppo della personalità. Dice Stéphane Hessel in un volumetto del 2011 dal titolo “Indignatevi!”: “L’indifferenza è il peggiore di tutti gli atteggiamenti, dire Io che ci posso fare, mi arrangio. Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità d’indignarsi e l’impegno che ne consegue.”
Il popolo siciliano non potrebbe mai indignarsi, perché non si è mai svegliato dalla sua rassegnazione, al massimo ha agito come Giufà, la maschera simbolo della Sicilia, come Arlecchino per Venezia, o pantalone, brighella, colombina per altre città italiane. Giufà è l’anima araba della Sicilia, sinonimo di mancanza d’iniziativa. Ne fa un profilo interessante, dal punto di vista sociale, Leonardo Sciascia ancora in “La Sicilia come metafora”, quando dice: “Giufà l’innocente ha una funzione precisa: esercita una vendetta sociale contro un rappresentante dell’autorità; uccide la mosca e nello stesso tempo schiaffeggia il giudice; irresponsabile com’è, non può essere perseguito; rivelatore del ridicolo, fa ridere e nell’impunità. Ma il suo è un gesto isolato. Giufà non partecipa affatto a una beffa collettiva, a uno scherzo organizzato, come nella tradizione novellistica toscana. Egli è pur sempre completamente solo…Qui da noi è profondamente radicata l’idea che, per essere completamente se stessi, bisogna esser soli, che la solitudine è il luogo di ritrovamento di sé; che gli altri ci spartiscono, ci sezionano, ci moltiplicano … Un solo difetto in tutto questo, ed è che quando si è soli si è fatalmente d’accordo con il mondo, e che non si pensa affatto a trasformarlo, a migliorarlo o a distruggerlo. Lo si accetta qual è!” Sartre ci ha insegnato a dire a noi stessi che siamo responsabili in quanto individui. Questo è un vero messaggio libertario. L’uomo non può affidarsi né ad un potere né ad un Dio: deve impegnarsi nel nome della responsabilità di essere umano. Quindi è opportuno ribadire ancora il messaggio di Giovanni Formisano: “Lassati stari nun durmiti cchiui”.